tag:blogger.com,1999:blog-1708387473368873092024-02-06T18:41:45.630-08:00NeroEcletticaNeroEclettica pubblica i racconti di Francesco Gallone. Autore di Milano è un'Arma, il noir della kebab-generation, e La Metropoli Stanca, seguito e collasso nel genere, in questa pagina mostra gli aspetti del suo scrivere, e i retroscena del romanzo che trovate in libreria.
I racconti sono qui pubblicati senza editing (grazie a Dio...). Se volete, qui editor potete essere voi:::ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.comBlogger13125tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-74162976926671804222012-04-26T08:00:00.001-07:002012-04-26T08:00:15.202-07:00Lapidi d'Asfalto<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3AwmAzl2YcYJ7YVVy_HHfF97roZDAzmDL52hnta-5Ou5gq4hI6NlYmfF7MkTpQj6FnlSEOljNPTeVcIR3J6Tgc1vUeT-M7qAhtQFrDfhgrX4Un8CTtaf0j4Q3JGzW06CCcJRvIo6rN6h_/s1600/548116_3762668667890_1311791333_3602170_3394660_n.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3AwmAzl2YcYJ7YVVy_HHfF97roZDAzmDL52hnta-5Ou5gq4hI6NlYmfF7MkTpQj6FnlSEOljNPTeVcIR3J6Tgc1vUeT-M7qAhtQFrDfhgrX4Un8CTtaf0j4Q3JGzW06CCcJRvIo6rN6h_/s320/548116_3762668667890_1311791333_3602170_3394660_n.jpg" width="320" /></a></div>
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A casa di Deborah, a casa di Giulia, in libreria o in vendita sulla rete, Lapidi d'Asfalto è la fuori. Come loro. Come voi. Come te.</div>
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francesco gallone "LAPIDI D'ASFALTO" Eclissi Editrice</div>
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9788895200392</div>
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176 pagg, 12 euro</div>
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<a href="http://www.amazon.it/Lapidi-dasfalto-Dingo-Francesco-Gallone/dp/889520039X">Su Amazon</a></div>
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<a href="http://www.eclissieditrice.com/libri-francesco-gallone-lapidi-dasfalto-6428.html">Su Eclissi Editrice</a></div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-89902418257654653012012-03-09T06:42:00.003-08:002012-03-09T06:42:55.063-08:00<div style="text-align: center;">
Compra Milano Corri o Muori, il prequel di Milano è un'Arma!!!</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiARPiqH91g-PSZBOO2IFqEposGcm5aB3FGjD2AeHMm43dzFWaelRJNpolis26RGkH8LSJOowOOlOX4LOWh5IpcBi5Z1DKcZ-IrTm6MbTtkjlaFw4VeRLh1d6qVWHkMFz2YBhbNg5-P6EE/s1600/milano-corri-o-muori-.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiARPiqH91g-PSZBOO2IFqEposGcm5aB3FGjD2AeHMm43dzFWaelRJNpolis26RGkH8LSJOowOOlOX4LOWh5IpcBi5Z1DKcZ-IrTm6MbTtkjlaFw4VeRLh1d6qVWHkMFz2YBhbNg5-P6EE/s320/milano-corri-o-muori-.jpg" width="226" /></a></div>
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<br /></div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-31626302538908839482011-06-29T06:52:00.000-07:002011-06-29T06:57:30.475-07:00Romanzi nel cassetto: YSTAD (MMI)<em>In occasione della nascita dell'Inadeguabile e del Movimento Culturale che ne concapita, eccovi in omaggio internautico il primo tentativo di romanzo di francesco gallone. Non dimenticate, però, di passare da qui: <a href="http://www.inadeguabili.blogspot.com/">http://www.inadeguabili.blogspot.com/</a></em><br />
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D<br />
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Ed un giorno, lui morì. La guardò un’ultima volta, sorrise rassegnazione carezzandole il volto bagnato di sale, e si spense, così, una sera tranquilla d’un crudele novembre, il silenzio assoluto nelle Strade Notturne della Grande Città, nel cielo sereno di stelle ghiacciate, bagnato dalle lacrime calde di lei. Lei, lì di fianco al suo esile corpo divorato dal male, stette immobile, silente, svuotando il dolore con le lacrime, cercando di ridare al suo petto calore col proprio, stringendolo. Fu così che accadde. Sollevò la schiena, guardò di nuovo negli occhi il suo uomo, e creò il sortilegio. Capì immediatamente cos’era successo, lo comprese, non lo accettò, ma sostenne, L’ultimo bacio, un bacio di addio, una promessa fedele e leale, le sue labbra calde incontrarono quelle fredde di lui; lei diede a lui tutto l’amore. Lui diede a lei tutta la morte.<br />
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Ad Ystad, tra cinque anni…<br />
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R<br />
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Lo faceva incazzare. Che il dolore è sempre infinitesimamente più lieve del mortale, non c’è dolore che uccida, solo dolori logoranti, solo sofferenza. E questo è ingiusto. È ingiusto, toglie senso e valore ai gesti ed alle persone, crea un dolore più cinico e cosciente, che alla fine nulla è tanto importante da ucciderci. Nel bene, e nel male. Credeva.<br />
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Il Ringhio era tutto un nervo. Esile, sottile, un corpo essenziale, appena appena per vivere, non un grammo di più, un corpo che mostrava tutto ciò che aveva di dentro, espressivo. Il volto, a vent’anni, scavato come quello dei saggi o dei vecchi viaggiatori, fiero, severo, gravato di chissà quale peso. Una qualche orgogliosa rabbia scaturiva dalla sua gola con la voce, la voce di chi non dà ordini, ma neanche ne prende. Un cane randagio. Un gran bastardo, secondo molti, meglio d’un fratello, secondo quelli del suo branco. Ma adesso, il suo branco, chissà dov’era.<br />
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Ad Ystad, tra cinque anni.<br />
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S<br />
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Come ogni mattina, prese mezzo caffè. Strinse attorno al collo il cappio della cravatta, chiuse le manette dei polsini, la cintura come un guinzaglio, e la divisa, quella per farsi riconoscere, uguale a tutti gli altri, per non essere diverso, né peggiore né migliore, né penoso né inviso, dignitosa, di quella dignità che ogni lupo perde in cattività. Come ogni mattina uscì dal palazzo, come ogni mattina attraversò al semaforo, come ogni mattina si fermò a prendere il giornale, per trovare frasi già pronte da dire. Ma quella mattina, invece di voltare a destra all’incrocio grande proseguì dritto. E cominciò un nuovo viaggio.<br />
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L’Uomo con la Cravatta proseguì dritto per una decina di minuti, sovrappensiero. Diede un occhiata all’orologio, parte della divisa, s’accorse di essere in ritardo, ma non ricordava per cosa. Pensò che avrebbe dovuto avvertire qualcuno, l’ufficio, ecco, doveva andare al lavoro in ufficio, però ora non ricordava il numero. E s’accorse anche di non volerlo ricordare. Erano quasi cinque anni, ormai, che ogni mattina, escluso sabato e domenica, arrivava puntuale al lavoro, e per la prima volta si interrogò sul perché si comportasse così, su cosa lo spingesse a vivere quella vita non vita. Con bufere di dubbi nella testa, proseguiva dritto, l’Uomo Senza Più Cravatta, l’aveva tolta, gli dava fastidio, stringeva, legava, e dopo un paio d’ore di cammino in mezzo al traffico dell’ora di punta nel Mattino della Grande Città, entrò nell’androne di un vecchio palazzo fatiscente, un palazzo che lui sembrava conoscere, salì delle scale e bussò ad una porta. “Chi è?”, chiese il Ringhio dopo qualche secondo. “Sono di nuovo io…”, rispose l’Uomo. <br />
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W<br />
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loro lo so pensano io sia un idiota……………………………lo pensano non me lo dicono ma lo pensano……………..so che lo pensano……………………………………..lo pensano………………………<br />
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…………………lo capisco da come mi guardano…………….come mi parlano …………………….cosa mi dicono………………………………………………….loro pensano io sia un idiota perché……………….<br />
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………………….in fondo lo sono…………………………………………………………………………………….<br />
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……………………………………………………………………………………………………………..ho cercato<br />
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……………………………………………ho cercato di risolvere………………………………nell’unico modo possibile…………………………………..ho cercato di chiudermi nel mio guscio……………………come il pulcino al museo di stoccolma……………………………ma loro il mio guscio lo forano…….lo violano<br />
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………………………..continuano a parlarmi…………………….a chiamarmi………………………………..<br />
<br />
….io starei bene da solo nel mio guscio…………………..sono inadatto alla vita………………….perché loro pensano io sia un idiota………………………………………………………………..ed in fondo lo sono<br />
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………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..<br />
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Ad Ystad, tra cinque anni.<br />
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D<br />
Camminava osservando gli stivali rossi scivolare nelle piccole pieghe della terra, le sue ginocchia si flettevano e il suo busto si sollevava ritmicamente. Saltellava, da lontano poteva sembrare un piccolo folletto, con quel cappottino rosso e il cappellino per la pioggia, trotterellava giocoso il piccolo goblin, con l'ombrello abbandonato un paio di metri più in là in compagnia delle grida di sua madre.<br />
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La pioggia quasi confortevole le accarezzava i capelli... a cosa serve...cos'altro c'è? L'asfalto luccicava, lei ne seguiva lo scorrere sotto i piedi, com'era piccola in quell'istante. D'un tratto si fermò, si sedette a terra e si lasciò andare a piangere, infinitamente, singhiozzando senza respirare. Dove erano finite le innumerevoli possibilità della vita, dov'era il piano divino, come poteva Dio desiderare che accettasse una cosa del genere? Aveva solo 21 anni. 21 anni, cazzo! Insetti con l’ombrello velocemente le girarono attorno... Non si può, non si può in questa Città di merda sedersi sul marciapiede sotto la pioggia, ho questo diritto?! Avrebbe voluto che qualcuno la prendesse a calci, per farle sentire ancora tutto il dolore del mondo, o avrebbe potuto morire, chissà se lui si sarebbe ricordato di lei in quel mondo dove tutto è bianco, dove le persone e l'aria sono la stessa cosa e... <br />
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Chiuse gli occhi che le facevano male e rimase un attimo in silenzio senza pensare a niente, d'un tratto sorrise pensando che ogni volta con lui si sentiva così, libera di tormenti e paure, solo un anima leggera su cui le leggi del mondo non avevano effetto, niente gravità, niente suono, niente respiri...solo gioia. E si ricordò di tutte le volte che così non era stato, dei giorni di cattivo umore in cui lei lo trattava male, sfogandosi con lui per tutti i problemi del mondo, senza lasciare nel suo cuore spazio per i suoi. E lui sempre paziente, che la osservava e l'ascoltava, facendo suoi tutti i casini, pronto per empatia a trovare soluzioni per calmarla, disposto, in qualunque condizione a fare qualsiasi cosa per lei. <br />
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E così ci si ritrova a piangere per tutti i cazzo di errori che si fanno, per le parole inutili, per le ore sprecate a fare altro, per i momenti rubati alla gioia. Perché l'aveva lasciata sola? Forse non avrebbe mai dovuto incontrarlo, per non essere privata così di colpo della vita. Forse non sarebbe mai dovuta diventare grande, con gli stivali neri e nessuna voglia di saltellare.<br />
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S<br />
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“Ma come cazzo sei vestito?”, esordì il Ringhio, osservando divertito il completo del suo vecchio compagno. “Armani…”, rispose questi, imbarazzato dopo tutto quel tempo passato senza una telefonata, senza incontrarsi una volta, dimentico di tutte le promesse ed i discorsi fatti insieme, quando ancora erano lupi a caccia di libertà, un branco di individui, ognuno per sé, ognuno per tutti. Ma erano altri tempi, erano giovani, erano ingenui… E allora perché il Ringhio era rimasto uguale, identico, cinque anni come un giorno? Ancora quella risata sincera, genuina, e quegli occhi col fuoco dentro, e quel potere di metterti a tuo agio, anche all’inferno. Il Ringhio indossò una maglietta, mise a bollire l’acqua per il tè, si sedette su una poltrona dalla pelle lisa dal tempo e dagli ospiti, sorrise, e disse all’Impiegato, ancora in piedi, con in una mano la valigetta col giornale che spuntava fuori, e nell’altra un’oscena cravatta beige e bordeaux: “Armani anche quella?”. L’Impiegato non capì, si guardò la mano, vide la cravatta e rispose di si con un sorriso titubante. Il Ringhio continuò a sogghignare amorevolmente, e s’accese una sigaretta: “E dove cazzo le hai nascoste tutte le tue teorie e le tue belle parole, Filosofo?”. Il Ringhio non sorrideva più, s’era fatto severo, lo fissava dritto negli occhi. Il Filosofo si fece di sabbia arida, colto di sorpresa dalla domanda, e si vergognò di sé stesso, del suo mutamento incoerente, della sua resa, del suo abbandono. Lasciò cadere a terra la valigetta col giornale e la cravatta, si buttò a sedere sul divanetto alle sue spalle, sollevò il viso a guardare oltre il soffitto, e rispose. “E che ne so…”. <br />
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Il Ringhio recuperò il sorriso, andò a preparare il tè, tornò sulla sua poltrona, e mostrò all’uomo che aveva di fronte alcuni fogli scritti a mano, raccolti dal pavimento. E s’infuriò. “Questi sono i testi delle nostre vecchie canzoni, te le ricordi? Ti ricordi il “Gridalo Forte!”, l’”Esprimi il Tuo Dissenso!”? Ti ricordi, figlio di puttana? Che cazzo di fine hai fatto, con i tuoi bei vestiti e quel bel collare… vaffanculo! Dicevi che era l’unico modo di lottare che tu conoscessi, la musica, dicevi che avremmo svegliato le coscienze, e poi t’addormenti tu!”. Sbraitava in faccia all’uomo sedutogli di fronte con lo sguardo fisso al pavimento. “Lo sapevo che dicevi una marea di cazzate, però ti stimavo, perché pensavo tu ci credessi. E poi mi lasci solo, perché in fondo le nostre canzoni cosa possono fare, perché è stato tutto un bel gioco, solo un hobby, adesso siamo più grandi, dobbiamo pensare da adulti, la vita non è fatta di musica… ed io ho ventun’anni, e sarò ancora un bamboccio, ci credo ancora e non ho ottenuto niente, ho conservato solo me stesso, ma tu, tu, cosa hai ottenuto, sei felice, perché sei venuto qui oggi? Che ne dice, signor K., d’abbandonare la sua forma d’insetto e recuperare un po’ di dignità, almeno per sé stesso?”. Silenzio. L’uomo lo guardò negli occhi, e rivide quella fiamma, quella che una volta possedeva anche lui, cinque anni prima; rise, raddrizzò la schiena, e sollevò il viso, e rinacque come fenice.<br />
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Dopo un paio d’ore il Ringhio dovette andarsene, aveva qualcosa da fare e fuori pioveva, gli disse di aspettarlo là, in casa sua. Lui non se lo fece ripetere. Aveva ritrovato qualcosa, là, che non aveva intenzione di perdere un’altra volta. Aveva ritrovato tutta la dignità persa in cinque anni di frustrata obbedienza a regole non condivise, e la forza e la voglia di cambiare il mondo, o di trovarne uno nuovo, di crearne uno nuovo, e si ricordò tutte le sue belle parole d’un tempo, si ricordò tutte le sue affermazioni d’attitudine, e tutta l’etica del guerriero, ricordò quando anche lui era disposto ad erigersi contro, pronto a risalire il fiume, perché era in cima che voleva arrivare, alla sorgente, dove tutto è puro e cristallino, dove l’acqua è limpida ed incontaminata, dove l’uomo è un animale in branco, leale, fedele, libero di vivere, morire ed amare. Ricordò il branco, i suoi fratelli persi nel tempo cinque anni prima, ricordò Maja, la sua bocca, ricordò l’alba nordica su un battello svedese, ricordò l’ardore delle promesse fatte a sé stesso pensando al futuro.<br />
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Poi il suo cellulare squillò. E corse in ufficio.<br />
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W<br />
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….tanto lo so che pensate che sono un idiota…………………………………….………………………………………………………………………lo so………………………………………………………………………………….…………non voglio essere un peso……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….lasciatemi stare…………………………………………………che sono un idiota…………………………………………………………………………………………………………………<br />
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…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….vi sarei solo di peso…………………………………………………………….una volta facevo parte di un branco……………………………………………………………………………………………………………………………….ne ero parte solo perché facevo compassione agli altri…………………………………………<br />
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…………………………………..lo sapevo…………non glielo dicevo ma lo sapevo…………………………..<br />
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…………………………………………………………………………………………………………………………………………………e allora me ne sono andato……………………………………………………………………<br />
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..perché ero solo un peso……………………………………<br />
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….mi ero illuso per un po’ di poter essere come loro………………………….<br />
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………ma lei mi ha detto che non era colpa mia né sua solo non poteva funzionare perché lo sa il cazzo perché…………………………………………………….ed ho capito…………………<br />
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…………………………………………………………………………………………………………………………………………ho capito che sono un idiota…………………………………………..nato per sbaglio un contrattempo………………………………………………………………………………………………………………………………………………un contrattempo non voluto……………………….una noia………………..<br />
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………………………………………………………………………………………………………………………………………..non vi ho chiesto io di nascere…………………………………………………………………………<br />
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………………stavo così bene quando non esistevo……………………………………………………………<br />
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quando non esistevo<br />
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quando <br />
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non<br />
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esi st e vo<br />
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R<br />
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Ed il Ringhio, assetato, entrò nel bar. All’esterno pioveva, lui fradicio, la porta del locale si chiuse da sola alle sue spalle. Diede un’occhiata all’interno, giovani coppie di cani da passeggio l’un dell’altro, e greggi di bestie fastidiosamente inutili e vuote che strafottevano arrogandosi un rispetto non dovuto. Il Ringhio conosceva il genere. Al bancone, una venere oscura, fradicia come lui, sedeva da sola, appartata dai quattro ragazzi che ridevano e gridavano due sgabelli a sinistra. Tra il Ringhio ed il banco, sei metri circa, e due bamboline coi loro montoni a metà strada.<br />
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“Il Ringhio abbassa lo sguardo e s’avvia verso il banco, fa l’indifferente, ma dentro l’orgoglio –il suo sterile orgoglio- lo rode. La Ragazza Con Gli Stivali Neri al bancone si gira, quasi ne avesse avvertito la presenza, e lo nota, è difficile non notare il Ringhio, lo sai, ce l’ha proprio l’aspetto del lupo, sembra lo faccia apposta, a farsi notare, per provocare. Allora, è lì che cammina a testa bassa attraverso l’atrio del locale, il Ringhio, e cazzo, sembra che dorma in piedi, ma capisce, capisce che i quattro stronzi, le bamboline coi loro cazzoni, stanno parlando di lui. Fa finta di niente, perché è così che si fa, se puoi eviti, no?, e passa di fianco al loro tavolo, loro zitti, muti. Il Ringhio è teso, irrigidito. Li passa, due metri, e quelli scoppiano a ridere. Lui si ferma, con gli occhi piantati per terra, sorride, si volta e li guarda, spiazzati, e s’avvicina. Si siede con loro, costernati dalle sue azioni, e col suo ghigno mangiamerda gli chiede: ”Allora, fate ridere anche me?”, ed è gentile, sorride, quasi chiede per favore. Poi, questi si guardano spaventati, uno dei buoi fa per parlare, e già sanguina per terra con mezzo boccale piantato in faccia. L’altro si alza, grida qualche minaccia, e si piega per terra con la mascella spezzata da uno sgabello. Le puttane piangono con le labbra spaccate dalle sberle del Ringhio. Stavolta, quando s’allontana, non ride nessuno. Questo vede il Ringhio nella sua testa; ma si trattiene. Uno dei buoi fa per parlare, imbarazzato, dice che non stavano ridendo, dice che è stata tutta una sua impressione. Il Ringhio sorride, prende una sigaretta da un pacchetto poggiato sul tavolo, le dà fuoco con l’accendino del bue che parla, i quattro lo fissano basiti, lui si alza, ringrazia per la paglia, li guarda dritti negli occhi un’altra volta, si gira e s’allontana. E comunque, stavolta, non ride nessuno. ”<br />
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Il Ringhio si mosse, come se niente fosse successo, verso il bancone. La Ragazza Con Gli Stivali Neri lo stava ancora fissando, lui le chiese “è libero qui?”, lei fece un cenno con la testa ed il Ringhio sedette. E mentre il locale esplodeva in subbuglio, loro erano come la quiete all’inferno. <br />
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E lei lo guardava stordita, terrorizzata e completamente rapita da quella sua fiera tranquillità grondante di sana follia. La Ragazza Con Gli Stivali Neri distolse lo sguardo, s’accorse di quanto fosse ridicola con quella bocca spalancata e gli occhi sgranati. Pensò, “Lui avrebbe potuto fare una cosa del genere?”, e mentre fissava il bicchiere senza trovare risposte, sentì una voce. “L’orgoglio di un uomo è come la spada di un samurai”. La Ragazza Con Gli Stivali Neri si voltò verso il Ringhio, che data l’assenza del barman aveva allungato la mano verso una bottiglia di crema di whisky oltre il banco, per servirsi da solo. Non sembrava essere stato lui, a parlare. Lei conosceva quella frase, una volta il suo uomo gliene aveva parlato: era un insegnamento dello Hagakure, un libro giapponese del ‘600 che insegnava la Via del Samurai. Era a proposito del branco, ma non ricordava bene il discorso, era stato tanto tempo fa, tanto tempo fa ed aveva solo 21 anni, possibile avesse già vissuto una vita in così pochi anni? Non diede importanza alla cosa, continuamente lei ricordava particolari di lui, credeva fosse proprio lui a suggerirglieli, il suo fantasma lì di fianco a lei, ad accompagnarla dal mondo di là attraverso il mondo di qua. Sorseggiò dal proprio bicchiere, crema di whisky, e sorrise, di nuovo stupita dagli arabeschi del destino. <br />
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Il Ringhio sembrava non far caso a lei, che ormai incuriosita aveva ripreso ad osservarlo: le piaceva il giubbetto del ragazzo folle seduto di fianco a lei, era completamente sgualcito, consumato dal tempo, ed era pieno di scritte, era come se lui si presentasse con quel giubbetto, se ne poteva interpretare la personalità, come il male dai quadri di Schiele. Lo stupore tornò a bruciare sulle gote della Venere Oscura, all’improvviso, di nuovo: sulla schiena del giovane pazzo stava scritto “Sette Volte Ronin”. Lo Hagakure!<br />
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Non seppe mai se stesse scherzando, o se fosse stato un caso, o se davvero gli occhi gravi di quel ragazzo nascondessero qualche cosa di magico. Tre enormi gorilla palestrati, pieni dei loro vestiti alla moda, lo vennero a prendere al banco. Gli intimarono di seguirli fuori, dicevano che doveva chiedere scusa a qualcuno. Il Ringhio si alzò, sorrise, s’avviò con i tre, poi si voltò, la chiamò.<br />
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“Allora, ci vediamo ad Ystad…”.<br />
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E Det rimase di pietra, mentre il mondo si faceva piccolo piccolo, e niente più aveva senso, <br />
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niente<br />
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più<br />
<br />
aveva <br />
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senso<br />
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Ad Ystad, tra cinque anni.<br />
<br />
Sento in me <br />
<br />
l’alito del niente<br />
<br />
soffiarmi <br />
<br />
tra i polmoni e il cuore,<br />
<br />
e fischiare<br />
<br />
attraverso i vuoti<br />
<br />
amputanti<br />
<br />
ogni mio senso<br />
<br />
ogni pensiero<br />
<br />
ogni passione<br />
<br />
che muore col respiro<br />
<br />
dentro al fumo<br />
<br />
inebriante<br />
<br />
di quest’ultima frustrante<br />
<br />
sigaretta.<br />
<br />
<br />
<br />
Impotente<br />
<br />
Chiudo gli occhi e me ne sto.<br />
<br />
MARIO<br />
<br />
MI CHIAMO MARIO E NON CREDO PIU A NIENTE. COSA VUOI, 76 ANNI, UN’OCCHIO SOLO CHE LA MACCHINA DA SCRIVERE E UNA TORTURA, VEDO SOLO I MAIUSCOLI A SFORZO, E LA GUERRA E IL PARTITO E LA POVERA GENTE IGNORANTE CHE NON CI PUOI PARLARE, CHE PENSANO SOLO AL PORTAFOGLI, SOLO A QUELLO. ERO GIOVANE, CON LA PAURA DI MORIRE E LA FAME E LE BOMBE SULLA STRADA E LE DONNE, LE PROSTITUTE, CHE NON HAI TEMPO DI PENSARE A SPOSARTI O D’AVER FIDANZATE SE LA FAME E LA GUERRA TI PRENDONO LO STOMACO. SOLO ORA, CHE DI TEMPO NE HO POCO PERCHE COSA VUOI, DOMANI POTREI NON ESSERE PIU QUA CHE LO SO CHE SON VECCHIO E MALCONCIO, E L’OCCHIO ED IL CUORE ED I RENI, ORA TROVO IL TEMPO, POCO CHE L’OCCHIO SI STANCA DI FRETTA, PER I LIBRI E IL VIOLINO E I DISCORSI. MA COSA VUOI, CHE LA GENTE E PRESA, E NON SI GUARDANO ATTORNO E NON SI GUARDANO DENTRO, SOLO IL SOLDO E NON LEGGONO UN LIBRO CHE LA TELEVISIONE E PIU SVELTA, TI DICE ANCHE COSA PENSARE. ORA, O 76 ANNI ED UN CLONE. IO LO CHIAMO COSI IL MIO AMICO PERCHE E COME ME ALLA SUA ETA. ANCH’IO A VENT’ANNI ERO MAGRO E BRUTTINO CHE LE DONNE NON MI GUARDAVANO. LUI E COME ME. NESSUNO LO ASCOLTA CHE QUELLO CHE DICE FA MALE, E PENSA E PENSA E DI TUTTO HA UNA SUA IDEA SOLO SUA. ED E BUONO, BUONO, MA COME IL PANE E GENTILE CHE GLI PUOI CHIEDERE TUTTO E LUI TE LO DA. E M’ASCOLTA, E RISPONDE, IL MIO AMICO. CHE MI DA ANCORA DEL LEI DOPO TUTTI QUESTI ANNI…….. .<br />
<br />
<br />
<br />
“Perché la rispetto, signor Mario…”<br />
<br />
“Oh, è arrivato il mio amico! Vieni, vien dentro che faccio il caffè… lo bevi il caffè, vero?”<br />
<br />
“Si che lo bevo!”, ed il Ringhio sorrise.<br />
<br />
“Vuoi fumare una delle mie sigarettine, intanto?”<br />
<br />
“Magari!” e prese una sigaretta dal pacchetto portogli da Mario.<br />
<br />
“Cos’hai fatto alla faccia? Sei tutto sporco di sangue...”<br />
<br />
“Ma niente, ho avuto una discussione con dei tizi...”<br />
<br />
Si conoscevano da qualche anno, ormai. E da qualche anno, il Ringhio passava qualche ora a settimana con l’anziano amico, ascoltando i racconti d’un uomo che si sentiva al crepuscolo, lungo o breve che fosse, memorie che sarebbero andate perse con il fango e la cenere in una cassa di mogano, ricordi per vivere ancora, di nuovo, e far vivere a chi li sentisse. Come se l’Anziano Mentore potesse far dono di settantasei anni di cicatrici e sorrisi ad un corpo nuovo ed intatto, e bardarlo del suo passato, del suo vissuto evanescente, a proteggere il giovane da quel mondo che il vecchio faceva fatica a guardare per la provata repulsione anche con un occhio solo. Sapeva che sarebbe potuto morire quella sera stessa. Attendeva il momento da anni. Eppure, in quelle ore passate a discutere con quel figlio acquisito, così distante, ma così somigliante, scoprendo interessi e pensieri comuni, ridendo e innervosendosi e ridendo di nuovo, in quelle ore si sentiva vivo, Mario, e la morte che rassegnato pensava avrebbe tranquillo accolto con la calma nello stomaco, la morte, allora, diventava molesta, inopportuna, la pace tanto cercata e tanto attesa diveniva uno spiacevole impegno improrogabile, più che un danno, una noia.<br />
<br />
“Volevo dirti, Mario…”<br />
<br />
“Cosa?”<br />
<br />
“Niente, che parto.”<br />
<br />
“Ma tu sei già andato via, non ricordi?”<br />
<br />
“Si, lo so, ma devo tornare là, là dove me ne sono andato... voglio dire, che non posso più stare qua, forse ci è stato dato più del concesso, lo sai, io non dovrei più essere qui a parlare con te, chissà dove dovrei essere... sono passati cinque anni, abbiamo avuto cinque anni in più, ma ora devo andare. È l’appuntamento, ad Ystad. Non posso mancare, devo rivedere tutti, salutarli, almeno un’ultima volta...”<br />
<br />
“Lo so, lo so. Hai già fatto tanto per me, tantissimo, oltre l’immaginabile.”<br />
<br />
[silenzio]<br />
<br />
“Mi spiace, lo sai... Promettimi che ti terrai in gamba!”<br />
<br />
[silenzio]<br />
<br />
“Mi stai dando del tu, lo sai?” <br />
<br />
“Oh, scusa... mi scusi!”<br />
<br />
“No, ora mi sento benissimo. Mi sento più giovane, mi sento rinato, è come se tu avessi accettato di considerarmi come un padre. Grazie... Buon viaggio, Ringhio. Salutami quella ragazza, come si chiama...”<br />
<br />
“Arrivederci, Mario.”<br />
<br />
“Chissà, magari ci rivediamo, di là...”<br />
<br />
Il Ringhio se ne andò, lasciando solo il fumo di una sigarettina dell’anziano amico nell’aria, e l’eco lontana della sua voce. Mario sorrise, e si sdraiò sul letto, a guardare oltre il soffitto. Lasciò solo un foglio nella sua vecchia macchina da scrivere, prima di andarsene anche lui. <br />
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Addio, me ne vado, che non vale la pena restare. Muoio<br />
<br />
felice. <br />
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<br />
D<br />
<br />
_EUROCITY_<br />
<br />
_CENTO_<br />
<br />
_71_<br />
<br />
_DELLE ORE_<br />
<br />
_19_<br />
<br />
_E_<br />
<br />
_37_<br />
<br />
_PER_<br />
<br />
_MONACO_<br />
<br />
_E’ IN PARTENZA DAL BINARIO_<br />
<br />
_5…<br />
<br />
<br />
<br />
La Ragazza Con Gli Stivali Neri poggiò la borsa da viaggio sul sedile di fronte al suo. Era arrivata tardi alla Stazione, era riuscita rocambolescamente ad acquistare il biglietto, convalidarlo e correre al quinto binario, e salire sul treno, sul suo treno, era stato un sollievo enorme per la sua ansia da viaggio. Pose una mano a sentirsi il cuore, quel cuore che non batteva più dal giorno in cui Lui era partito per non tornare, per andare chissà dove, lasciandola sola, e non era solo un capriccio, era l’atroce stato dei fatti, lasciandola sola coi suoi scarponi rotti, i suoi fogli stropicciati, e quella frase scritta ovunque e pronunziata sempre con malinconia e determinazione nello sguardo, quelle parole su Ystad, l’appuntamento, non sapeva ancora con chi, mai avrebbe scoperto perché. Solo il luogo, conosceva, un insignificante paese sul mare svedese, ed il periodo, congetturato coi biglietti del treno da lui conservati nel Cassetto dei Viaggi, insieme a bicchieri di carta sporchi, lattine vuote di bibite straniere, e riviste d’ogni genere e lingua tutte spiegazzate e mai lette, solo osservate per ore, affascinati dall’incomprensibile comprensibilità di quelle righe scritte chissà da chi, chissà dove.<br />
<br />
La Ragazza Con Gli Stivali Neri sedette al suo posto, estrasse un quaderno dalle pagine gualcite e lise, un suo quaderno, coi suoi schizzi ed i suoi scritti, ma non lo aprì, arrestandosi percependo la partenza del treno. Guardò fuori, tranquilla, si è sempre più tranquilli quando il nostro treno parte per la nostra destinazione con noi a bordo, appoggiò la testa allo schienale, e sbarrò gli occhi per lo stupore, vedendo il Ragazzo Sette Volte Ronin salutarla portando due dita alla fronte e allontanandole di nuovo, in piedi, sorridente, sulla banchina del quinto binario.<br />
<br />
<br />
<br />
Fu un piacevole turbamento quello che occupò la mente della Ragazza Con Gli Stivali Neri per le ore successive. Per tutto il viaggio , fino a Monaco, non riuscì a non pensare sorridendo al duplicemente Folle Ragazzo Sette Volte Ronin… <br />
<br />
<br />
<br />
Lo spettacolo dei colori dietro il finestrino si faceva sempre più oscuro e gradito a Det. Il modificarsi delle tonalità, dal verde e blu al bianco e nero, di terra e cielo con l'arrivo dell'oscurità, l'attraeva. Il treno sobbalzava leggero, lei sentendo in sé quella notte infinita prese il sacco a pelo, lo poggiò ancora chiuso sul sedile accanto a lei e vi si avvinghiò. Lo stringeva, unico appiglio alla vita…lo stringeva nelle notti profonde, la sua pelle chiara e morbida. Vi si appoggiava profondamente, su quel petto che giurava di stringere fino alla fine…lui in cambio le accarezzava la testa mentre lei, con uno strano rito, pronunciava quelle Parole… <br />
<br />
<br />
<br />
Scese dal treno, nell’alba tedesca, assorta nei propri pensieri, sul Folle Ragazzo Del Quinto Binario, sulla coincidenza per Kobenhavn, sul fatto che non mangiasse da tre giorni e non ne sentisse assolutamente bisogno, né voglia, quando si sentì chiamare: “Guten Tag, Fraulen! Ti aspettavo. Posso invitarti a colazione?”. Lei ristette, ora lo stupore si fece quasi paura, lo guardò spaesata per qualche secondo. Poi sorrise, e rispose: “Das ist gut…”, e finse fosse normale che il Ragazzo SetteVolteRonin la stesse aspettando laddove doveva arrivare, e l’avesse salutata là da dove era partita…<br />
<br />
<br />
<br />
Andarono a far colazione in un bar ristorante turco appena dietro la stazione di Monaco, all’imboccatura delle scale della metropolitana. Un locale enorme, pieno di tavoli, con scortesi inservienti soggetti ad un gestore ancor più scortese: baffi neri, non molto alto, la pancia gonfia d’arroganza, sembrava la parodia grottesca di un turco, più che un turco. Una svogliata cameriera bionda metteva i soldi in un grosso borsellino legato alla vita da una cordicella di cuoio, restituiva il resto, ed ascoltava rassegnata le ordinazioni, che poi buttava lì, sul bancone o sui tavoli, come un adolescente ribelle che fa ciò che gli è richiesto riversandovi la violenza che reprime nello stomaco. Il Ringhio prese un caffè tedesco, pessimo al suo palato, d’obbligo alle sue manie di assumere le abitudini alimentari del paese in cui si trovava. La Venere Oscura, radiosa, ordinò un “cappuchino”, ed insieme decisero di prendere una torta, una intera, in due. Impiegarono un’ora a consumare il pasto, non tanto per le dimensioni di questo, quanto perché furono trascinati via dai loro discorsi, persi ormai uno nella bocca dell’altra, infervorati ad ascoltarsi l’un l’altra, e già s’amavano, solo per quelle parole, per il fatto d’avere qualcosa da dirsi. <br />
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Lei doveva prendere il treno per Kobenhavn delle 10 e 49. Lui prendeva lo stesso treno, per andare nello stesso posto. E per stare con lei. <br />
<br />
<br />
<br />
Lei aveva il posto numero 69. Lui non aveva posto, che non fosse vicino a lei… Poco prima che il treno partisse, il Ringhio accese una sigaretta. Lei s’accorse che stranamente il fumo non le dava fastidio, anzi per un attimo temette non stesse neanche respirando, ma tossì lo stesso. Ed il Ringhio spezzò la sigaretta, lei gli sorrise grata dicendogli che non avrebbe dovuto, sarebbe uscita dallo scompartimento per lasciarlo fumare. Lui, così, disinvolto, subito ne accese un’altra, lei sbalordita dal gesto spontaneo del Ragazzo Folle rimase interdetta, e lo stupore s’ingigantì in una dolce, lusingata risata mentre il Lupo di fronte spezzava la carta di mais piena di tabacco essiccato appena infiammata. Era così, il Ringhio, lei lo sapeva, lo sapeva da sempre, da prima ancora di conoscerlo, era un uomo che parlava coi gesti, non di poche parole, solo quel che diceva pensava, e quel che pensava faceva. Tutto qui. Follemente, irrazionalmente coerente. E squisito. E malato. Malato di vita.<br />
<br />
<br />
<br />
Tutto il sole tedesco entrava nel treno dai finestrini, tant’era troppo, da chiudere le tendine degli scompartimenti. Era come la creazione di un nuovo universo nel nulla cosmico, nascondersi allo sguardo del sole e degli altri viaggiatori, come se fuori da quelle pareti, oltre le tende, non ci fosse niente, la sensazione che si prova da bambini sotto le coperte, vagando strisciando su un mondo nuovo, il mondo di sotto, che solo noi vediamo, nascosto agli occhi di fuori, ed è nostro, nostro, e sentiamo che lì, in quel momento, niente e nessuno può farci del male, siamo al sicuro da tutto, e non ne vorremmo uscire mai più. Poi ci addormentiamo, e nel sonno, ci manca il respiro.<br />
<br />
<br />
<br />
Lacrime come piccole gocce di pioggia percorrevano le guance della splendida Venere addormentata, gli occhi chiusi in quel pianto lontano, lui la fissava stordito e meravigliato…<br />
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Ehi…tutto bene? <br />
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…si<br />
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Erano ormai troppe notti che gli incubi venivano a tenerle compagnia…s'immergeva nel buio e nel fuoco. Arancione, nero e giallo.<br />
<br />
Le prime volte ne aveva paura, ora era quasi normale, si sentiva a proprio agio. Ipnosi, trance, sonno, morte. La stessa cosa.<br />
<br />
L’Uomo Che Nel Sogno Se Ne Andava Via l’aveva svegliata, vedendola piangere… <br />
<br />
“Andiamo a prendere il tè?” chiese la stessa voce gentile e preoccupata che l’aveva richiamata al mondo. Lei acconsentì, asciugando le lacrime in uno stravolto sorriso, rassicurata dal vederlo, dilaniata dall’aver già vissuto una volta la storia del Folle Ragazzo e della Bambina Innamorata. Ed esserne morta.<br />
<br />
D <br />
<br />
La vocina infantile e stridula entrava nel cervello veloce come un segnale digitale, e come un telegrafo, ti martellava i neuroni. Bitte, Ruhe!<br />
<br />
Discorsi inutili come le polveri colorate su quel Teschio, vuoti come le nuvole che assumono la forma più gradita a chi le osserva. Catene in serie da nove su un omero e una clessidra per il tempo da cinque milioni sull'altro. Il Corpo in decomposizione al fianco dell’insulto parlante, oscena crosta sulla pelle di Gea, emetteva dei suoni ogni tanto, senza venire ascoltato. Il Teschio si muoveva, lo scheletro che lo reggeva su trampoli lilla danzava grottesco dondolando i funebri addobbi. In equilibrio contro la parete, un manichino a riempirsi di una sigaretta, per poi svuotarsi nuovamente del suo unico spessore lasciando uscire il fumo dalla stoffa bruciata del suo volto. <br />
<br />
Il calco di gesso accanto a loro si mosse per primo, Det li seguì, i fantastici quattro si sedettero, ella passò oltre.<br />
<br />
<br />
<br />
LB<br />
<br />
_Boujeau, ispettore di polizia criminale_ _Il mio nome è Boujeau, Leonardo Boujeau_ _Boujeau, polizia criminale_ _Boujeau, l’unico aspetto riuscito dei miei ventisette anni_ <br />
<br />
Era un gioco, tanto per divertirsi tra amici. Io però ci credevo; quello doveva essere il mio primo film. Il più importante, ed io ci credevo davvero, e lo amavo, ne ero soddisfatto nonostante ogni difetto. Ed è stato il mio unico film. Neanche completo. Ed io, io sarò Boujeau per sempre, finché il film non finirà, finché l’ispettore non troverà una sua vita, che sia completa, che sia finita. Boujeau si è preso la mia vita.<br />
<br />
Perché io non sono stato in grado di afferrarla.<br />
<br />
<br />
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Ad Ystad, tra cinque anni...<br />
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<br />
T<br />
<br />
Tirò a sé il piano cucina sotto la motrice, accese il gas e rovesciò nel pentolino una scatola di chili con carne precotto. Accese una sigaretta e sedette sullo sgabello, in una buia area di sosta su una desertica strada provinciale, in mezzo a campi di nebbia, in mezzo al nulla. Il freddo s’incuneava tra le pieghe del volto, s’aggiustò il cappello e rovesciò il chili in una scodella. Sorseggiò una tazza di vino rosso, e quindi cominciò a cenare.<br />
<br />
<br />
<br />
Dal vano letto poteva vedere le stelle attraverso un oblò sul soffitto del cabinato. Aveva freddo, nonostante le tre coperte, ma comunque socchiuse il vetro ed accese una Gitane. Amava star solo. Amava viaggiare. Perciò, laureato, faceva il camionista. Per il puro piacere di stare da solo, in silenzio, dimenticando le parole, dimenticando la propria voce, nella cabina del suo tir, osservando e passando gli infiniti orizzonti del mondo. Sentì violenta infiammarsi la gola, tossì, ormai stava fumando il filtro.<br />
<br />
<br />
<br />
Notò in sé l’insolito. Per la prima volta, da tre anni e mezzo sulle strade dei Vecchi Continenti, soffriva la solitudine. Per la prima volta era distratto da sé stesso, capì di fingere di pensare a qualcosa mentre in realtà un pensiero altro si faceva imperioso nel suo petto. Cercò di soffocarlo con un’altra sigaretta. Ma ormai, quel pensiero possedeva il suo sangue.<br />
<br />
“Ystad…”.<br />
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<br />
Ad Ystad, tra cinque anni.<br />
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<br />
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<br />
S<br />
<br />
Ed a sera, come tutte le sere, alle 18 e pochi minuti, l’Uomo rientrò a casa dall’ufficio.. Il portone del palazzo si chiuse con un rumore violento dietro di lui, chiamò l’ascensore e dopo qualche secondo stava di fronte l’entrata del suo appartamento.<br />
<br />
<br />
<br />
Era andato ad abitare da solo un paio d’anni dopo il Ringhio, su suo stesso incoraggiamento. Invidiava, in effetti, la dura indipendenza del Ragazzo Folle, che s’era gravato di mille responsabilità per non dover ringraziare nessuno di quello che aveva. Diceva, il Folle, “ora sono libero. E posso sbagliare in pace”. Sapeva che non era solo quello a muovere il Ringhio, ma anche una punta d’orgoglio, ed il fatto che non voleva nessuno si desse pena per lui, a cominciare dai suoi genitori, spezzati da un lavoro infame per dargli un futuro. Fu per questo che il Ringhio prese il proprio futuro balzandogli addosso, e bruciò i tempi, rinunziando al “sapore del sale dello scendere e salir per l’altrui scale”. Alessandro decise così di prendere un appartamento coi soldi che i suoi gli avevano messo in banca, subito dopo aver trovato un lavoro che gli garantisse l’indipendenza economica. E così fu.<br />
<br />
<br />
<br />
Abitava poco lontano dall’ufficio, andando a piedi impiegava tre o quattro minuti. Abitava al terzo piano di un elegante, squadrato palazzo, ed ignorava l’aspetto del vano scala, abituato ad usare l’ascensore, bara di metallo e tessuti acrilici bordeaux. Da sempre, si faceva trasportare. <br />
<br />
Aveva dipinto le pareti di bugie, in un angolo un cesto per i panni sporchi che sua madre lavava una volta a settimana, ed i piatti da scaldare già pronti nel frigo, e l’ordine, l’ordine che per quanto mettesse in disordine restava ordinato, che sua madre passava a rassettare ogni santa mattina. Non c’era una goccia del suo sudore, su quelle pareti, non un vestito che si fosse comprato da solo nell’armadio. A tutto, pensava la chioccia. E lui ne era felice. Si riteneva fortunato, il più fortunato tra tutti: non muoveva un dito, solo ogni giorno andava in ufficio, le sere del fine settimana girava per locali coi suoi innumerevoli amici, ed al termine del mese lo stipendio, ed al resto, al resto pensava sua madre. Sua madre.<br />
<br />
Accese il televisore e si sedette a guardare una mostra canina. Cani felici al guinzaglio.<br />
<br />
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<br />
M<br />
<br />
Scheisse…ich muss schneller sein, ok ich habe alles le bozze, il cd, l'indirizzo del cliente, il biglietto ok ok.<br />
<br />
Guten Tag, ich bin Maja S.1<br />
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<br />
Dal finestrino dell'aereo vedeva il grigio azzurro del cielo sopra le nuvole, davanti a sé c'era il vassoio del pasto, ormai vuoto. Cinque anni prima avrebbe lasciata lì tutta quella merda confezionata nella plastica, ma dopo la pizza alta 10 centimetri e l'acqua calda con un vago aroma di caffè, qualsiasi cosa le andava bene, anche la cucina della Lufthansa. Pensava già ai pasti luculliani che avrebbe consumato qualche ora dopo in Germania, dove doveva svolgere l’ultimo compito all’estero per la sua corporazione, prima di ottenere il trasferimento in patria, dove già pregustava l’addio alla burgerkitchen, immaginandosi tra i suoi amici di fronte ad una doppia porzione di pasticcio d’uova e spinaci, a casa d’un caro amico, ed ettolitri di vino tracannati tra le risa di quelle poche, indispensabili, persone, che avrebbe ritrovate all’appuntamento. Si sentiva bene, sorrideva col naso all'insù, un pizzico d'orgoglio le brillava nelle pupille nere come la china. Dopo tutto quel tempo, se lo meritava. Naturlich...”anche le donne di ferro hanno un cuore, ed uno stomaco vorace”, diceva la sua migliore amica, una volta. Cercò di scorgere qualcos'altro al di sopra delle nuvole, incuriosita dagli strani giochi di luce, quasi sicura di aver scorto la linea curva della superficie terrestre…i suoi occhi si spalancarono…a ritroso, di nuovo sotto quelle nuvole, 5 anni prima, due giorni troppo presto. Det.<br />
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<br />
M<br />
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IDIOMS = particular words used idiomatically<br />
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noun phrases/phrases of comparison/verb-noun adjective-noun collocation<br />
<br />
adjective + proposition phrases<br />
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common proverbs<br />
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“Ok ok this is the last one …different aspects of the idiom… I'm leaving on Friday, sono stanchissima, non mi sono ancora abituata al fuso europeo.”<br />
<br />
Maja era seduta, le gambe elegantemente incrociate in una delle file riservate nell'auditorium, il dottor Mc Goffin, pensatore di Oxford con parole sonno-lente affrontava il problema idiomatico della lingua inglese britannica.<br />
<br />
La sfida intellettuale sarebbe stata colta prontamente dalla mente ipertrofica di Maja, se non fosse stato per quella maledetta inversione notte-giorno… changing attitudes to language… Carpiva qualche frase qua e là, sulla sua agenda grigia annotava qualche concetto. Le sue calzature eleganti, con piccoli lacci neri ondeggiavano …growth and change… al ritmo dell'inchiostro versato meccanicamente …in the English vocabulary… dalla cannuccia della stilografica.<br />
<br />
Il suono metallico di un telefonino, come una radiosveglia, destò l'attenzione di Maja, le pagine dell'agenda si mossero frusciando, dal verde delle note si spostò al rosso del calendario.<br />
<br />
November 13th Thu<br />
<br />
documenti <br />
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ore 16.30 <br />
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Straubingerstr. 23 Dokt. Kolm<br />
<br />
documenti<br />
<br />
M<br />
<br />
Da quando lavorava negli Stati Uniti, Maja aveva preso l’abitudine di viaggiare in prima classe. Un posto riservato tra gente riservata. Era giovane, piacente, elegante e con qualche particolare sbarazzino. E fumava, solo sigarette francesi, cosa che, al suo vicino, non faceva affatto piacere. Al terzo attacco di tosse affettato dall’anziano trentunenne che le sedeva di fianco, Maja si alzò, muovendosi verso il piano ristorante della nave. E lì si sedette di fianco alla parete finestra dipinta dall’infinito del cielo e del mare.<br />
<br />
<br />
<br />
Maja aveva attuato una scelta difficile e coraggiosa: cinque anni prima aveva chiuso i bagagli per andare a lavorare lontana dal suo mondo, lasciandosi alle spalle tutto quello che sino ad allora era stata. A New York, capitale del mondo degli uomini, lei credeva di trovare quello che aveva sempre cercato, di realizzare i propri sogni. E le sembrava, ora, d’esserci riuscita. Imprecò qualche santo, quando rovesciò il vino rosso che aveva ordinato sui pantaloni del completo verde.<br />
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<br />
A casa aveva lasciato un’amica, la sua migliore amica. Ed un uomo, ed altri amici, i suoi fratelli. Era convinta che, passati quei cinque anni, tutto, tra loro, sarebbe tornato come quei giorni in viaggio nel Nord. Dopo ventiquattro ore a New York, una lama nel cuore partorì dubbi zittiti nel suo stomaco.<br />
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New York = lavoro = carriera = felicità. Equazione logica d’una esistenza razionale. Egoista. Ogni uomo, davanti ad una scelta, si rende conto di come la via egoista sia quella più razionale. Istinto. L’animale cerca il piacere, egoisticamente, tra godere e far soffrire e non godere la scelta è immediata, automatica, istintiva. E Maja era completamente razionale. In fondo, forse, non le era mai importato niente di nessuno se non di sé stessa, della propria realizzazione per sentirsi grande, soddisfatta. Il Ringhio la guardava e non la capiva, non l’aveva mai capita, sin da quando aveva deciso di partire lasciando amici, famiglia e città, e pure il suo uomo, l’amore, ma non ci aveva pensato un secondo, no, quello che voleva era essere qualcuno, era New York. In fondo, lei stava andando all’appuntamento solo per zittire le percussioni della coscienza, perché anche il cuore più materiale non può evitare i rimorsi, e lei ne aveva uno da cinque anni. E quel rimorso non le serviva, solo offuscava d’un poco la sua splendida carriera. Era un neo, da cancellare.<br />
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R<br />
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Al lunedì smetteva di fumare. Al martedì non mangiava più carne. Da mercoledì smetteva di bere, ogni giovedì decideva di laurearsi, il venerdì smetteva di dire cazzate per un paio di giorni.<br />
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Quel giorno la casa del Ringhio era come il suo cuore. Non c’era un vetro che non fosse coccio, in cui si riflettevano frammenti di rabbia erotta e non ancora passata. La bambola gonfiabile impiccata vicino alla parete chiodata era esplosa in brandelli, il tavolo non aveva più gambe, i divani a pezzi, e schegge e schegge e schegge ed un mare di sangue, sangue dappertutto, ed il Ringhio, piegato in un angolo sfregiato e tagliato e ferito, come un gatto randagio nel cortile sbagliato, riversava fiumi di porpora a terra dalle braccia, la schiena ed il petto e le gambe e la bocca, la bocca ribolliva di sangue e saliva, un chiodo piantato nella lingua, per non sprecar più parole, ogni tanto un colpo di tosse per vomitare il sangue che lo soffocava, e per sopportare il dolore del gin, in un coccio di bottiglia, beveva tagliandosi le labbra, sgorgando rossi umori, e cercava d’accendere sigarette spente dai liquidi persi dal naso.<br />
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Stette così qualche ora, ed il gin era finito, e la vista appannata, ed il sonno incombente. Quando la Venere Oscura oltrepassò la sua porta, gridò il suo nome e corse sul suo corpo, credendolo morto, mentre invece, lui, le sorrideva a salutarla.<br />
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Det ripulì e disinfettò le ferite del suo uomo, lo lavò con una spugna, fasciò ogni taglio e lo mise nel letto. Poi giunse la Notte, con lei la febbre, ed il Sonno per entrambe.<br />
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Il mattino seguente, quel che del Ringhio non sanguinava lo teneva in piedi, di fronte ai fornelli del gas, un odore penetrante a diffondersi per le stanze, riempirle, saturarle, permearne i tessuti, mentre Lei dormiva ancora di fianco al posto che lui aveva lasciato vuoto. Quando il Ragazzo a Brandelli riuscì finalmente ad accenderlo, il gas, la fiamma vampò bruciandogli le dita, lui scattò di riflesso, poi tornò a preparare le fette di pane tostato e la spremuta per far colazione. Con le mani tremanti per la febbre, accese una sigaretta, sedette ad attendere l’acqua del tè, e quando tutto fu pronto, lo mise su d’un vassoio e barcollò fin nella camera da letto. <br />
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Det dormiva ancora, provata dalla fatica e dalle emozioni della sera prima. L’Uomo nella sua stanza aprì le tende sul sole spento del Mezzogiorno Sulla Grande Città, lei si lamentò sorridendo, lui le sorrise a sua volta. Poi lei gridò qualcosa scattando in piedi, all’improvviso, che non doveva sforzarsi, che avrebbe dovuto stare a letto, e tutte le premure per sé stesso che avrebbe dovuto serbare. Lui sorrise, di nuovo, indicando le tazze ed i dolci che aspettavano sul comodino. Lei rise, lo strinse, dimentica di tutti i suoi tagli, premendo il viso sul petto di lui, l’Uomo boccheggiò ridacchiando qualcosa, ed il nuovo giorno iniziò così, colazione per pranzo chiacchierando su lenzuola macchiate di sangue.<br />
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DIFFERENT WAYS TO THE PAST<br />
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Si erano conosciuti nella stagione più calda del paese più freddo, mentre il sole bruciava le pelli avvezze ai ghiacci, diluendo ogni scheggia in un fluido di cristallo limpido, sincero. Il cielo sopra Stoccolma piangeva d’un’esotica pioggia appiccicosa, che sembrava voler insinuarsi nei calmi passanti, quando la Ragazza In Nero inciampò, nel suo vagare senza meta, nel corpo sdraiato a terra, a prender quanta più pioggia possibile, di uno strano ragazzo, che parlava la sua stessa lingua, e sorrideva fradicio sull’asfalto. Il folle giovane chiese perdono del trovarsi in mezzo ai piedi, e la ragazza per tutta risposta si sedette di fianco a lui, sotto la pioggia, e lo fissò, per poi stendersi anch’essa a guardare il cielo cadere. Finché non smise. <br />
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Stavano zuppi a sedere in una caffetteria pasticceria, lei un tè, lui un beverone scuro e amaro come i fiumi d’odio, addolcito dal candore d’una valanga sproporzionata di zucchero. Lui viaggiava perché era l’unica cosa che sapesse fare, e poi forse cercava qualcosa che neanche lui sapeva cosa, e tutte cazzate del genere dettate dall’imbarazzo di chi ha di fronte ciò che ha sempre cercato, ed allora quasi si piscia addosso dall’emozione quando se lo trova davanti. Poi le chiese il suo nome. Lei non se lo ricordava. E non ricordava nient’altro.<br />
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Non aveva completamente perso la memoria, la Ragazza Sperduta che era inciampata nel Ringhio. Solo non ricordava il proprio nome, né come fosse arrivata là. Il Ringhio aveva letto, una volta, qualcosa a proposito della rimozione di ricordi dal livello cosciente della memoria a causa di forti traumi. Aveva sempre pensato, con la sua maniera di vedere le cose, che era un meccanismo simile alla chirurgia estetica per cancellare le cicatrici, un modo per non averle più. Oppure, un modo per non vederle deturpare il proprio corpo, pur avendole comunque impresse, sotto pelle. Era strano, per lui, questo processo inconscio, lui che i ricordi se li marchiava sulla carne, cicatrici e cicatrici, ogni cicatrice una storia, diceva, e quasi ne andava fiero, se non avessero fatto così male, e cazzo, aveva solo diciassette anni e già ne era pieno, di cicatrici, e doveva conviverci, doveva sopportarle, ed era insostenibile proprio che fossero sostenibili.<br />
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Passarono il resto della giornata a trasferire i bagagli di lei presso l’ostello di lui. Cenarono cinese, senza che lui toccasse cibo, senza che si lamentasse, senza che ingerisse qualcos’altro. Tornarono verso l’ospizio a notte fonda, scorrendo nell’intimità della città che dormiva ma ancora pulsava di voci e suoni e rumori. In camera, lei indossò un pigiama troppo grande, sebbene sembrasse un modello da bambina, lui tolse solo la maglietta e si definì pronto per dormire. Lei lo fissò: un numero enorme, forse infinito, di cicatrici copriva il suo petto, peggio ancora la schiena, ferite più dolorose ricevute a tradimento. Non un angolo di pelle illesa, e non sembrava vergognarsene, anzi, ne appariva in qualche modo orgoglioso. Diciassette anni, ed un corpo che sembrava essere stato all’inferno. Diciassette anni di insulti, violenze, umiliazioni, slealtà, delusioni, perdite, dolori d’ogni sorta, tutti scolpiti in quelle carni, e quello sguardo invece vivo, ancora sapeva sorridere, ancora amava la vita per quello che era, vedere la pioggia cadere, i bambini sorridere, e sentire il vento sulla pelle, freddo, per capire che il calore è dentro di noi.<br />
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Non si chiesero mai la ragione. Era stato spontaneo, naturale, come se si fossero conosciuti da sempre e non si fossero mai incontrati da diciassette anni. Il Ringhio non dormiva, non ci riusciva, non c’era mai riuscito, scriveva e disegnava nel buio, solo il rumore della mina che graffiava la carta. E lei non riusciva a dormire, non c’era mai riuscita, tormentata non sapeva più neanche lei da cosa. Aveva freddo. Posso dormire con te?, Se ti fidi..., e s’abbracciarono. Per non lasciarsi mai più. <br />
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T<br />
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Viaggiava per vedere. Non aveva mai negato che la scelta del lavoro, camionista laureato, così discutibile e così discussa per la sua famiglia e per tutta la società in cui era vissuto fino ad allora, altri non era che la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, vagare per il mondo, non avere più punti di riferimento, la preferenza del non possedere al poter perdere. Quando aveva avuto, aveva perso, ed era rimasto smarrito ad odiare quella scenografia senza più attori, spettacolo di malinconia specie se si ha assistito alla messa in atto. Ma ora, lui viaggiava solo per vedere, conoscere, imprimere negli occhi il mondo tutto, ogni suo aspetto, assaggiare il sapore d’ogni esperienza. Come faceva la piccola Det. O come diceva Bon Jovi nello stereo, dormirò quando sarò morto. Ed infatti non gli ci volle molto, a raggiungere Ystad col tir: non portava rimorchi, e dormiva solo un paio d’ore al giorno, le sigarette e l’impazienza d’arrivare a fargli compagnia. Quattro giorni d’autostrada, da Atene, e riconobbe l’ostello sul mare nella stazione delle ferrovie, col cantiere del nuovo porto di fronte, proprio come cinque anni prima, quando il Ringhio, appena arrivato, era salito sulle impalcature per “fare un paio di domande a Dio”.<br />
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Doppia T non credeva in Dio. Era un filosofo, in qualche modo un razionalista, ed era in grado di accampare almeno dodici ragioni per affermare l’inutilità di elucubrare l’esistenza dell’Onnipotente, e quattro prove per negarla del tutto. In realtà, credeva poco anche nell’uomo, ma risultava di gran lunga più convincente quando postulava la vacuità di quest’ultimo. Era avvenuto qualcosa, però, ad Ystad, cinque anni prima, che aveva seminato il germoglio del dubbio nella sua saccente convinzione: qualcosa di terribile, romanticamente sublime, qualcosa che elevava l’uomo con un monito di dolore, dipingeva un Dio disinteressato alla vita o alla morte, ma colmo d’amore nei confronti delle sue creature. Perché la vita non compie il suo senso. Il senso è oltre la vita.<br />
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“Cosa sei andato a chiedere a Dio, là in alto?”. L’aveva buttata come una battuta, quella frase, doppia T. Il Ringhio si pose l’indice sulle labbra e rispose: “Segreto!”, saltò addosso all’amico per abbracciarlo, e mentre quello cercava di divincolarsi, gli diede un bacio sonoro, con lo schiocco, sulla guancia, e rise forte, poi fece lo stesso con un Leonardo restio a quella effusione, a Maja, fingendo una fin troppo finta passionalità, ad un geloso Alessandro, a coso, a Det. <br />
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RD CLOSE TO DEaTh<br />
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“Ricordi la prima volta che t’ho detto ti amo?”. Det gli sorrise. Il Ringhio stava sdraiato sulle tegole del tetto dell’ostello, di fianco a lei, a guardare il volo dei gabbiani, le nuvole plasmate da Morfeo in mille sogni multiformi, il fumo dei comignoli di Ystad evanescente nell’azzurro intenso del suo cielo invernale; da quasi un’ora, ormai, e l’avevano passata parlando in silenzio, senza quasi mai guardarsi. Era stato a Stoccolma, quattro anni prima circa, tre giorni dopo che una giovane Venere inciampasse in un Folle fradicio sdraiato a terra, stavano seduti sul gradino di un negozio di tabacchi chiuso, nel quartiere dei locali notturni, mentre una folla di persone eccitate dall’incipiente nottata di divertimenti si muoveva in fretta lungo la strada, scivolando dentro le entrate dei pub appagati da una piccola, insignificante, immensa gioia. Det dormiva con la testa poggiata sul petto del Ringhio, lui le carezzava il volto delicatamente con la mano aperta, e sussurrando giurò, anche se lei non sentiva: “Ti amo, piccola Det…”. Lei si svegliò, finse di non aver udito, e lo strinse a sé più forte.<br />
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Non se lo confessavano spesso, forse perché l’avvertivano dentro, perché lo sapevano: le cicatrici sulla schiena del Folle, quelle perse nella memoria sotto il profumo della pelle liscia della Venere Oscura, li avevano colmati di un senso di sfiducia che li terrorizzava; come fossero stati bambini dopo aver ricevuto il dono più bello, e ne gioissero temendo però glielo potessero togliere, se lo potessero riprendere. L’ultima volta era stata qualche giorno prima di partire per quel viaggio in Scandinavia, il Giorno della Furia del Ringhio: su quelle lenzuola macchiate di sangue, il Ringhio tutto un taglio, con la lingua bucata dal chiodo ancora dolorante ed indolenzita, Det gustava le fette di pane tostato preparate dal Folle sorridente, chiacchierava, lui la ascoltava. Poi, d’improvviso, gli occhi le si gonfiarono di lacrime, singhiozzò qualcosa, lo abbracciò forte, e pianse. A lungo. Quando smise, s’asciugò le guance, prese il volto del Ringhio tra le mani, e cantò flebilmente, in un sussurro... if you die, I say, so do I, I say… tell me I’m forever yours… you’re forever mine…<br />
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Il Ringhio, se fosse riuscito a parlare, le avrebbe promesso di donarle qualcosa di eterno, anche se l’eterno non fosse esistito. La baciò, invece, piano, dolcemente, col sapore del sangue in bocca, le carezzò il capo con una mano, e la strinse al suo petto.<br />
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“Cosa sei andato a chiedere, a Dio, prima?”. Il Ringhio, senza alzare la testa dalle tegole dell’ostello, accennò un sorrisetto strano, ironico, determinato: “Non gli ho chiesto niente”, rispose, “gli ho solo detto che, se lui non avesse creato il ‘per sempre’, beh, allora lo creerò io…”. “E lui come l’ha presa?” “Mah, s’è fatto una gran risata, m’ha guardato, e poi m’ha detto, ‘va bene, mi fido, hai il mio permesso…’, e poi, ‘sei il più fico di tutti, Ringhio, il mio prediletto!’.”. Det rise: “Ti ha detto davvero così?”. Il Ringhio, serio, sussurrò: “No. Mi ha solo detto che l’eterno esiste, ma pochi sono abbastanza grandi per fruirne. E che forse, io e te, siamo abbastanza grandi. Solo questo”. Det lo guardò, lui ancora a scrutare il cielo, abbozzò un sorriso, mentre le cicatrici scomparivano dalle carni del suo uomo, e gridò, come un canto. “Scemo!”. <br />
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Ma intendeva dire “Ti amo”.<br />
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…I know I’ll be forever yours you’ll be forever mine…<br />
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T<br />
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Seduto sui gradini di fronte al cantiere, di fronte al mare, Doppia T guardava oltre l’orizzonte, in silenzio, fumando una Blend. Tutta mattina. Erano passate le undici, stava là da quattro ore, ed infine sentì quello che avrebbe voluto sentire. Gli scarponi del Ringhio smossero la ghiaia, e mentre Doppia T continuava a fissare oltre il lontano, quegli stessi scarponi si fermarono di fianco a lui. Non si salutarono, solo il Ringhio sedette, dopo qualche minuto, e rubò la sigaretta dalle labbra dell’amico. “È un po’ che non ci si vede…”, esordì pacatamente Doppia T. “Già…”, confermò con un pigro sospiro l’altro. <br />
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“L’ultima volta è stato a Lisbona, un anno fa.”<br />
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“Se lo dici tu…”<br />
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“Si, abbiamo discusso di cosa ci fosse dietro l’orizzonte… Ricordi, ‘mirando costas ao mundo, orguliosamente sos’…”<br />
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“L’orizzonte.”<br />
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“Secondo te, cosa c’è dietro l’orizzonte?”<br />
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“Un nuovo orizzonte.”<br />
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“E che senso ha?”<br />
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“Se uno di noi arrivasse là in fondo, sarebbe semplicemente vivo. Non saremmo capaci di starcene qui fermi, sarebbe insopportabile una condanna del genere. L’orizzonte conserva i nostri sogni, aspettando che noi andiamo a recuperarli, che li raggiungiamo. E dopo ogni orizzonte c’è un nuovo orizzonte.”<br />
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“Non si arriva mai, quindi…” <br />
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“E chi ha bisogno di arrivare? Arrivare è finire! Ogni nuovo orizzonte è un nuovo sogno. Ed io, io voglio sognare per sempre.”<br />
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“Non si vive, di sogni...”<br />
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“Non si vive davvero, senza sogni...“<br />
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“Ricordi, Ringhio?”<br />
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“Lo ricordi tu. Basta questo.”<br />
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E Doppia T, senza distogliere lo sguardo da quell’orizzonte, s’alzò, gettò il mozzicone in terra, si voltò, e risalì le scale, tornando di nuovo indietro. Ascoltando Det arrivare e sedersi di fianco all’amico. Come cinque anni prima.<br />
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Tra cinque anni, ad Ystad...<br />
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S<br />
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E alla fine, quando ti resteranno due giorni soli da vivere con me, dopo averne passati migliaia a diventare qualcuno, come dici tu, quando ormai tutti i nostri fiori saranno sulla via d’appassire, troverai un senso a questo tuo cercare? Troverò un senso a questo mio aspettarti? Quando avremo perso tutti quei momenti che non è concesso recuperare, questa nostra realizzazione, come la chiami tu, ci farà sentire completi?<br />
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Questi cinque anni spesi dietro al nostro salir le scale, non vorremo tornare indietro a riprenderceli? Se non sarò diventato un eminente, se sarò ancora un semplice impiegato, tra quarant’anni, sorriderò pensando a quando sognavo di far carriera. Se non avrò vissuto ogni istante con te, tra quarant’anni, mi maledirò, implorerò il Signore di farmi tornare indietro, e morirò sentendo d’aver perso di vista la cosa più importante, in vita. È questo, che m’aspetta. E che aspetta te. Perché non vuoi capirlo? Avrei voluto una vita semplice, senza titoli, senza fama e senza gloria, ma con te. Vivrò la vita che non avrei voluto vivere, per te, senza di te.<br />
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E butterò anche questo foglio, insieme alla mia dignità, nel cestino dei rifiuti.<br />
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Buona notte, Maja<br />
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Milletrecentovenitreesimo giorno,<br />
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tuo Alessandro-<br />
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IN BETWEEN DAYS<br />
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… GO ON GO ON JUST WALK AWAY GO ON GO ON YOUR CHOICE IS MADE... cantava l’uomo dentro lo stereo, riempiendo l’aria del locale di nuovo ossigeno. Ed il cantore sembrava un profeta, con quelle parole sui Giorni Di Mezzo, l’attesa -sebbene la canzone narrasse d’un qualche amore finito- prima che il Ringhio partisse per andare, per tornare, e non tornare più. E sembrava un amico, l’uomo dentro lo stereo, seduto di fronte, oltre la candela, col suo bicchiere in mano, che ti esorta a fare ciò che vuoi, ciò che è meglio per te. E Doppia T, con le gote scaldate dalla fiamma in cima alla cera, fissava la Lingua Zittita Dal Chiodo negli occhi, soffiando fumo, esprimendo con lo sguardo una saggezza dissonante con la sua giovane età.<br />
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Senza parole parlava al Ringhio già muto, con la lingua bucata, sapore del sangue e del vino a sfiorargli la gola; in silenzio, Doppia T capiva tutto ciò che bagnava gli occhi dell’amico di fronte, l’altro ascoltava l’aspetto di grave determinazione del proprio compagno.<br />
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E come un formicaio, le stanze del locale brulicavano degli avventori di divertimento a pagamento, vocii e risate acquistate in saldo su caotici palcoscenici dove l’unico spettatore è l’attore stesso. La Cenerentola in Nero appuntava veloce qualcosa su foglietti bianchi, sorrideva, dopo qualche minuto porgeva il vassoio di felicità in bicchiere a chi ne aveva chiesta, fingendosi sorda agli sguaiati apprezzamenti degli idioti di carne. Si muoveva vittima d’una frenetica danza tra i tavoli del locale, e tossiva ogni volta passando di fianco a quello del suo Uomo, che puntualmente spezzava la sigaretta, mentre Det rideva e carezzava la spettinatura del ragazzo imbronciato a nascondere un sorriso. <br />
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Maja, seduta al banco, sorrideva la malinconia di chi s’accinge a partire, ed osservava Alessandro, il suo uomo, nella mischia a trangugiare bollicine ambrate ridendo, a discorrere con qualche amico. Det la salutò, lei rispose tornando alla realtà, mentre gli schiavi dintorno guaivano della gioia concessagli, il rumore a coprire ogni cosa, a soffocar le coscienze. <br />
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Fumava, per il sapore della nicotina accorpata alla birra, per l’ansia, perché in fondo mancava poco ad andare, e la voglia d’andare era tanta, di più la paura, e lo stomaco, ed il petto, reclamavano la vita da cui quella birra e quella sigaretta potevano distrarre, ma che nulla al mondo poteva sostituire se non la menzogna. Fumava, per far scorrere il tempo, lei che di tempo non ne aveva, troppo impegnata a dimostrare sapeva il cazzo cosa, solo per sentirsi dire di essere realizzata, avere un foglio, una prova, d’aver trovato l’equilibrio, quello che il suo egoismo non le avrebbe permesso mai di trovare, troppo presa a mostrare agli altri d’aver ottenuto qualcosa che invece avrebbe dovuto cercare solo per sé stessa. Fumava, per far scorrere il tempo, per arrivare più in fretta di fronte alle scale che avrebbe voluto salire. Fumava, per far scorrere il tempo, come la maggior parte dell’argilla animata del locale. Viveva, per far scorrere il tempo. <br />
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Con quattordici whisky vuoti davanti, l’Ispettore fumava nervoso, buttava la cenere nei bicchieri aspettando il n° 15, pieno. Umide e macchiate di cenere, tre pagine bianche morivano, con due battute appuntate sopra, sotto i bicchieri sul tavolo di Boujeau, quello fuori dal foglio. La cameriera vestita di nero gli sorrise e lo chiamò per nome, fuori campo, lui sollevò lo sguardo sul primo piano di lei, ringraziò, carrellò dalla figura di spalle che s’allontanava al prossimissimo piano del bicchiere di whisky, il numero 15, quindi strinse in dettaglio sul liquido ambrato. E Creatura e Creatore continuarono a bere. <br />
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Tutti si divertono.....tutti.....io no.....perché non ne sono capace........perché loro non mi vogliono.....eccolo qui il mio posto......questo cesso......sono fatto per stare al cesso..........sono un rifiuto...sterco.......ma in fondo sto meglio qui....là sono fuori posto le loro risate le loro parole io sto qui..........da solo...........sto meglio da solo....................................................................<br />
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...............................................................................................................è meglio per loro..<br />
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In silenzio. I due guardavano, muti, in direzioni opposte, il Ringhio osservava la cassa nera che rinchiudeva l’uomo dentro lo stereo, Doppia T scrutava il soffitto, cercando una fuga al trambusto, al caos provocato dalla mandria di porci, soffiando fumo verso banchi di fumo. Era una situazione particolare, per entrambe, stare seduti in un locale in mezzo a tutta quella gente, con l’orgogliosa misantropia condivisa dai due, sentimento che nel Ragazzo Folle toccava vette sofferte di odio estremo, per l’uomo, per la vita stessa, che toglie valore con un cazzo ed una figa a tutto quello in cui credi, e t’offende, t’offende nell’intimo più profondo, crea il dubbio nel tuo cuore, e soffri, e soffri, e non ne muori mai, sopporti, ma quanto è duro andare avanti tra tutte quelle carni, e che voglia di bruciare tutto, di macellare buoi e vacche, immergersi trionfanti nel loro sangue, come Aiace, e restare soli, ad attendere, o l’amore o la morte. Era l’odio, a tenerlo in piedi tra la folla. L’amore, a tenerlo al mondo. <br />
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Alessandro lasciò il gruppo dei colleghi dell’università, salutò Det incrociandola col vassoio, lei gli fece un gran sorriso, uno vero, non quello di lavoro che faceva agli altri clienti, e lo ringraziò per averle ceduto il passo. Il Ragazzo In Cravatta attraversò i tavoli, e si mise a sedere con i due suoi amici silenziosi. In qualche modo sentiva che quello era il suo posto, ma qualcosa lo obbligava ad intrattenere dei rapporti sociali poco interessanti solo perché così doveva essere, lo legava alle frasi di circostanza ed ai discorsi pieni solo di fiato, agli orologi placcati, agli elogi, alle vette da raggiungere, all’ultimo best seller letto, al programma televisivo della sera precedente, al marchio delle scarpe, alla birra rossa sebbene preferisse il vino. Appena accomodatosi, notò lo sguardo dei due muti fisso ad inquisire il suo collo, portò una mano al colletto, avvertì il nodo della cravatta, lo sciolse e la poggiò sul tavolo. Poi esplosero a ridere, tutti e tre, ed Alessandro chiese a Det un bicchiere per aggiungersi agli amici a bere vino, Malvasia rosso, da meditazione. E vivere davvero, per qualche minuto. <br />
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Già sapeva, però, che quando, mezz’oretta dopo, si sarebbe alzato, avrebbe raccolto la cravatta, e rimesso la camicia nei pantaloni, anche se stringeva il ventre, gonfio di birra.<br />
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Ad un certo punto, quando ancora il chiasso era imponente nel locale, Maja indossò il cappotto verde e s’apprestò ad uscire, senza salutare nessuno. Det la scorse da dietro il bancone, come ogni volta che l’amica si comportava in quel modo sentì il vuoto crearsi nel petto attorno al cuore, quasi che quello fosse fuggito non potendo reggere l’acre delusione che ogni volta gli dava l’egoismo della Donna In Verde, e la trachea avvertiva un fastidioso pizzicore, un soffio, disingannato, di pianto, di rabbia, di sconforto, di resa vera e propria di fronte alla sconfitta dell’essere umani. Per Alessandro, invece, era incomprensibile. Anche quando erano a letto insieme, lei era solo per sé stessa, pensava a prenderlo senza rischi, che vedeva solo per lei e per la sua carriera, poi stava un po’ a crogiolarsi della completezza di avere un uomo di fianco, comunque non indispensabile, e quindi rispondeva al telefono, si rivestiva, lo salutava formalmente, e tornava al suo splendido curriculum. Anche lui era dovuto diventare così, per piacerle. Ma non lo comprendeva, comunque, sottostava, per paura di perdere qualcosa, di restare solo. Non appena vide la Donna Che Pensava d’Amare vestirsi per uscire dal locale, salutò il Ringhio e Doppia T, scattò in piedi, recuperò la giacca e la seguì di fuori. Lei andava a casa. Lui la accompagnò, spaventato da quel suo solito modo di fare, che lei non lo amasse, che fosse arrabbiata con lui, o sapeva il cazzo cos’altro, però era lei, lei, e lui non voleva perderla, anche se era interessata solo a sé stessa, e lui si sentiva solo una cornice, una cornice che la amava, una cornice che senza di lei si sarebbe sentita vuota, inutile. La accompagnò, perché la amava.<br />
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……………………vaffanculo stronzo vaffanculo…………………………………………………………………<br />
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…………………………………………io non ho voglia di uscire cazzo doveva andare a pisciare lui ed io ancora più stronzo gli vado anche a chiedere scusa brutta merda cacasotto che sono………………<br />
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ma che cazzo io me ne vado a casa me ne vado fanculo io non sono fatto per stare qui ……………<br />
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………………………………………………………………………………me ne vado a casa appena se ne sono andati tutti…………………………………starò chiuso qui ancora un po’………………………………<br />
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Numero 27, andava a credito dal 23. la bella cameriera continuava a sorridergli, con un qualche dannato velo di commiserazione nello sguardo. Quando aveva portato il whisky numero 8, gli aveva chiesto se avesse scritto qualcosa. Boujeau le aveva risposto di no. Poi gli fece la stessa domanda portandogli il numero 25. Lui le diede la stessa risposta. Non aveva scritto niente, per tutta la sera, per tutta la giornata, a dire il vero, e ad esser sinceri, per tutta la vita. Per tutta la vita, niente. Però era convinto di essere un regista, uno scrittore, quand’era sobrio. Quando la dignità svaniva completamente dal suo sangue, affermava di essere l’ispettore Leonardo Boujeau. Lo avrebbe fatto anche quella sera, se il pacchetto vuoto non lo avesse costretto ad uscire per comprare le sigarette, e le gambe cedevoli non gli avessero fatto impiegare troppo tempo ad arrivare al distributore automatico e tornare al locale. Trovo la serranda calata, sedette con le spalle appoggiate al muro, accese una sigaretta e s’addormentò, guardando le stelle, così lontane dietro la coltre rossastra dello smog.<br />
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Det aveva tirato giù la saracinesca per metà, il locale era ormai quasi vuoto, solo un tavolo era occupato, sopra due bottiglie di Malvasia rossa, i due clienti muti. Il padrone del locale, il Maestro, chiese a quello magro e spettinato qualcosa. Quello tirò fuori la lingua mostrando una grossa ferita nel mezzo di essa, il Maestro fece una battuta sul piercing andato a male e si vestì per tornare a casa, Doppia T rise, e Det ricevette l’ordine di chiudere lei, se poteva. Misero tutte le sedie sui tavoli, lei, il Ringhio e Doppia T, e poi sedettero all’ultimo, con tre bottiglie di Malvasia, una piena, e stettero lì a bere per un po’, di gusto, che offriva la casa. Parlarono di ieri passati e domani impazienti, del senso di tutto e del senso del niente, del viaggio che s’apprestavano a fare, rotta a Nord per scaldarsi col freddo, un viaggio per stare insieme, in sette a scoprire belle città, belle persone, loro, un viaggio per conoscersi e conoscere, un viaggio per partire, un viaggio per arrivare, un viaggio per finire e ricominciare. Di lì ad un paio d’ore, il Ringhio e Doppia T sarebbero dovuti andare al lavoro, non sarebbero neanche andati a letto, che non si riesce a svegliarsi alle cinque se hai dormito due ore. Il Ringhio fece cenno d’andare col capo, Det prese il cappotto, le chiavi, la borsa, il cappello, il suo libro, il giornale, le foto e la macchina, le videocassette di due film di Kassovitz, la sciarpa, anche i guanti, un quarto d’ora ed è pronta ad andare, anzi no, il cd, col libretto, ora si, escono tutti, tra un quarto d’ora Boujeau tornerà con un pacchetto nuovo di Pall Mall ma troverà chiuso, Doppia T apre la macchina, salgono Det e poi il Ringhio, la portano a casa, a dormire, la Cenerentola In Nero, buonanotte Doppia T, buonanotte Ringhio, buonanotte Det, è ora d’andare, ci vediamo per pranzo, è ora d’andare, è ora d’andare. <br />
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……GO ON GO ON JUST WALK AWAY GO ON GO ON YOUR CHOICE IS MADE…… <br />
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…………… …………………<br />
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ma che cazzo non c’è più nessuno ma cazzo mi han chiuso dentro che stronzi che stronzo che povero stronzo che sono ……<br />
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…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………sono un coglione…………<br />
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…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………mi han chiuso dentro……<br />
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.....<br />
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dentro<br />
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IL VIAGGIO<br />
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Sabato. E pioveva. Forte. Doppia T ed il Ringhio la stavano prendendo tutta, ma non sembravano accorgersene. Digitarono al citofono del palazzo rosso il codice ricevuto da Alessandro, attesero qualche secondo, poi la voce di Maja irruppe tra i rivoli d’acqua e la serratura del cancello rosso scattò. Gli era stato detto al terzo piano, la porta era aperta, Alessandro li salutò senza staccare gli occhi dalla guida turistica della Scandinavia, Maja offrì loro un caffè, strillando però che non bagnassero in giro, fradici com’erano. Uno, coso, come si chiamava, era in bagno, già da un po’, a <br />
dire il vero, mentre Leonardo stava seduto di fianco ad Alessandro, pregustando il quadrinomio imminente caffè, sigaretta, ammazzacaffè, sigaretta. Tutti aspettavano l’ultimo ospite, la cara, dolce Det: un’ora e mezzo dopo, un’ora e mezza in ritardo, Det squillò al campanello della porta, sperando di farsi perdonare l’attesa col dolce che l’aveva trattenuta in cucina.<br />
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Si trattava di viaggiare attraverso le terre nordiche, in treno, per un paio di settimane, tra novembre e dicembre. Maja era poco convinta dalla faccenda, le sembrava troppo faticoso viaggiare continuamente, dover dormire in treno la notte, e passare una vacanza in movimento, abituata com’era a passare russando ogni momento di riposo della sua carriera. Ma presto sarebbe dovuta partire, e le sembrava giusto accompagnare i suoi amici in quel viaggio. Gli altri sei, coso era finalmente uscito dal cesso, sembravano tutti, chi più chi meno, entusiasti del tour organizzatosi: dovevano solo trovare i soldi. Il Ringhio e Doppia T avevano un lavoro quasi fisso, e non si sarebbero fatti comunque problemi a partire senza denari, arrangiandosi alla giornata. Per Alessandro e Leonardo, pagavano i rispettivi papà. Maja aveva i suoi risparmi col lavoro di assistente all’università, Det si sarebbe arrangiata coi suoi part time, coso lavorava da qualche parte, e così si decise di andare incontro al freddo nordico, tutti insieme, tutti e sette, cinque anni prima, gettandosi tra le braccia dell’ignoto, il destino, senza sapere che tale viaggio avrebbe comportato un ritorno: dopo cinque anni, ad Ystad. <br />
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IL BRANCO<br />
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Li univa l’orgoglio.<br />
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Certo, li univa l’affetto: l’amicizia, sentimento di familiarità. Con tutti i suoi ingredienti, fiducia, lealtà, simpatia, dedizione. La comunanza di interessi. Ma quei quattro figli di puttana erano uniti da qualcos’altro ancora, più forte, più grave, più violento: la rabbia. L’odio. Ed uno sterile orgoglio. E mentre per i suoi tre compagni tale sentimento si limitava ad essere coltivato di dentro, nel cuore nella testa e nello stomaco, il Ringhio ne era sopraffatto, travolto, non riusciva a contenerlo e peggiorava la sua permanenza nel mondo con nuovi fastidi, nuovi nemici, nuove avversità e difficoltà ed ostacoli ed insofferenze. Era insofferente a tutto, compreso sé stesso. L’orgoglio di rifiutare gli ambienti accademici come luogo di studio, e trovarsi a spaccarsi le mani per campare senza più avere tempo né forza per fruire o creare. L’orgoglio di non imparare. L’orgoglio di opporsi a chiunque lo volesse diverso, di non sorridere a sforzo, piuttosto sanguinare. L’orgoglio di non dire “sto male”, l’orgoglio di non chiedere per non ringraziare. L’orgoglio di chiudersi in casa a piangere, gridare, tagliarsi, sfregiarsi e sanguinare, l’orgoglio di farsi male per sopportare. L’orgoglio di stare male.<br />
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Erano stati giorni di pioggia, ed un altro ancora aspettava, dietro il mattino della Grande Città, mentre il Ringhio di nuovo carezzava coi capelli l’asfalto. Aveva diciassette anni, e già l’odio lo mangiava. La frustrazione.<br />
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Lui era un pazzo: perché gridare la rabbia contro chi pensa solo per sé stesso, cantare ad alta voce per la strada, scrivere sulla giacca e camminare scalzi sopra l’erba dei giardini, questi sono tutti atteggiamenti da malato di mente. Il problema più grosso, per lui, non era tanto che le persone gli facessero notare l’anomalia dei suoi comportamenti, ma che cercassero di impedirglieli in ogni modo, negandogli la libertà d’approcciare alla vita nel modo più piacevole e sensato secondo i suoi criteri di giudizio; in realtà, anche questo non sarebbe stato un problema tanto grosso, dato il suo disinteresse ad ascoltare critiche ed obbedire ai veti. Il problema vero era che, più cresceva, più restava solo, gli amici li abbandonava fino ad evitarli. Non il Branco. Ignorava quale fosse il legame, sapeva solo di sentirlo e non volerlo tradire. Gli altri tre lo aspettavano sotto il porticato della Villa nel Parco, pioveva, più forte, stavano lì e ridevano di qualcosa successo qualche sera prima. Il Ringhio di lontano sorrise, e avvicinandosi si mise ad ascoltare, non capiva ma rideva. Doppia T raccontava di come la barba d’un tizio avesse preso fuoco con la candela in un locale, e delle reazioni scomposte di quella tizia c <br />
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LB<br />
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I EPISODIO<br />
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Milano. Un’auto parcheggiata lungo un marciapiede d’una via poco trafficata. Autunno. <br />
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LEONARDO BOUJEAU (in macchina, mette a posto qualcosa, poi prende le chiavi e mette in moto. Mentre ingrana la retromarcia Antonella bussa al finestrino del passeggero; lui la guarda a metà tra il distratto ed il rassegnato.) Ciao,‘ntonella…<br />
<br />
ANTONELLA (bella, magrettina, capelli scuri,pelle d’avorio, veste di nero con particolari arancione. Farfallona) Ciao Leonardo, senti me lo dai un passaggio, devo andare al bar e sono in ritardo, lo sai com’è il Maestro…(entra in macchina)<br />
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BOUJEAU Ma io non passo dal bar…(distratto)<br />
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ANTONELLA Daai, per favore, non èe lontano, che ti costa…<br />
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BOUJEAU Non ho detto che non t’accompagno…<br />
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ANTONELLA Grazie, Leo, sei un tesoro<br />
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BOUJEAU (distratto) non chiamarmi Leo…( e partono).<br />
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In macchina, LB ed A.<br />
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ANTONELLA Come vanno le cose, Leo?<br />
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BOUJEAU Al solito…<br />
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ANTONELLA Ma in pratica che lavoro fai?<br />
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BOUJEAU Nessuno, e cerco di sopravvivere…<br />
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ANTONELLA Ma fai davvero l’investigatore privato, come Magnum P.I.?<br />
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BOUJEAU See, magari…<br />
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ANTONELLA Ma ce l’hai la pistola?<br />
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BOUJEAU Mhm?!<br />
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ANTONELLA Dove la tieni? (apre il cruscotto e trova la rivoltella: subito la prende in mano) Allora ce l’hai, la pistola… Che gran bella pistola che hai, Ispettore Boujeau…<br />
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BOUJEAU (sorride distratto, poi) Dai, mettila via, è carica.<br />
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ANTONELLA Oh, hai la pistola carica, allora sei pronto a tutto… E fammi vedere come lo usi, il tuo pistolone…<br />
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BANG!<br />
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Un’automobile volta l’angolo a gran velocità, in lontananza sirene della polizia che s’avvicinano. Il proiettile partito dalla pistola di Boujeau sfonda il parabrezza della sua auto e va a colpire il guidatore dell’auto in fuga, il quale muore sul colpo. L’auto in fuga si schianta contro un palo.<br />
<br />
BOUJEAU Occazzo…!<br />
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ANTONELLA ?!<br />
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Boujeau ingrana la marcia e parte via di corsa: ha riconosciuto l’auto degli sgherri di Vittorio Gambino, e sa di essere nei pasticci. Nella fretta tampona l’auto di Ivan, violento zarraccio della zona. Boujeau riesce a fuggire(corre subito a casa ma lascerà l’auto in un garage del Maestro)<br />
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Casa di Boujeau, locali grandi, ariosi, confusi, disordinati. BOUJEAU è in sala da solo, fuma una sigaretta mentre guarda dalla finestra che dà su una via molto trafficata.<br />
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BOUJEAU FUORICAMPO (primissimo piano rotante ad allontanarsi)Il mio nome è Leonardo Boujeau, e faccio l’ispettore di polizia criminale…(viene via dalla finestra e la visuale lo segue mentre attraversa le stanze in direzione del bagno) Abito in questo appartamento in affitto, il padrone di casa convive con me ed un altro inquilino: io questo non l’ho mai visto, anche se ci ho parlato spesso (bussa alla porta del bagno occupato)<br />
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DIO Occupato…<br />
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BOUJEAU Scusa, non volevo disturbarti…<br />
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DIO Vai in pace, figliuolo.<br />
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BOUJEAU FUORICAMPO (torna in sala e si butta sul divano con la sigaretta accesa) Il suo nome non me l’ha mai voluto dire; Marietto, il padrone di casa, afferma che è Dio, ma ho smesso di credergli da quando si svegliò il mattino dopo un cartone di LSD asserendo d’aver insegnato a suonare a Jimi Hendrix… E’ amaro ammetterlo, ma ormai vivo sulle spalle di Marietto e del Maestro, il padrone del Carlito’s Bar, l’unico posto oltre a casa dove riesco ad elemosinare qualcosa da mettere sotto i denti. Loro m’aiutano volentieri, ed io cerco di dare loro tutto quello che posso per ricambiare; il problema è che mi ficco in guai sempre più grossi e la corda, si sa, prima o poi si spezza. Ci mancava solo il casino di stamattina…<br />
<br />
Parte la sigla d’apertura, forse “Paranoid” dei Black Sabbath. La visuale s’allontana attraverso le stanze, inquadra Marietto, alto, ben messo, capellone, faccia da buono ed occhi assenti, fuma con la chitarra a tracolla mentre ascolta appunto “Paranoid” sullo stereo; poi si perde nel cielo fuori dalla finestra, grigio, decorato da colonne di smog. La scena successiva si apre sul fumo di sigaretta.<br />
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<br />
Nebbione di fumo di sigaretta. Boujeau, Antonella, Marietto ed il Maestro(partenopeo, occhiali scuri anni ’70, in camicia con un cappotto col collo di pelliccia sempre anni ’70, capelli trascurati, catena d’oro al collo con la camicia sbottonata, orologio d’oro, accento del SUD) seduti ad un tavolino appartato del Carlito’s Bar, fumano con un cylum. Piano sequenza circolare dal centro del tavolino, tutti primi piani. La macchina segue il cylum.RIUTILIZZA COME SCENA FINALE<br />
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BOUJEAU (gli viene passato il cylum da fuori campo, lui con la mano lo prende e subito lo passa dicendo) No, grazie. <br />
<br />
IL MAESTRO (contemporaneamente a Boujeau da fuori campo, poi sarà lui a prendere il cylum da Boujeau) Guagliù, ma ch’avete combinato? Ma lo sapete ch’avete fatto uno sgarro a don Gambino, e mò siete pure ricercati? Oimaronna(aspira un tiro di fumo), e mò che facciamo? Ci debbo pensare io, come al solito, eh, Leonà…(passa il cylum a Marietto)<br />
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BOUJEAU FUORICAMPO Ha ragione, Maestro, ma il guaio è fatto.<br />
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No...<br />
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Il furgone bordò mangiato dalla ruggine è fermo di fronte da ieri sera. Stamattina, un ceffo spiegazzato se ne è trascinato fuori, si è allontanato, ed è tornato con un sacchetto di carta bianca unto dal contenuto, ed un thermos con cinque o sei bicchieri di cartone infilati in testa. E così, ancora spiegazzato, ma un po’ più sveglio, è rientrato nel furgone. Boujeau ha capito, da dietro le tapparelle della sua finestra, che dentro quel furgone qualcuno aspettava l’uomo spiegazzato, ha capito che quell’uomo non è il premuroso padre di una famigliola di nomadi, ed ha capito di essere nei guai. Il problema è, non sa perché, non sa come uscirne. Prende il telefono, e chiama Endrix, quattordici squilli per svegliarlo, quello si incazza, però si veste, si lava la faccia, scende le scale dal terzo al secondo piano, bussa alla porta di Boujeau, “stronzo…”, entra in cucina, mette a fare il caffè e s’infila in bocca un biscotto trovato sul fondo di un pacchetto alla fine.<br />
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<br />
No...<br />
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“Leonardo Boujeau” stava scritto sul brandello di carta straccia, e “Leonardo Boujeau, Ispettore” stava scritto sulla porta di quell’ufficio della centrale di polizia. La ragazza, capelli neri ed un sorriso bianchissimo, occhi d’ebano e tre piccole cicatrici a branchie di pesce sul sopracciglio sinistro, un lungo e sgualcito impermeabile a coprire le fattezze di quel corpo nervoso e scattante, non ancora convinta bussò a quella stessa porta.<br />
<br />
“Avanti!”<br />
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“Permesso...”<br />
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La ragazza scivolò dentro come un gatto; davanti, le si mostarva un ragazzo magro, sui trent’anni, serioso e freddo, d’una risibile eleganza da cantante elettrowave anni 70, seduto ad una scrivania, la scrivania più grande e disordinata dell’ufficio.<br />
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“Mi dica...”, disse l’uomo, portandosi in avanti a poggiare i gomiti sulla scrivania con sopra la targhetta a presentarlo, Isp.re Leonardo Boujeau.<br />
<br />
“Lei è l’ispettore Boujeau?!?” chiese la ragazza, i cui dubbi dopo questo incontro s’erano ingigantiti e moltiplicati, e quasi risolti nella decisione di far finta di nulla e rioltrepassare il portone principale del commissariato per tuffarsi di nuovo nella fiumana di consumatori pronti all’acquisto d’ogni bene pubblicizzato ed acquistabile, e lasciarsi affogare così.<br />
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Flebilmente, l’uomo rispose “Beh, in un certo senso...”.<br />
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“CHE CAZZO FAI SEDUTO ALLA MIA SCRIVANIA, FRANZ!?!”<br />
<br />
L’ometto scattò in piedi mugolando “Oh, mi perdoni, ispettore, stavo dando un’occhiata ai rapporti del caso Fantocci quando è arrivata questa signorina che vorrebbe parlarle a quanto ho capito di cosa non so la stavo ascoltando per caso ero qua...mi perdoni, ispettore...”.<br />
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L’uomo entrato dalla porta sembrava <br />
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No...<br />
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È inutile insistere. Ora devo solo aspettare l’idea. Arriverà, l’idea, ed io saprò afferrarla, coglierò l’opportunità. Molti sono capaci, ma non hanno l’opportunità. Io, invece, devo solo aspettare quell’idea, sarà una, nella vita, anche solo una, ma l’avrò. Aspetterò la grande idea. Sono anni che me ne sto di fronte a questi fogli che restano bianchi, fogli che cominciano storie senza finale, incorporee, personaggi che prendono solo l’aspetto, si vestono e muoiono poco dappresso, barlumi di soggetti composti solo da un luogo o un’immagine, è l’inchiostro, l’inchiostro, è colpa sua, è lui che non riesce a descrivere ciò che accade nella mia testa, lo uccide alla nascita, non sa plasmarlo, io lo vedo con gli occhi e la mano non riesce a scrivere, tutto resta dentro, non nasce, è un feto che ho dentro da anni e non vuole uscire, perché forse non è completamente sviluppato, o perché non riesco a partorirlo, è un peso in testa, un peso da cui non riesco a liberarmi, non riesco a liberarmi, non riesco a scrivere, a scrivere. <br />
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Boujeau accende una sigaretta, si sdraia sul letto, fissa il soffitto, ed aspetta. Quando sarà il momento, lui lo saprà, lo sentirà. Per intanto, lui aspetterà.<br />
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S<br />
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Dipingere di bugie. Grandi, piccole, condiscendenze gradevoli quanto mendaci. Un trucco, per portare avanti la pellicola d’una vita che è falsa, trucco essa stessa.<br />
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Ed aveva trovato un trucco efficiente: rispondere a ciascuno ciò che questi volesse sentirsi dire, lasciando scorrere il tempo finché non fosse troppo tardi per fare ciò che non aveva mai avuto intenzione di fare.<br />
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M<br />
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Maja se ne stava tranquilla seduta davanti alla parete di vetro del piano ristorante del battello. Spettri plasmati dalle nubi candide nel cielo l’avevano catturata ed incantata, inchiodata alla poltrona di fronte a sé stessa, come riflessa allo specchio a vedersi dall’esterno. Vide l’ultimo sorriso di Det perdersi nella spuma del mare, cinque anni prima ed ora di nuovo, vide l’uomo in lacrime che la salutava al check in dell’aeroporto, mentre lei partiva per New York, un pianto silenzioso per gridarle quanto la amasse, Alessandro, povero Alessandro, che la chiamava tutti i giorni e trovava solo una segreteria che parlava inglese, mentre lei era presa a costruirsi un futuro, e non aveva tempo neanche per un “mi manchi”, o come forse sarebbe stato più corretto, per un “non aspettarmi, non tornerò”. Tastò le tasche della giacca del tailleur cercando le sue sigarette francesi, ne portò una alle labbra rosso Chanel macchiandone il filtro, e si mise a cercare i cerini. Una mano, reggendo un accendino, le offrì il fuoco che le serviva.<br />
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Ringraziò l’uomo, civettando una certa compiacenza per il favore ricevuto, tirò una gran boccata di fumo e la espirò, fissando con sorriso ingannevole il volto di quello, che s’era fermato ad accendersi anch’esso una sigaretta, una Pall Mall. Quindi l’uomo sedette, sulla poltrona di fianco a quella della Donna Col Cappotto Verde.<br />
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“Incredibile, a volte, come le nuvole in cielo ci mostrino apertamente ciò che ci rode di dentro...” disse in italiano l’Uomo Seduto Di Fianco osservando l’azzurro oltre il vetro. Maja restò sconcertata da quelle parole. Era un uomo trasandato, ma piacevole, d’un fascino maudit. E le chiese: “come mai dalla Statua della Libertà ad Ystad?”. Lei ci rimase, avvampò, lo aggredì, “e lei che ne sa?”. Lui, calmo, le spiegò che le scritte sul pacchetto di sigarette di Maja era in inglese, e ciò gli suggeriva perciò che venisse dagli Stati Uniti: in Inghilterra, quella marca la importavano direttamente dalla Francia, con scritte francesi, dunque, ed il tipo di abbigliamento, invernale, gli faceva intuire invece che lei non venisse dall’Australia, arrivando dalla quale avrebbe avuto abiti da mezza stagione, essendo là estate piena. La Statua della Libertà, perché l’ultimo scalo prima di partire per l’Europa avrebbe dovuto essere New York. Ecco tutto. Maja, sbalordita, chiese all’uomo chi fosse. “Boujeau, polizia criminale.” “E l’italiano?”, disse Maja dopo qualche secondo di silenzio. L’uomo rispose d’aver intuito che era italiana dalle imprecazioni in lingua madre. Maja rise.<br />
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L’uomo di nome Boujeau era italiano, come lei. Era incredibile la lucidità che mostrava nonostante il rivoltante fetore di alcol che gli aleggiava intorno, era quasi certamente ubriaco fradicio, ma non lo sembrava, quasi che l’alcol avesse tirato fuori una persona diversa da quella che probabilmente era in realtà. Non lo stesso uomo deformato dall’alcol, ma un altro uomo. Maja, per conto suo, non ne era disgustata come si sarebbe sentita in una situazione del genere con chiunque altro, ma anzi, ne sentiva il fascino. “E lei, cosa va a fare, ad Ystad, ispettore?”, chiese Maja ambiguamente. Lui la guardò, quasi severo, e sussurrò: “quello che vai a fare tu: ho un appuntamento, l’hai fissato tu, cinque anni fa, non ricordi?”. La Donna In Verde ebbe un sussulto, un brivido, mentre il cielo di fuori si copriva, e riconosceva la luce negli occhi di Leonardo, il vecchio Leonardo.<br />
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“Davvero non mi avevi riconosciuto?”, chiese Boujeau, spegnendo la sigaretta in un posacenere per accenderne subito un’altra. Maja, ancora sconvolta da quell’incontro quasi terrorizzante, da quell’impatto pieno col passato, accennò una conferma col capo. Tremava. Leonardo sorrise, “hai capito, allora, come sapevo tutte quelle cose di te?”. Ma Maja ormai era persa in un vortice, fatto dei volti che aveva quasi dimenticati, volti che in cinque anni erano cambiati, volti a cui non sarebbe stata in grado di confessare che non ne aveva sentita la mancanza e che forse, se fossero stati tutti morti, le avrebbero reso più leggero il ritorno a casa. Sensazione dettata dalla consapevolezza e dal senso di colpa di averli traditi.<br />
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Maja aveva deciso di partire per l’America, ed accettare un lavoro come assistente all’Università di New York. Lei faceva già l’assistente per una cattedra nell’Università della sua Città, ma aveva deciso che New York era New York. Sarebbe dovuta partire prima del termine delle vacanze. Questo amareggiava i suoi amici, ed il suo ragazzo, Alessandro, il fatto di vederla andarsene a metà del viaggio attraverso le lande scandinave, e poi non vederla per cinque anni. Era per accontentarli, che aveva fissato quel fasullo appuntamento ad Ystad, che lei riteneva uno scherzo, gli altri sei una promessa. Il suo scherzo finì, dopo ventiquattro ore dall’arrivo nella Grande Mela, quando seppe della tragedia che aveva spezzato definitivamente il viaggio e le vite dei suoi vecchi compagni.<br />
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I suoi sei compagni di viaggio la circondavano, cercando di mostrarsi allegri, nella stazione di Malmo, mentre lei s’accingeva a partire per Kobenhavn, tornare da lì nella Grande Città e prendere l’aereo della svolta, la sua svolta. “Buon viaggio!”, le augurò Alessandro, un po’ impacciato. “Grazie”, rispose lei, raggiante e decisa. “Ascolta, ti inviamo una e-mail, così ci fai sapere come è andato il viaggio... tra un paio di giorni noi siamo ad Ystad...”.<br />
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“Allora, ci vediamo ad Ystad, tra cinque anni”, rise Maja, colla sua giacca a vento verde. In coro, gli altri sei giurarono, solennemente: “Ad Ystad, tra cinque anni!”<br />
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Leonardo ricordava bene quel momento, era ancora troppo presto perché fosse già ubriaco. Ricordava anche che Maja non fece mai sapere se fosse arrivata o meno. L’avrebbero rintracciata solo quattro giorni dopo la tragedia di Ystad, con un messaggio di posta elettronica sintetico e terribile, che lei avrebbe letto solo dieci giorni dopo averlo ricevuto, a cui non avrebbe mai risposto, ma avrebbe coltivato nel suo animo il rimorso come lo stimolo a rispettare la promessa.<br />
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Cenarono insieme, senza toccare l’argomento ”vecchi tempi”, che forse entrambe volevano eludere, ed invece discorrendo e raccontandosi quello che avevano fatto negli ultimi cinque anni. Maja era diventata docente e ricercatrice di lingue inglese e tedesca, aveva pubblicata la tesi di laurea per un editore che poi pubblicò altri due suoi libri. Era diventata una esimia nell’ambiente accademico statunitense ed italiano. Gli allievi dei suoi seminari, ed alcuni colleghi, la chiamavano Frigidaire, ironizzando sulla sessualità della personificazione della Professionalità, ma questo lei non lo sapeva. Non sapeva neanche che molti avevano imparato a detestarla, tra cui il suo giovane assistente, il quale aveva messo in circolo la voce che gli uomini non le interessassero, perché troppo affezionata ai lavori manuali del “fai da te”. <br />
<br />
La vita di Leonardo era stata molto più semplice: al mattino si svegliava, accendeva una sigaretta ancora dentro il letto, pensava a cosa avrebbe scritto quel giorno, poi s’attaccava alla bottiglia, e si svegliava il giorno dopo. Mangiarono tutto con gusto, senza imbarazzi. Nel momento in cui si erano incontrati e riconosciuti, il tempo era stato cancellato, il passato diventava racconto, avvenuto solo nel pensiero e nel ricordo, mentre loro erano lì, insieme, a mangiare, come cinque anni prima, cinque anni mai trascorsi, cinque anni ed erano ancora loro, quei ragazzi di ventun’anni, a ventisei. E giunse l’ultimo bicchiere di vino. Maja sbadigliò, provata dal viaggio e dal Chianti, ed il gentiluomo Boujeau, il personaggio, si offrì di accompagnarla in camera non appena lei lo avesse desiderato. Lei sorrise e ringraziò, accettò la Pall Mall portale dall’uomo, lasciò che lui la accendesse, accavallò le gambe strappando le calze di nylon verdi in una imperfezione della sedia su cui stava seduta, imprecò un qualche santo, Leonardo rise e la guardò in silenzio.<br />
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<br />
Entrò in lei con impressionante irruenza, Maja ebbe un sussulto, sentì un calore lacerante tra le cosce e mugolò di piacere. Leonardo, sopra il suo corpo nudo, bolliva, sudava, le sembrò che grugnisse, ma un velo calò sui suoi occhi spalancati dalla passione, il corpo travolto dalla virilità eruttiva del maschio che teneva di dentro. L’uomo s’accasciò su di lei, svuotato, stremato, quasi incosciente. Lei sospirò, e per la prima volta in vita sua, non pensò di fumare dopo l’orgasmo, completamente rapita dall’immagine fissatasi nella sua mente, Leonardo, il vecchio Leonardo, un nuovo Leonardo, l’uomo che aveva appena amato, sdraiato su di lei, così bello come non se lo ricordava, come lo voleva, la presenza bollente sul suo ventre appena allontanatasi per cercare una sigaretta nella tasca dei calzoni gettati a terra, lasciando la sua pelle nuda intirizzirsi al freddo. “Vado a fare i bagagli, tra un paio d’ore sbarchiamo ad Ystad... mi trovi al bar, se vuoi...”. Leonardo allacciò la cintura ed uscì senza voltarsi, mentre lei pregava perché lui la baciasse, perché tornasse a scaldarla col suo calore, assaporando una qualche muta umiliazione. Vedendosi là, su quel letto, scoperta sulle lenzuola disfatte, un’altra nuova, vecchia immagine venne ad alimentare le sue lacrime. Alessandro...<br />
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HostELL<br />
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Leonardo camminava lungo il sentiero che collegava attraverso il cantiere il porto all’ostello di Ystad; qualche metro dietro, Maja lo seguiva impacciata trascinando la pesante valigia rigida, le cui rotelle si incastravano tra le pietre della strada sterrata. Lei, Ystad, non l’aveva mai vista. Lui, se la ricordava identica a quel paesino silenzioso di fronte ai suoi occhi, immobile, sospesa, un mortorio, come cinque anni prima.<br />
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Sulle scale dell’ostello, Doppia T stava seduto a fumare ormai da qualche giorno. Pensava sarebbe stato meglio masticare catrame, piuttosto che assaporare il tabacco delle Blend svedesi, e disgustato, semplicemente, ne accendeva un’altra. Salutò Leonardo, come se si aspettasse di vederlo sbucare nel vano scala con accesa la sua Pall Mall, o forse solo se lo augurava per fumare qualcosa di simile ad una vera sigaretta. Fu l’entrata di Maja, che non s’aspettava: lei lo guardò, gli sorrise e lo salutò, senza l’imbarazzo che invece provava il Gigante Seduto a Terra ad incontrarla così, dopo quel lustro passato senza vedersi e mai cercarsi, Maja. Quasi non l’aveva riconosciuta, se la ricordava ventunenne a sognare il suo futuro come fosse un gioco, se la trovava di fronte donna, soddisfatta nella sua ambizione, col gelo negli occhi ed un alone d’altezzosità e superbia che faceva venir voglia di prenderla a sberle. Nonostante questo, rispose al saluto cercando di mostrarsi contento di quell’incontro, supportato in questo dallo stupore dovuto alla smentita della sua convinzione che la Donna Col Cappotto Verde non sarebbe mai venuta all’appuntamento.<br />
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Leonardo salì veloce le scale, una mano in tasca, l’altra a reggere la sua piccola valigia da viaggio. Maja gli arrancava dietro, imprecando tutti i santi del calendario, sollevando a fatica il suo valigione rigido, lussuoso sarcofago contenente il suo aspetto d’affidabilità. Quando la Donna Col Cappotto Verde spuntò sul piano delle stanze, Leonardo aveva già ritirato le chiavi alla reception; lei s’affannò per raggiungerlo senza che lui rallentasse per aspettarla. Maja aprì la porta lasciata socchiusa da Boujeau ed entrò nella loro stanza, Leonardo fumava seduto sul letto a guardare verso la finestra. Maja tolse il cappotto sospirando sollievo, l’ispettore le afferrò le spalle, premette il proprio petto sulla sua schiena, la baciò sul collo, e se la scopò.<br />
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Mentre il treno si fermava, Alessandro scorse l’ostello accanto alla stazione di Ystad. Coprì la cravatta con la sciarpa, attese s’aprissero le porte, e scese sulla banchina del terzo binario. In fondo, dove l’asfalto di questa cominciava a perdersi tra le erbacce, il Ringhio stava seduto, come cinque anni prima, su una vecchia sedia di legno abbandonata, con le mani conserte davanti alla bocca, le spalle alla stazione, e lo sguardo smarrito laddove scomparivano le rotaie, all’orizzonte. Alessandro decise fosse meglio non disturbarlo, salutò con un cenno Det, seduta a sorridergli sul davanzale di una finestra dell’ostello, e s’avviò stancamente verso l’entrata di questo.<br />
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Il seno di Maja premeva schiacciato contro il materasso, sudore imperlava l’abbronzatura artificiale sulla pelle del suo corpo nudo, inginocchiato sul letto come un pupazzo gettato via, sfinito, sfibrato, col culo per aria. Tre minuti prima, Leonardo aveva acceso l’ultima Pall Mall del primo pacchetto del giorno, s’era rivestito ed era uscito. Ora Maja giaceva assopita nel piacere. Sei minuti prima, Leonardo aveva grugnito lasciando sgorgare nel ventre di lei la sua virilità. Maja sentiva ancora lo sperma del suo amante fugace scorrerle lungo le cosce bagnate. Contrasse il volto in un impercettibile riflesso, e s’accorse d’avere il viso affondato in una pozza di bava. Non si mosse: non ci riusciva. Dieci minuti prima, Leonardo Boujeau le era scivolato alle spalle e l’aveva spogliata per possederla. Due mesi dopo lei avrebbe abortito per non creare intoppi alla propria carriera. Leonardo non si sarebbe opposto. Anzi, non se ne sarebbe neanche interessato. Nove minuti prima, lui l’aveva penetrata con violenza da dietro i glutei, strattonandola, piegandola tra le sue braccia potenti; a lei, era piaciuto. Un quarto d’ora più tardi, però, avrebbe pianto. Ora, sospesa, nel momento in cui il tempo è convenzione, e si può vivere tutto il passato e tutto il futuro e tutti i possibili nel medesimo istante, travolta dalle sensazioni, Maja ancora non poteva scorgersi come una figura definita; ma quel quarto d’ora dopo, quando Leonardo sarebbe rientrato in camera, svegliandola, senza dire una parola, per uscire senza guardarla con un pacchetto pieno di Pall Mall, allora le lacrime si sarebbero unite calde alla saliva gelata impregnata nel lenzuolo, mentre il bruciore tra le cosce si sarebbe fatto più intenso e pruriginoso.<br />
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Doppia T mise a fare il caffè per tutti, nella cucina dell’ostello. Accese una sigaretta ed aprì la finestra, aspettando l’ebollizione dell’acqua nella caffettiera. <br />
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Alessandro era arrivato da poco, e si era sistemato nella stanza di Doppia T. Il Gigante gli aveva fatto sapere che erano già arrivati anche Leonardo e Maja, e quindi, dei sette del vecchio viaggio, ne mancava solo uno, coso. Alessandro cercò di camuffare la sua gioia impaziente di rivedere quella che lui ancora considerava la sua donna, amata per cinque anni di lontananza senza mai cedere, mai arrendersi, solo cercando di non deludere le sue aspettative, stringendo sempre più il cappio intorno al collo. Aveva trattenuto il sorriso, e s’era impegnato a cercare di contattare quello che non c’era, poi era corso a prepararsi a rincontrare la sua Donna. Certo, ora che Doppia T stava in cucina a versare il caffè nelle quattro tazzine sul vassoio, e Leonardo se ne stava seduto in poltrona a fumare, e lui guardava Maja che guardava Leonardo ed ancora non gli aveva parlato oltre quel “ciao” distante di qualche minuto prima, Alessandro si rese conto che non solo sarebbe stato difficile rivederla e far finta non fosse passato tutto quel tempo senza vedersi, ma sarebbe stato ancora peggio di quanto si era aspettato sino ad allora. Doppia T spense la sigaretta, per non dare fastidio a Det col suo fumo, e portò i quattro caffè nella hall dell’ostello: Det non l’avrebbe bevuto comunque, non lo amava granché. Il Gigante sedette, ed oltre quel paio di “grazie” tornò il silenzio. <br />
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Poi Det tossì, e Doppia T ruppe il mutismo generale: “Non fumare, Leonardo, dà fastidio...”<br />
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“A chi?”, chiese Leonardo stranito, quasi che quella richiesta gli sembrasse assurda. Il Gigante fece un cenno col capo verso la finestra, e disse: “A Det.”. Alessandro fu come svegliato di colpo dal suo torpore, si girò verso Doppia T e cominciò: “Ma Det…”, poi scorse la determinazione negli occhi dell’amico e si fermò a guardare Leonardo, il quale spense la sigaretta con un ghigno divertito. <br />
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“Chi manca?”, chiese Maja.<br />
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“Coso, come si chiama…”, rispose Alessandro, “anzi, adesso vado a chiamarlo al telefono, per sentire se è partito, sai, dopo cinque anni può darsi si sia dimenticato del ritrovo… vuoi venire con me, Maja?”<br />
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“No, grazie, vai pure… anzi, già che scendi guarda se mi trovi le sigarette in tabaccheria, conosci la marca, no?”<br />
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“Già, conosco la marca…”<br />
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Sei ancora tu? T’ aspetto da cinque anni, e tutto quello che sai dirmi è ‘comprami le sigarette’? Ti ho cercata per cinque anni, ti ho aspettata per cinque anni, ho fatto da solo per tutto questo tempo, ho dedicato ogni mio giorno a te, ho pregato ogni sera d’addormentarmi e risvegliarmi oggi, di fronte a te. E tu? Forse aveva ragione il Ringhio: diceva che se te ne andavi per te, era perché io non faceva parte di te. Diceva che l’eternità è una semplice evoluzione lungo la stessa linea, perché niente è eterno. Noi potremmo renderlo tale, ma siamo troppo piccoli. Ed io, ora, io, ho paura che tu, in fondo, sia troppo piccola. Perché ho seguito la tua strada, con questa cravatta di merda che mi stringe il collo, quelle cazzo di scale che portano in alto, ed ora mi sento solo un piccolo stronzo. Piccolo. Quel giorno non avrei dovuto correre in ufficio. Sarei dovuto restare a casa del Ringhio, avrei dovuto tornare quello di un tempo, come diceva lui. E forse, tu mi avresti amato ancora, perché in fondo ci troviamo sempre ad amare ciò che non abbiamo. Avresti continuato ad amarmi come sempre, fumando dopo aver scopato, scopando solo nel fine settimana che non avevi impegni, scopare e scappare lasciandomi lì a piangere come un coglione. Come un bambino. Vaffanculo, Maja. Ti amo, vaffanculo!<br />
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Nella hall seguitava l’impero del silenzio. Pesante, grave, tedioso silenzio. Leonardo non fumava, Maja lo osservava, Doppia T fissava il fondo della tazzina, e Det sorrideva a tutti, come aveva sempre fatto. Poi entrò il Ringhio, ed il silenzio scappò. “Vado a fumare una cazzo di sigaretta!”, esclamò Boujeau, il silenzioso Boujeau, alzandosi dalla poltrona sulla quale si sedette il Ringhio. “Ti seguo…”, suggerì la Donna Col Cappotto Verde, alzandosi a sua volta. Leonardo non rispose, semplicemente in silenzio uscì, rincorso dalla Donna In Verde, mentre Doppia T distribuiva i pezzi sulla scacchiera di legno sfidando il buon vecchio Ringhio e Det cantava una canzone triste e meravigliosa guardando oltre il vetro lucido della finestra.<br />
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Come cazzo si fa poi a fumare sigarette fatte da uno stilista francese... ma se quello fa i vestiti, che ne sa di come s’essicca il tabacco? Certo, non m’aspettavo proprio che quel poveraccio avrebbe fatto quella fine... certo, era un tipo strano, chiuso, aveva dei problemi, ma abbiamo sempre cercato di tirarlo dentro, anche il viaggio di cinque anni fa, a momenti dovevamo costringerlo e legarlo, per farlo venire... poveraccio... poi, sembrava capitassero tutte a lui, ricordo quando non andò a lezione perché era rimasto chiuso dentro il locale di Det. Che tipo! E adesso, anche adesso, è finito in coma perché non ha più voluto uscire di casa! Cioè, ha preferito NON mangiare piuttosto che entrare in un supermercato a fare la spesa. Alla fine, più che dire poverino, ti viene da farti due risate... uno che muore d’imbarazzo! Carlo! Ecco come si chiamava, Carlo! Appena torno a casa, vado a trovarlo in ospedale...<br />
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Leonardo camminava in silenzio e fumava, una mano in tasca. Maja cercava di stargli dietro come poteva, scivolando sul ghiaccio dei marciapiedi di Ystad. “Leonardo?”, chiamava, quello si girava e la guardava, lei gli sorrideva, e lui si rivoltava e ricominciava a camminare. Alle sei di sera, le strade cominciavano ad amalgamarsi nelle ombre, poche luci dai negozi e dai lampioni, Alessandro che tornava dal negozio di tabacchi. Maja raggiunse il suo Boujeau, s’attaccò ad un suo braccio, lui si fermò e lei gli poggiò la testa sopra il petto. E mentre Alessandro s’affrettava per raggiungerli agitando il braccio ad attirarne l’attenzione, le labbra della Donna di New York s’appoggiavano su quelle del Regista Senza Storie...<br />
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...se torno a casa...<br />
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Come al solito, Doppia T s’era perso in chiacchiere prima d’iniziare la partita. Era strano, parlava pochissimo con gli altri, alcuni non ne conoscevano la voce, e invece col Ringhio e Det parlava quasi solo lui, non riuscivano mai a cominciare una partita a scacchi o a carte, il Ringhio non assaggiava mai la sigaretta, Doppia T parlava e ricordava, raccontava ed ascoltava. Sembrava fosse stato l’unico ad avere continuato a vedere il Folle e la Bambina, in quegli anni, ma nutriva la convinzione che questi non avevano perso i contatti neanche con gli altri. Se no, non sarebbero stati tutti lì, diceva. Il Ringhio gli sorrise, gli scroccò una sigaretta, ed uscì per non infastidire Det; lei smise di cantare e sedette accanto all’amico camionista. Doppia T, saltata la partita, mise a posto la scacchiera, e notando che i due pezzi più importanti del suo colore erano andati persi, decise di buttarla, che ormai non si poteva giocarci più.<br />
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Alessandro entrò nel salotto dell’ostello, e sedette di fronte a Doppia T, che aspettava di sapere chi avrebbe cenato lì, quella sera, per mettere a far da mangiare. “Tu sapevi...”, sussurrò sciogliendo la cravatta. “No, ma avevo immaginato dai rumori...”, rispose Doppia T distratto, con poco tatto; Alessandro rimase in silenzio, giocherellando nervoso col pacchetto allungato delle sigarette eleganti di quella che ormai capiva chiaramente non essere più la sua amante, ma solo la sua amata. “Sono arrivati insieme, ma il Ringhio dice che si sono incontrati per caso…”, Doppia T parlava ma sembrava pensare ad altro, Alessandro lo ascoltava ma non sentiva le sue parole troppo attento a decifrare i conati di rabbia e passione provenienti dal suo stomaco ferito. Il fetore di fumo e sambuca preannunciò l’ingresso di Leonardo, col suo seguito intraprendente e devoto e completamente sottomesso e col labbro inferiore livido e gonfio per la violenza dei baci dell’ispettore Boujeau; Alessandro, la cravatta sul bracciolo della poltrona, le lanciò il pacchetto bordeaux di sigarette francesi, esclamando: “Eccole!”, poi si tirò in piedi e sbottonando il colletto della camicia si portò in cucina, prese una bottiglia di costosissima vodka al limone, se ne versò una tazza, e stringendo questa tornò nel salotto, per sedersi di fronte a Maja. “Allora?”, chiese Leonardo accendendo una sigaretta, “chi manca?”. “Chi manca è morto…”, gli rispose il gigantesco filosofo; “Non ancora”, intervenne Alessandro, mentre buttava il suo elegante orologio da polso dalla finestra socchiusa per cambiare l’aria, “Carlo è in coma, per disidratazione e denutrizione, in prognosi riservata all’Ospedale Maggiore: si era chiuso in casa per non vedere più nessuno, sembra, ed è arrivato a non mangiare pur di non affrontare altre persone”. “Carlo?”, chiese Maja, “Carlo era il nome di quello che manca”, rispose Doppia T, “te lo sei dimenticata?”, Maja abbassò gli occhi imbarazzata, Leonardo rise ed esclamò: “Era un debole, era ovvio...”. Nessuno replicò.<br />
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Ormai, tutti gli adunanti erano convenuti all’appuntamento: quella notte, come cinque anni prima ad Ystad, si sarebbero spostati sulla spiaggia a guardare il mare, senza sapere di trovarsi di fronte alle svolte delle loro vite. Cenarono in silenzio, poi Doppia T ed Alessandro stettero ad aspettare l’ora di uscire bevendo della crema di whisky mentre il Gigante cercava di insegnare a fumare all’Uomo Senza Cravatta. Leonardo si stava scopando Maja, Maja stava amando Leonardo, Det cantava quella canzone del “non ci sono se” che le piaceva tanto col capo poggiato sul petto del Ringhio, il quale in silenzio aspettava. “Marco…”, disse ad un certo punto il Folle, giocando con due pezzi degli scacchi tra le dita; “Come?”, chiese lei, cercando di capire. “Marco. Si chiamava Marco, non Carlo“.<br />
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Doppia T entrò nella stanza, dove Alessandro sdraiato sul letto guardava il soffitto e piangeva, in silenzio, sommesso. Le lettere scritte per Maja, solo le più belle, le altre le aveva lasciate nel suo appartamento, bruciavano dentro il cestino della spazzatura. Il Gigante fece finta di niente e lo chiamò, era giunta ormai l’ora di tornare al molo.<br />
<br />
“Quand’è stata l’ultima volta che hai parlato col Ringhio?”, chiese quello sdraiato.<br />
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“Dieci minuti fa…”, rispose tranquillo Doppia T.<br />
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“Sei fortunato. In cinque anni io l’ho rincontrato solo qualche giorno fa, a casa sua, ha cercato di riaprirmi gli occhi… c’era anche riuscito…”<br />
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“Però?”<br />
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“Però per me era più importante tenerli chiusi. Per Maja, per lei sola…”<br />
<br />
“Aha…”<br />
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“Sai, sono riuscito a vederlo anche prima, ma pensavo fosse una allucinazione, appena sceso dal treno… Sai, i luoghi del ricordo…”, cercò d’accendersi una sigaretta presa dal pacchetto dell’amico in piedi, Alessandro, ma cominciò a tossire, con la gola in fiamme; poi: “Perché mi ha cercato così poco, in cinque anni?”<br />
<br />
“Forse eri tu a doverlo cercare…”<br />
<br />
“Già…”, si stirò. “E Det, Det l’hai più vista?”<br />
<br />
“È sempre insieme a lui…”, disse il Gigante, come fosse cosa ovvia.<br />
<br />
“Io l’ho vista che mi salutava dalla finestra appena sono arrivato. Non ci credevo: casa del Ringhio, dentro è rimasta uguale, Ystad, l’immobile Ystad, pensavo fossero allucinazioni, invece poi arrivi tu che non vuoi che si fumi per Det…”<br />
<br />
“Per rispetto…”<br />
<br />
“Si, ho capito, ma rispettare qualcuno che non c’è, io non l’ho mai fatto, io non ci ho mai parlato, pensavo fosse solo nella mia testa!”<br />
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“E forse lo era. O forse non sai guardarti intorno.”<br />
<br />
Silenzio. Poi Alessandro sussurra: “Perché tutto deve finire? Perché sempre Ystad? Il Ringhio, Det, Maja, perché?”<br />
<br />
“Perdi quello che non sai trattenere…”<br />
<br />
“Gran bella cazzata!”, esplose a ridere il Ringhio, “forza, culoni, muovetevi, è ora d’andare, volete farci aspettare per l’eternità?”, ed Alessandro stupito mostrava un sorriso nel pianto, e seguiva gli amici giù per le scale dell’ostello prestando ascolto al canto di Det, confuso da ciò che vedeva e sentiva. <br />
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W<br />
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…………………………………………5 anni <br />
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sono passati 5 <br />
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anni<br />
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dovrei ad <br />
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Ystad<br />
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come<br />
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andare <br />
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promesso<br />
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ma…………………<br />
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……………………… … …………sto bene qui<br />
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da solo<br />
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non se ne<br />
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accorgeranno<br />
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neanche<br />
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neanche<br />
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sto bene<br />
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qui<br />
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chiuso <br />
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finestre<br />
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solo<br />
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non<br />
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ridono più<br />
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qui s o l o ne a nc h e<br />
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ma n g i o<br />
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so l o <br />
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sonn o sonno<br />
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so n n o<br />
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ENDE<br />
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Cinque anni. Un istante. Una Notte, sospesa. Nel suo ventre, sette anime. Sospese. Ed il mare, Nero Mare del Nord. Stelle. Ed il molo, un ponte verso un nuovo orizzonte spezzato a metà. La Donna Col Cappotto Verde reggeva un crisantemo, margherita infinita, sul petto, lo scaldava dal freddo tagliente, lo stringeva come fosse un bambino, come fosse un’amica perduta tanto tempo prima, ma che ora era lì, lì di fianco, a stringerla dello stesso calore che lei. E la spiaggia raccoglieva i loro piedi in attesa, i loro e quelli degli altri di fianco. In attesa. Scrutando il grembo di Dio.<br />
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<br />
<br />
Cinque anni, un istante, una Notte, sette anime, otto piedi nella sabbia, bianca sabbia del Nord, gelida e morbida, sfiorata dal Vento Freddo. Ed il vento, passando, si portò via un’anima, un’anima debole svanì nel vento, abbandonando infine il peso troppo grande per lei, e forse fu meglio così, che l’alito clemente se la portò via. Da sola, come sempre si era sentita.<br />
<br />
<br />
<br />
Cinque anni, un istante, una Notte, sei anime sospese s’adunano, ritornano una. Solo la Notte le guardava, immobile, ed il Mare le ascoltava, percepiva quel limbo, un limbo durato una vita, sei vite, e le cullava sussurrando un canto sommesso, benevolo. L’Uomo con La Cravatta tremava. Tremava perché aveva già vissuto tutto una volta, ed aveva cercato di sfuggirgli, perdendo tutto, per ignavia, per debolezza, per paura, ma ora era lì, cinque anni prima era lì, a sognare con le persone che riempivano la sua vita, e d’improvviso tutto finì, tutto finì. Anche Maja, la bellissima Maja, la tanto amata Maja, amata ogni giorno per milleottocentoventisei giorni passati ad attenderla, ogni giorno trascorso nel nido ad aspettare il ritorno di lei riparandosi dal freddo fingendo non esistesse più niente, facendosi sterile per sopravvivere a quella carenza, rendendosi cieco per non vedere la sua solitudine, persino Maja ormai era perduta. Non amava più quello che lui era diventato a causa sua, come la madre di un mostro aveva disconosciuto la propria creatura, fingendo di non aver mai partorito l’abominio. O forse, non l’aveva mai amato davvero; forse, lei, non aveva mai amato nessuno. Le lacrime erano l’unico calore che gli restasse; l’unico calore vero. Ripensò per un momento a casa sua, alla felice costruzione che l’aveva protetto sino ad allora, la sorridente coreografia della sua vita sopravvissuta nell’ultimo quinquennio. Pensò alle distanti comparse che animavano le sue giornate ed alleviavano la sua solitudine. Pensò all’immota tranquillità di quell’ultimo periodo, la soppesò col dolore immane, il dolore che uccide, di vedere di nuovo Maja non amarlo. Salutò in silenzio il Ringhio e la Venere, sciolse la cravatta, asciugò le lacrime con un braccio, e s’allontanò, senza che nessuno lo vedesse. E partì, ora si, per un nuovo viaggio, un viaggio senza cravatta, a cercare se nel mondo fosse rimasto qualcosa per cui valesse la pena inalare il puzzo di morte che esala la vita.<br />
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<br />
Cinque anni, un istante, una Notte, cinque anime sospese, tre sigarette accese per strozzare il magone che attanagliava la gola, il Gigante Silente si mosse per primo, verso la fine del molo: quattro gambe, quattro anime lo seguirono, la brezza che tagliava la faccia, tre sigarette che arrivano al termine, tre bagliori che s’affievolano nel cielo stellato, come quei due cinque anni prima. Morfeo butta un po’ di sabbia nelle acque d’ebano, ed un ricordo ritorna come un sogno, come un sogno che solo un poeta potrebbe descrivere. Leonardo, quello di carne, chiude gli occhi e rompe il silenzio fisico. Racconta. E le sue parole presero forma negli occhi dei due con lui, il Gigante e la Donna Col Crisantemo, in quel limbo che ormai il tempo era una convenzione, presente e passato simultanei alla pelle. Racconta la storia di due anime, due anime che Dio aveva create perché fossero una, due anime che s’erano trovate ed amate ed amalgamate fino ad essere l’una nell’altra come nel liquido amniotico, fino ad essersi completate da non poter più esistere, l’una senza l’altra. Uno scherzo ordito da Dio per dar loro la felicità, la quale è poca cosa per l’uomo, il non essere soli a venire ammazzati dal mondo. Due. Racconta la storia della Bambina Innamorata che ha imparato a vivere senza piangere, ed ama sì tanto la vita da volerla abbracciare tutta, ed in una notte come quella, cinque anni prima, s’avvicinò all’Oceano D’Ebano, come all’Universo, per ringraziarlo di tutto quello che aveva. E racconta degli occhi di un Folle che sorridevano alla Bambina danzante nelle acque che le carezzavano i piedi, gli Stivali Neri abbandonati in mezzo alla sabbia. Racconta di emozioni condensatesi in aria come carezzassero le anime sospese di fronte al Senso Di Tutto, ricorda un istante che valeva una vita, sette vite. Poi la voce si rompe, tutto si rompe. La Bambina Innamorata inghiottita dalla crudele violenza del mare, in silenzio. Gli occhi sferzati dalla disperazione, le gambe tagliate di netto alle ginocchia dal sangue che manca alla testa della nuova famiglia che la guardava. Il cuore del Folle che esplode credendo che tutto sia perduto, nel mondo e nell’universo, e trova nella morte quello che ha sempre cercato per dare senso alla vita, il dolore troppo grande, abbastanza, da morirne. Il grido struggente del Ringhio che chiama la parte persa di sé, e la Venere Oscura che riemerge dal mezzo di tenebra, stordita, e corre incontro al suo uomo per terra, senza ancora capire il grave peso che le offusca la vista, gli si siede accanto, e lo guarda morire, per spegnersi dello stesso dolore. Un altro scherzo di Dio, forse troppo crudele, un istante che vale due vite, sette vite.<br />
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Cinque anni, un istante, una Notte, cinque anime, due Uomini che scrutano il mare cercando il passato, una Donna che il passato lo vive per la prima volta. Doppia T accese una sigaretta e la poggiò su una pietra, quindi ne accese un’altra e fumando salutò l’amico, a cui dopo quella non ne avrebbe mai più offerte altre; si girò, salutò i due amici, e tornò a piedi, lungo il sentiero, verso il suo tir, mise in moto, accese un’altra Gitane, e ripartì, senza guardarsi indietro. Chiese al Ringhio ed a Det dove volessero andare, loro risposero verso un nuovo sogno, lui sorrise e vagò per il resto degli anni, fino all’ultimo giorno, quando si sentì morire, e per farlo volle ci fosse l’oceano, e Lisbona, ed il Folle e la Venere a dargli la mano, che in fondo allo stomaco sentiva paura, paura, che non ce l’avrebbe mai fatta da solo, ad immergersi e lasciarsi andare verso gli infiniti orizzonti dell’universo. <br />
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Cinque anni, un istante, una Notte, quattro anime, un Uomo e una Donna a leggersi dentro. Leonardo scoprì la sua voce parlare per la prima volta, e s’accorse di non avere mai detto niente perché non aveva mai avuto niente da dire. Sentì il peso dei suoi anni passati ad aspettare qualcosa che invece avrebbe dovuto cercare semplicemente vivendo, sentì d’aver perso qualcosa, ma tutto quello che fece fu accendere un’altra Pall Mall. Maja sentì che quel rimorso ora era più forte di prima. Piantò nella sabbia lo stelo del crisantemo, che inaridì, subito, come ogni emozione provata da quando era nata, e s’allontanò, di fianco a Leonardo che fumava, fingendo che forse quel nuovo calore avrebbe scacciato il gelo che si portava di dentro.<br />
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Cinque anni, un istante, una Notte, due anime sospese, due come fossero una. <br />
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DER ENDE<br />
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E alla fine, il Ringhio morì. Di dolore, come sempre aveva sperato. Sorrise, carezzò il volto della sua Venere Oscura, portò la testa di lei al suo petto, il volto bagnato di sale, e perdendo lo sguardo felice nel Cielo del Nord, si velarono gli occhi, si dissolse. Lei lo strinse più forte sentendolo andare, sollevò il volto dilaniato dal pianto, un pianto morto, senza lacrime, avvertì su di sé l’immane peso della nuova, vecchia tragedia, vissuta di nuovo, per lo stesso uomo, con lo stesso uomo. Forse non avrebbe mai dovuto incontrarlo, per non esserne privata così di colpo, due volte nella stessa vita. Ed il sortilegio, pietoso, si spezzò.<br />
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Al mattino, passata la Notte Nordica, crudele e inclemente, i loro corpi giacevano stretti abbracciati sulla sabbia carezzata dal Mare d’Ebano. Dio li sollevò con la mano, se li mise in grembo, e come vichinghi si persero tra le onde, in un nuovo viaggio, un viaggio che avrebbero compiuto insieme, senza meta, solo insieme, per sempre. Per sem<br />
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p<br />
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r<br />
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jietemghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-52595640441970113152010-11-23T07:04:00.000-08:002010-11-23T07:07:30.522-08:00Cronica Nera<em>365 parole, due mesi che frulla, e accorgersi che s'è fatto tardi. A voi.</em><br /><br />Stazione Centrale, Metropoli Stanca, scighera che appanna gli sguardi, condensa di lacrime. Il taxi accostò per un'ombra. S'aprirono entrambe le portiere, ingurgitando due anime scosse, la Ragazzetta e la Badante. La prima, giovane, trendy, il rimmel colante sulle gote pallide. La seconda, bionda, straniera, grossolana. Il taxi è mio / No è mio / Signore, signore, la corsa è gratuita, stasera, non si vede una gotta, state tranquille, dove porto la prima?<br /><br />Il Tassista era un bell'uomo, sicuro, educato, solo. La Badante rispose, per prima, vado all'ospedale, faccia in fretta per favore, ho fretta, avevo fretta, fingevo, è per questo che sono in ritardo, mi sono persa a discutere, lo faccio per arrotondare, discuto, attacco briga, il ragazzo che ho spintonato, e sputato, non ha retto la pazienza, l'ha rotta, mi ha colpita in volto, terrorizzato, mi sono buttata a peso morte all'indietro, avrei chiesto i danni un rimborso, ho battuto la testa, fa male, all'ospedale, in fretta per favore...<br /><br />Siamo già giunti, la nebbia nasconde la meta, signora, ma qui è dove debbo lasciarla, di qua si va per la città di Dite, e scese, la Badante, l'attendeva Lucifero. E tu, Ragazzetta?<br /><br />Vado a trovar mia cugina, mi porti da lei, è come una sorella, per me, ci piacciono le stesse cose, abbiamo gli stessi sogni, abbiam litigato, lei pensa che amiamo lo stesso ragazzo, è gelosa, per questo mi ha stretto la gola col cuoio, cieca di rabbia, è il cimitero, questo, o il palcoscenico? No tiri dritto, mi lasci morire in pace, mi racconti la sua storia, come mai guida questo taxi?<br /><br />Il Tassista accostò all'ingresso del camposanto, e rispose, guidavo felice, come ogni giorno, il mio poco bastava, ho investito un cane e mi son sentito morire, ho chiesto scusa, e una pioggia di rabbia e violenza e ignoranza, mi hanno frantumato ogni dente, spezzato le ossa, mi son svegliato qui, vago per la città in questo turno eterno, non sento fame, né sonno, ogni tanto mi sanguinano le gengive e mi sento chiamare, scenda pure, signorina, devo andare, spero sia un sogno, sogno che un mondo così sia di là da pensare. Si dissolse nella nebbia, una parola sul giornale.ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-16991116020126885762010-02-08T06:55:00.000-08:002010-03-24T06:55:27.654-07:00Dio della Città<div align="justify"><em><span style="font-size:130%;">DA DOMANI QUESTO RACCONTO LO TROVATE SU MILANOX, IL FREEPRESS ERETICO!!!! </span></em></div><div align="justify"><em></em> </div><div align="justify"><em></em></div><div align="justify"><em>The Punisher, Authority, frullato con Urania anni '70, annegati nella mia Metropoli.</em></div><div align="justify"><em>Ecco un raccontino fresco fresco, buzzatiano, warrenellissiano, fantasie nere...</em></div><div align="justify"><em>E presto, qui leggerete anche fumetti!</em></div><div align="justify"><em></em></div><div align="right"><em>Dio delle città e dell'immensità</em></div><div align="right"><em>se è vero che ci sei...</em></div><div align="right"><em><strong>P.Bitta</strong></em></div><div align="justify"><br />"Così mi ammazzi!" Non era una preghiera. Non un'invocazione. Era una constatazione, e voleva condividerla col suo carnefice, voleva avvisarlo, perché non dovesse pentirsi un giorno, perché avesse la possibilità di scegliere, e scegliendo, condannarsi per sempre o redimersi in anticipo, anzi, forgiarsi, temprarsi, scolpirsi un carattere da non compiangere. E invece continuava. Un calcio alle costole, un suono fratturato, parole soffocate smorzate sulla lingua. Il tacco degli scarponi gialli, gli stessi in cui i ragazzi infilano la tuta, abbattutto sulle mani poggiate a terra. Perché? Era una domanda inutile, superflua, perchè soffriamo? Perché odiamo piangiamo violiamo? Un calcio, un altro, dritto sui denti, il mondo s'appannava, la strada trafficata da troppe luci per definirla davvero notte sulla città, una ragazza, una gonna corta fin sopra le natiche, tacchi alti, trucco pesante, in fondo in quel momento la trovava bella, e allibita dagli eventi.<br />Stava soltanto attraversando la strada. Di notte, col semaforo verde, una strada ad alto scorrimento, il tratto urbano della superstrada per Como. Attraversava la strada col terrore che quei Nazgul di lamiera gli si avventassero contro, lo artigliassero per portarlo via. Aveva quasi guadato il fiume d'asfalto e metallo e plastica e luci, che a momenti uno di quei mostri lo stirava, lo stendeva, lo investiva. Allargò le braccia in segno di disappunto e paura, tanta paura, e l'auto s'arrestò. Scese un ragazzo. Grosso, ma volgare. Qualcosa di volgare. Sbraitò qualcosa sbagliando i congiuntivi, abbaiò qualcos'altro sottolineando le bestemmie. Dio, si chiese, perché rendi tutto così scontato, perché non mi stupisci più, perchè sono tutti così terribilmente uguali, banali, prevedibili? Guardò il ragazzo mentre la pelle si tingeva d'oca, quello s'avvicinava. Ebbe il tempo d'avvertire la saliva sputacchiata sul volto, di provarne ribrezzo, quando arrivò la testata. Forte, a spiovente, sul naso. Le luci della notte si elevarono a potenza tingendosi di porpora.<br />Cosa aveva bisogno di capire? Nulla. Non c'è niente da capire nell'essere umano. Eppure raccolse i dati, sciocchi: la prostituta che batteva al semaforo, il ragazzo doveva essersi distratto a guardarla, procedeva lento, per fortuna, forse proprio per caricarla. Forse ora provava vergogna di essere stato colto col pensiero nel peccato, e sfogava la frustrazione per il coito immaginato e interrotto sul malcapitato che stava per investire, ovvero lui. Poveretto, a questo punto gli faceva pure un poco pena. Mentre gli triturava le ossa, lacerava le carni, spappolava gli organi interni a botte, gli faceva un po' pena. Schifo non tanto, schifo gli facevano gli automobilisti che di fronte a tale spettacolo avevano ingranato la prima appena ricevuto il via verdescente, e sgommato. Ebbe pietà, e ripetè: “Così mi ammazzi...”, poteva ancora fermarsi, avere un piccolo ripensamento, rendersi conto di stare esagerando, frenarsi. Due ginocchiate all'arco sopraccigliare sinistro.<br />Il sangue bagnava la strada, macchiava i gialli scarponi della morte. La puttana era bianca e non era la cipria, abituata a violenza e disgusto, educata a ingoiare per sopravvivere, non vomitò, ma si mise a strillare. Strillava e correva, lontana. Strillava e correva, sotto le ruote di un furgone carico di birra olandese e salsa y merengue lanciato verso il cuore della città. Quale cuore? Quello malato corrotto inquinato, spento, e dannato.<br />La morte aveva avuto il suo tributo, così allarmato egli ripetè al ragazzo: “Così mi ammazzi...”<br />Intendeva, attento, così rischi di compiere un'azione che non vorresti mai, che rimpiangerai, che ti divorerà sullo spiedo da kebab del rimorso, che ti sfibrerà come una malattia del sangue, che ti...<br />Due pugni al cervelletto, alla base della nuca. Il secondo non lo sentì. Morì col primo.</div><div align="justify">---<br />“Coglione, con chi cazzo credeva d'avere a che fare?” bofonchiò il ragazzo divorando la strada dopo esser tornato fulmineo alla guida, “Che cazzo credeva, gliel'ho fatta vedere, faccia di merda...”<br />“Eh, già, gliel'hai fatta vedere, già...” assentì il passeggero seduto dietro.<br />“Gliel'ho fatta vedere sì, a quel testa di cazzo” rispose il ragazzo che pensava di parlare da solo, saturo di adrenalina, e invece conversava con un interlocutore seduto alle spalle, solo che seduto alle spalle non doveva esserci nessuno. Si voltò di scatto: “E tu chi cazzo sei?”<br />“Non mi riconosci? Forse mi hai sfigurato con tutte le botte che mi hai appena dato? Con tutte le ferite che mi hai inferto? O non mi hai neanche guardato in faccia prima di massacrarmi, tanto poco ti interessava chi fossi? Tanto poco t'importava...”<br />“Che cazzo vuoi! Che cazzo vuoi! Non ti sono bastate quelle che t'ho dato? Ne vuoi ancora?”<br />“Non capisci, continui a non capire. Hai ucciso anche quella povera prostituta. Prima volevi possederla, e ora non t'importa più d'averla portata a morte. Eppure t'avevo avvisato. Eppure...”<br />“Chi cazzo sei! Chi cazzo sei! Come hai fatto a rialzarti? Come hai fatto a infilarti in macchina? Io t'ho steso, non ti reggevi più! Chi cazzo sei?”<br />“Io sono Metropoli. E sono stanco di nutrire parassiti come te. Sono stanco di sentir contaminarmi il sangue dal male che mi porti. Sono Metropoli, e sono stanco di te.”<br />L'auto si schiantò contro un lampione, che piegandosi sembrò avvinghiarsi alla sua carcassa di metallo. Le fiamme la invasero immediatamente, e un ululato lacerante le accompagnò finché i pompieri non le domarono. I domatori del fuoco individuarono un cadavere carbonizzato seduto al posto di guida.<br />Poco più avanti egli attraversava la strada, terrorizzato dalle auto in corsa e da chi le guidava. E dalla mole di lavoro ancora da sbrigare.</div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-61823386604253480512010-02-02T06:43:00.000-08:002010-02-02T06:46:40.095-08:0024.12.2009<div align="justify"><em>Dedicato a chi c'era davvero in quella sera vera (Mitch, Spiwi, Seps, Toni)</em><br /><br />Sento l'odore del sangue rappreso e la pelle tirare, mi tocco il naso e sfiorandolo duole, lacrimo quel dolore rigando di gelo il mio viso e le lacrime bruciano nelle fessure solcate dal freddo e, sì, dai cazzotti.<br />È la notte di Natale ed irrequieto ancora barcollo per strada, due passi per scacciare quella maliconia che suole venir per le feste, il fantasma dei natali passati, lo spettro incombente del natale presente, un natale senza presenti, colmo di assenti. Ritrovo lo spirito in una bottiglia di grappa, mi disgusta ma condividerla con chi te ne offre la rende corroborante, sotto la pioggia scrosciante, nei portici di un parco, il mio parco, brindisi d'acquavite fatta in cantina e una crostata ai mirtilli impastata in cucina, fa freddo ma come scalda dividerlo, anzi no, non è il mal comune che condiviso supplisce con gaudio, è un piccolo bene che condiviso si eleva a potenza per ogni convitato, lontani dai locali tres chic, dalle luci degli alberi, dalle cene in famiglia, condotti dalle nostre inquietudini a trascorrer la vigilia di Natale per strada, come ogni altro giorno, come ogni altra notte. È lei che ci accoglie quando vogliamo fuggire, combattere, e lei che ci culla quando oscilliamo sconfitti, rifiutati, rifiuti noi siamo e opponiamo, rifiuti ad appartenere a chiunque altro che non sia noi. E tra di noi, ogni singolo appartiene al singolo e si offre, si dona, ma la moltitudine non lo possiede, perchè non siam cose da poter possedere, siamo acqua, se ci tieni in bottiglia prima o poi ci guastiamo, se ci porti in tasca piano piano scorriamo, ti puoi immergere in noi, essere noi, avere noi mai.<br />Il barbone che dorme per terra non ci fa pena, ci fa specie, come farà a resistere al freddo, chissà, contento lui, contenti tutti, gli versiamo la grappa, gli tagliam la crostata, ben venga, sono piccoli gesti, e non è Natale a istigarli, ma che sia Natale li rende un simbolo, ed a noi i simboli piacciono, perchè un gesto simbolico significa, ed è un significato che da sempre cerchiamo e sfuggiamo. A mezzanotte nascerà Gesù Cristo, ma nessuno udirà il suo vagito, soffocato dai fruscii della carta regalo strappata da televisori grossi come un bambino di vent'anni. Io lo sento che strilla. Vorrei fare qualcosa poiché mi strugge il pianto degli infanti. Non trovo di meglio da fare che un gesto simbolico, che significa. Che sono uno sciocco.<br />Il gigante ha trovato una macchina sul passo carraio, non può entrare nel box con la sua, cala dall'auto dopo aver strombazzato per bene, io m'avvicino pian piano, in silenzio, l'osservo, bestemmia, con un destro strappa lo specchietto all'auto in divieto, bestemmia di nuovo e affonda una pedata nella portiera. Rimonta in macchina, la sua, infila la retro e poi sgomma in avanti, sposta la vettura in divieto in un cozzar di lamiere, finalmente si apre la via, entra nel passo carraio, cala di nuovo e con il blockster sfonda il parabrezza dell'auto in divieto. Mi avvicino. “Dai”, gli dico, “Hai ragione, è fuori di dubbio, ma è natale, sii” e mi becco un diretto sul naso senza preavviso, vado giù lungo per terra, sento l'odore del sangue che scotta, e non vedo più niente, forse la pioggia che si tramuta in neve, o forse i bagliori del mio fallout cerebrale.<br /><br />Non so quanto tempo è trasorso quando mi tiro in piedi, sento l'odore del sangue rappreso e la pelle che tira, barcollo per strada seguendo la scia delle mie irrequietudini, sta uscendo la messa, mezzanotte è passata, affronto la folla in senso contrario, entro nel templio, vedo la capanna ed il giaciglio di paglia, vedo il bambino, è appena arrivato, mentre tutti festeggiano lo sollevo e lo copro con la mia giacca, lo porto con me, lo traggo in salvo, lo porto lontano, non è un atto vandalico, non un atto blasfemo, è un gesto simbolico.<em></em></div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-81209429434783290722009-11-16T11:13:00.000-08:002009-11-16T11:14:03.002-08:00<object width="425" height="344"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/AZv9DCKWEwg&hl=it_IT&fs=1&"></param><param name="allowFullScreen" value="true"></param><param name="allowscriptaccess" value="always"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/AZv9DCKWEwg&hl=it_IT&fs=1&" type="application/x-shockwave-flash" allowscriptaccess="always" allowfullscreen="true" width="425" height="344"></embed></object>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-2137346174297314792008-10-23T05:51:00.000-07:002008-10-23T05:54:03.213-07:00Salamelle Al Sangue<div align="justify"><em>Con questo racconto su commissione fallimentare, rendevo omaggio a Marco Philopat ed alla sua prosa punk/discorsiva.</em></div><div align="justify"><em></em> </div><div align="justify"><br />Diego Gattarossa entrò nel parco. Quel luogo per lui era un paradiso ai confini tra i mondi, il luogo dove rigenerarsi da tutto il male che può farti la Metropoli intorno. Ed il parco è una Piazza.<br />La teoria delle Piazze è molto più complicata di un problema architettonico, o urbanistico. La Società è anti-sociale. Le istituzioni tolgono spazi di espressione, chiudono i Centri Sociali, recintano i giardini, videosorvegliano marciapiedi e parcheggi. Il loro interesse sembra essere che quando il popolo si riunisce, non comunichi: vengono concesse le discoteche, i pub dalla musica altissima dove non parlare ti costringe a consumare. Ma questa è un'altra storia. Nella nostra, dobbiamo assumere il presupposto che il Parco sia una Piazza, un luogo di incontro, espressione e comunicazione. Dove si creano compagnie di sbandati, di studenti, di dopo-lavoro, di sportivi. Dove un cannone caricato a Super-Polline può riunire tribù diverse, dove un pallone può schierare fianco a fianco tutte le razze e tutte le religioni. Dove si creano piccole famiglie.<br />Il Gatto, attraversò lo spiazzo davanti alla biblioteca di Villa Litta, a Milano, aggirò l'edificio che dominava il resto del parco e si diresse ai portici posteriori, dove si riunivano un tempo i Cattivi Ragazzi. Non trovò nessuno. Pensò, avranno cominciato a lavorare, fece scorrere la cerniera del chiodo e dalle tasche interne estrasse il tabacco. Inglese Giallo. Mentre rollava la sigaretta in attesa di qualcuno, di chiunque, notò il murale nuovo, non era uno di quelli pasticciati dai mocciosi educati a fare i microcriminali da televisioni e telegiornali. Aveva qualcosa di sacro. Si avvicinò al graffito: due nomi. Filo e Pat. Ed una foto. Ecco cos'era quell'impressione sacrale, la foto!<br />“Quello a destra sono io – ma lo sai – mi conosci, Gatto – sono Filo - ti ricordi? - là in collina – a fumare i lotti”<br />Il Gatto guardò la foto da vicino. Li conosceva tutti e due. Due bravi ragazzi, due Cattivi Ragazzi.<br />“Che cazzo ci fa la vostra foto qui, Filo?”, chiese il Gatto accendendosi la sigaretta appena confezionata.<br />“No niente – brutta storia, zio – quello è Pat – te lo ricordi Pat? - è stato settimana scorsa – eravamo al parco – volevamo tornare in Thailandia – sai la Thailandia – ci siamo stati a gennaio – è una figata – non si spende un cazzo – sei trattato come un signore – altro che la vita di merda che fai qui – lavori non ti pagano – ti pagano poco e un cazzo – le fighe se la menano – e tutto costa un sacco – una birra 5 euro – e c'è il tempo di merda – il cielo grigio – invece in Thailandia – la natura – ci son gli atolli – sei completamente libero – la gente ti rispetta – hanno anche il fumo buono – ganja – ma ti stona, giuro zio – e poi hanno tutti 'sta borsettina attaccata alla cintura – dentro tengono delle foglie – Bantom si chiamano – loro le arrotolano e poi le masticano – e succhiano – bamba – giuro – effetto cocaina – le masticano anche i vecchi di settant'anni – fanno dei salti – li vedi correre – e poi c'è la strada del sesso più grande del mondo – quanta figa – che giocattolini – ci sono i ragazzini che ballano in perizoma fuori dai locali – arrivano 'ste ciccione australiane – belle piene di birra – li prendono per mano – gli mollano 50 dollari – e se li portano – le vedi belle felici – con le guance rosse – le ragazze sono dei giocattoli – da non credere – e ti vengono a cercare loro – fanno di tutto – te la cavi con pochissimo – se le dai da mangiare te la puoi anche portare con te in giro per un mese – e quella si fa schiacciare in ogni maniera – ce n'era una coll'inguine tatuato – ce la passavamo – a gennaio – ci siamo stati a gennaio...”<br />Il Gatto ascoltava assorto fissando la foto, e quasi non s'accorse che il monologo di Filo s'era dissolto. Si voltò a guardarlo, era pallido, scavato, assente. Bravi ragazzi, ma ogni tanto qualcuno si faceva prendere. Dalla cocaina, dalla robba, dagli acidi, emme-di-emme-a, l'alcool. Quelle fughe fallimentari dalla propria fragilità. Il Gatto chiese: “E allora, che è successo?”<br />Filo riprese, con voce roca per i troppi cylum: “Niente – che è successo? - niente – volevamo tornare in Thailandia – ma non avevamo una lira - e Pat dice – cazzo lo so io come fare – lo guardo e chiedo – Come pensi di fare? - E lui – te lo ricordi il baracchino dei panini al Castello Sforzesco?”<br />“Noi ce lo ricordavamo – certo – quel figlio di puttana – un po' di tempo fa' ci ha fregato i soldi – noi paghiamo dieci euro – gliene diamo cinquanta – lui non ci dà il resto – noi glielo spieghiamo – in tutti i modi – lui chiama gli sbirri – ci trovano un po' di coca addosso – giusto due tre pezzi – forse sei – non più di dieci – cazzo era sabato – e gli sbirri ci sequestrano tutto e ci portano in questura - E allora che vuoi fare Pat – chiedo – e lui – prendiamo delle pistole finte e verso le sei del mattino ci facciamo dare l'incasso – non si fa male nessuno – e rubiamo i soldi ad un ladro – quindi è giusto no? - e ride... - e mi lascio convincere – alla fine quello dei panini ci sta sulle palle – quello farà due-tremila euro di venerdì notte – tra quel poco che abbiamo ed il malloppo ce ne andiamo in Thailandia e poi lì si vede – magari troviamo qualche vietnamita – quelle incrociate con gli americani sono delle fighe da paura – vabbèh – insomma – mi lascio convincere – ce l'hai una sigaretta per me zio?”<br />Il Gatto si voltò verso Filo, lo osservò tirare su la paglia con le dita, chiudere la cartina con la lingua, accenderla, aspirare, e sbuffare il fumo dalla gola. Dal centro della gola. Un buco enorme esattamente nel centro della gola. Ci vedeva da parte a parte.<br />“E allora alle cinque andiamo al Sempione – ci facciamo un paio di canne – e poi pezziamo un paio di grammi di coca a testa – abbiamo 'ste pistole – sembrano vere – le abbiam prese in un negozio di modellismo in Porta Venezia – alle sei del mattino pompiamo i Club Dogo nello stereo della macchina – arriviamo al baracchino del bastardo – ci infiliamo i passamontagna – tiriam fuori i nostri giocattoli e li puntiamo – TIRA FUORI TUTTI I SOLDI FIGLIO DI PUTTANA – ti giuro zio – quello si è pisciato addosso dalla paura – noi a momenti ci pisciamo addosso dal ridere – Pat colpisce la vetrina dei panini e la spacca – il tipo trema – trema di brutto – bastardo – Pat fa per salire sul camion – il tipo gli passa i soldi dell'incasso – Pat lo afferra e gli punta la pistola in bocca – ma giuro cazzo è finta quella pistola – PAM! - sento solo il suono – la faccia di Pat che si stacca dalla testa – il sangue che schizza sulle salamelle – il passamontagna che trattiene i fiotti – lo vedo ed è l'ultima cosa che vedo – da vivo – l'ultima – un cazzo di vecchio a spasso col cane – alle sei di sabato mattina – girava col cannone in tasca – ma un cannone vero – mi spara al collo – resto cosciente per un po' – muoio dissanguato che non chiamano l'ambulanza – chiamano gli sbirri – ed ascolto il vecchio – perché porta il cannone - dice che non ci si può fidare – dice che questa gioventù è una merda – è vero – questa gioventù è una merda – è una merda viverla – è una merda perderla... Bella zio – ci si becca – qui – o in un'altra vita”<br />Qualcuno, alla fine, c'era arrivato, al parco, al ritrovo. Qualcuno che aveva bisogno di raccontarsi, di esprimere quel che non aveva più dentro. E poi era scomparso dissolvendosi nel fumo della paglia che Diego Gattarossa, detto il Gatto, aveva acceso per riuscire a digerire quella storia. E che l'unica cosa di cui aver paura, è la paura.</div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-47627360118420579862008-06-06T07:32:00.000-07:002008-06-06T07:35:27.335-07:00Magnolia Nera<div align="justify"><em> Se il noir è una sensazione, una semplice atmosfera, questo racconto vuole essere quella sensazione, privata del tessuto criminale.</em></div><div align="right"><br />Non c’è solitudine più grande di quella di un samurai,<br />se non quella, forse, di una tigre nella foresta.<br />Meville, Le Samourai</div><div align="justify"><br /><br />Cazzo. Questo per mettere in chiaro le cose.<br />Diego si svegliò e si trovò sdraiato sul divano, sudato come solo quel maggio invernale poteva far sentire. Il freddo dentro, il freddo fuori, ma la maglietta appiccicata alla schiena.<br />Elly, Elisabetta, gli aveva dato un puntello per quella sera, aggiungendo un particolare appetitoso: alle 21 alla birreria belga di Niguarda, una pinta veloce, poi sarebbe andata a ballare. Con Veronica. “Che ore sono”, balbettò Diego Gattarossa detto il Gatto, intravide i cristalli liquidi del videoregistratore che segnavano le otto e mezza, troppo tardi, tardi per una doccia, tardi per poter cenare – quanto tempo era che saltava i pasti smarrito in quel vortice di impegni? – giusto il tempo di lavare i denti ed uscire ed infognarsi la bocca di nuovo con una Italiana blu. Si muoveva a piedi, solo a piedi. O in bici, ma quella sera sperava. O con l’autobus, ma se non voleva una compagnia era quella fetente e colorita dei mezzi pubblici.<br />Di buon passo, tabaccaio, poi dentro il parco che costeggiava via Enrico Fermi, la strada che portava via da Milano, via dalla sua amata prigione. Non voleva evadere, voleva risolvere. Non era nato per rivoluzionare l’Inferno, forse, ma almeno voleva tentare di spegnere le fiamme del suo girone. Gli eroi del nero sono sempre soli contro il mondo. Lui era solo. Contro sé stesso.<br />Elly gli voleva bene. Gli voleva bene un po’ perché gli voleva bene il suo ragazzo, Frankie, un nome del cazzo per l’antagonista più in gamba e più buono di Milano, un’occasione persa come tutta la sua generazione. E gli voleva bene perché non era difficile provare affetto per il Gatto: disponibile, gentile, cortese in Pace, spartano in Guerra. Divertente in entrambe i casi.<br />Elly gli aveva presentato Veronica, qualche settimana prima. Così, per caso. Al Rebelot, il mercato dell’auto-produzione sul cavalcavia Bussa, in Garibaldi. Nonostante le guerre, il Gatto continuava a bazzicare nel circuito. Da indipendente. Veronica era uno sguardo. Uno sguardo magnetico, profondo. Uno sguardo che vibrò negli occhi e nel petto del Gatto per un istante dal sapore infinito, scuotendolo da un torpore incosciente, ridestando i meccanismi di un orologio dei cui ticchettii ormai s’era dimenticato.<br />Veronica aveva qualcosa, negli occhi, e quella prima sera quegli occhi s’impressero nelle retine e nella memoria di Diego, incisero la corteccia cresciuta intorno al suo cuore, come respirare di nuovo dopo anni di apnea e poi reimmergersi subito nel mezzo grave d’uno stagno d’autunno.<br />Forse era il modo in cui li truccava, Diego cercava una via di fuga. Per questo questa sera allungava il passo verso l’appuntamento con Elly, ma soprattutto con Veronica, possibile, si chiedeva, possibile che quegli occhi esistano davvero?<br />La birreria belga, lo Scott Joplin – dal nome del compositore del motivo della Stangata – festeggiava il suo primo compleanno. Gremita di gente, fiumi di birra spillata in plastica e in vetro. L’appuntamento alle nove si risolse con l’arrivo di Elly alle dieci.<br />Elly fingeva di essere contenta che Frankie fosse via per lavoro. Via il gatto, la topa sballa. Ma non era felice. Non del tutto. Stavano insieme da anni, e l’amore è qualcosa che con la continuità diventa necessità. Non abitudine, quello è affetto. Amare significa essere destabilizzati dalle distanze, incompleti, due magneti che anche a milioni di chilometri di distanza si attraggono. Elly si sentiva così. Felice, in serata, incompleta.<br />Veronica, disse Elly, aveva lasciato il suo ragazzo pochi mesi prima. Perché era finita. Semplicemente. Diego non fece domande, ma lasciò correre l’immaginazione su un campo minato, e la vide esplodere in mille frammenti di domani possibili.<br />Veronica arrivò alle undici. Bevvero, e tanto, Diego beveva dalle nove, acuendo la sua fragilità, scoprendo che non v’era trucco né artificio negli occhi di Veronica. Erano tutto, tutto ciò che volesse, tutto ciò che avesse cercato, dentro avevano un mondo meraviglioso che solo le vibrisse del Gatto potevano riconoscere, percepire, ed il mondo di un uomo è la sua vita, e tutto girò vorticosamente intorno e dentro la testa di Diego, e non era la birra, e non era il tabacco, erano gli occhi di Veronica, e Veronica non l’avrebbe mai saputo, forse, non l’avrebbe mai capito, erano gli occhi di Veronica. Brillavano pietre scure provenienti da tempi perduti, smarriti, dipinti nei sogni dell’uomo, di un uomo, la luce, il calore, il terrore, il terrore. Perché quando incontri degli occhi, la solitudine ti si fa stretta d’accanto, t’abbraccia gelosa, possessiva, ossessiva, il terrore d’abbandonarla, il terrore di tornarle tra le braccia un giorno.<br />Veronica voleva ballare, per sentirsi vivere. Elly voleva ballare, per non pensare a Frankie. Il Gatto detestava ballare, ma voleva seguire quegli occhi. Montarono in macchina, direzione Magnolia. Dall’altra parte della città. Milano era un impero caduto di fronte alle legioni della notte, un impero di ruggini e umidità, asfalto e carne e lamiera. Lampioni freddi e tabaccai. Linate, l’aeroporto, luci nel nulla, una scatola vuota animata da neon ghiacciati in un luogo che non c’è.<br />Il Magnolia è un locale, un circolo Arci a Linate, all’Idroscalo, un posto alternativo per alternativi che vogliono omologarsi al divertimento in maniera alternativa. Entri in un prato, percorri un vialetto, un buttafuori ti intima di mostrare la tessera, se non ce l’hai ti invita a compilarla, poi entri nel tempio. Il popolo della giovane notte celebra riti revival tracannando litri di alcool, caricando cannoni a decine nello spazio all’aperto alle spalle del locale, la musica pulsa non eccessivamente alta nei timpani, risate, sorrisi, voluttà, cento tribù si radunano ad ascoltare Nirvana, Elio, Queen, Renato Zero ed il duo da mondiali Nannini-Bennato. Metallari, indie rock, dark, punk crestati, emo, brit, mods, glamours, rockabillies, figli di puttana e addirittura ragazzi normali si accalcano, s’amalgamano, si spargono in quel regno nascosto e accogliente, controllati a muso duro da cordiali uomini della sicurezza in nero, slavi, italiani, africani. Veronica ballava. Ed il Gatto non sapeva far altro che guardarla. Non sapeva distogliere la mente da lei. Ed Elly tampinata da un bellimbusto simpatico e carino.<br />La magnolia sfiorì, s’accartocciarono i petali sotto la luna calante, scomparve, gli agenti della sicurezza sfollarono il pubblico, neanche pisciare potevi più, fuori, si chiude, che sono le 4. Elly s’era trovata appiccicato al culo questo Niccolò, Veronica notò che Diego non si vedeva da ore, dall’ingresso nel locale, lo recuperò ed uscirono assieme.<br />“Dov’eri finito?”<br />“Oh, niente, ho dato un’occhiata in giro, sai, non vengo mai in posti così, sono venuto solo perché non potevo non seguire due ragazze così belle…”<br />“Scemo!”, sorrise, e nel sorriso d’Veronica stava la fine, la testuggine di scudi sul cuore del Gatto, colpita nel punto critico, s’infranse di fronte a quel semplice, lusingato, sorriso. “E adesso la Elly dov’è?”<br />“Guardala, è là, mi sa che ha trovato compagnia, ma se quel tipo non smette di broccolarla mi sa che mi tocca menare le mani…”<br />“Uh, sei un duro… maschilista del cazzo!”<br />Il Gatto si disse, ma porca puttana, ora l’ho fatta sorridere e subito la faccio incazzare, era spiazzato, poi lo sguardo di Veronica s’incupì, divenne triste, malinconico. Disse: “Lascia che si faccia broccolare. È dura per lei non avere qui Frankie”<br />“Ma Frankie torna domani sera!”<br />“Ma ora non c’è. Non puoi sopravvivere neanche un minuto col cuore a due metri dal petto, no?”<br />Diego capì. Non accettò, ma comprese. Certo se c’era da pisciare sul territorio di Frankie, l’avrebbe fatto. Solo che non lo disse più.<br />Niccolò li invitò tutti a far colazione a casa sua. 37 mq a Famagosta. Un’altra Milano, rispetto ad Affori e Comasina. Il Gatto lo teneva d’occhio, ma lo trovava simpatico. Camicia militare, barba di due settimane, standard antagonista milanese. Un Cattaneo originale appeso alla parete, un sacco di vecchi Urania, conquistò Diego con le 3 cose che una donna non potrà mai capire: “Gli scacchi, la fantascienza, e l’ironia.”<br />Veronica strillò, “Non è vero, cioè, le prime due sono vere, ma non è vero che noi donne non capiamo l’ironia!”<br />“Vedi che non la capisci!”, disse Niccolò, e scoppiarono tutti a ridere.<br />Il piccolo appartamento era arredato con gusto. “Si. In realtà dovevamo venirci a vivere in due, cioè, siamo venuti a viverci in due. Per un po’. Poi lei se n’é andata, ma l’arredamento è merito suo…” sorrise, amaro, Niccolò.<br />Quattro solitudini diverse radunate su due divani neri, come la notte che li attendeva col sorgere del sole. L’amante distante. L’amante perduta. L’amore finito. L’amore sognato.<br />Il caffè fu amaro, lo zucchero rimase tutto incrostato sul fondo. Niccolò rimase da solo nel suo appartamento dopo l’inutile assedio al cuore assente di Elly. Veronica guidò l’auto e lasciò che Elly salisse da sola in casa ad attendere il ritorno di Frankie. Diego godette degli ultimi minuti con Veronica, doveva chiederle il numero, chiederle se le andasse di rivederlo. Da soli. Si fece lasciare su un marciapiedi di Affori, a caso. La guardò allontanarsi per tornare a casa con l’auto. Poi si avviò a piedi. Non le aveva chiesto niente. Gli bastò sapere di essere ancora in grado di sognare.<br /></div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-79112232522000184892008-06-06T07:26:00.000-07:002008-06-06T07:30:25.356-07:00phon9ca11 - DianeDies<div align="justify"><em>Omaggio al fantasy a la Neil Gaiman. </em></div><div align="justify"><br />Aprile 1999<br />Squilla.<br />Squilla ancora.<br />Lei alza la cornetta, non risponde nessuno.<br />“’affanculo…”<br />Dicembre 1999<br />Il telefono. Nero compagno silente, soprammobile amato e temuto ed odiato, supplicato. Squilla. Lo fa per un po’. Quando Diana solleva la cornetta, sente solo un respiro prima che le riattacchino in faccia. “Ancora!”, lamenta lei. Qualcuno sussurra, ancora.<br />Giugno 2000<br />Non fa a tempo ad entrare in casa, che qualcosa trilla. È il nuovo telefono, quello a toni, quello con la rotella l’ha dato indietro a malincuore. Quasi non lo riconosce, poi capisce, e solleva la cornetta. Di nuovo nessuna risposta. Come ogni venerdì, da mesi, non ricorda quando sia cominciata. Ha chiesto anche la bolletta trasparente, me alle chiamate mute non corrisponde nessun numero. Addirittura, quelle chiamate non risultano. Il tecnico le ha detto che è un contatto: lei ha sbuffato, ha risposto che non conosceva disguidi tecnici ad appuntamento settimanale. Comunque, ha trovato lavoro, venerdì e sabato, giornata piena come commessa in un negozio del centro. Scarpe. La gente spende un sacco di soldi in scarpe per non andare da nessuna parte.<br />Gennaio 2001<br />Sapeva che non sarebbe durato per sempre, era un contratto a termine, ma i padroni del negozio, infami, con gli auguri di Natale l’avevano salutata senza rinnovo. Le avevano consegnata la busta con l’ultimo stipendio esclusa la settimana lavorativa dal 26 al 31, e le avevano detto che si trasferivano ad Ibiza: la figlia viveva lì da qualche anno, aveva aperto un bar chiuso nel giro di sei mesi, poi aveva trovato lavoro come ballerina, diceva di passarsela bene, certo se i genitori avessero potuto raggiungerla, se avessero potuto andare a stare con lei ora che anche questo nuovo lavoro sembrava fallimentare, forse lei avrebbe smesso di ingoiare getti di sperma per un tozzo di pane. Diana non l’avrebbe saputo mai, e non l’avrebbe mai raccontato né al suo gatto, né per telefono ad Alessa (‘senza i, fa meno provinciale’, aveva detto il padre all’ostetrica il giorno in cui lei era nata). Diana aveva scordato quel misto di curiosità, fastidio, rabbia e paura che provava alle telefonate mute del venerdì. Non l’avevano seguita fin in negozio, era passato tanto tempo, non le ricordava neanche più. Il telefono squillò. Era Alessa.<br />Settembre 2001<br />Venerdì. Le telefonate mute non arrivavano almeno da quando lei aveva perso il lavoro nel negozio di scarpe. Otto mesi di sollievo telefonico e disoccupazione. Diana s’era appisolata sul divano: il gatto le raschiò il naso con la lingua, forse per avvisarla che di lì a poco il telefono avrebbe preso a trillare. Lei si alzò, fece per andare in bagno, passò accanto al telefono, lo sfiorò con la mano, e quello suonò. Diana trasalì, rispose: “Pronto?”, la voce impostatamente cortese di chi ha lavorato in un negozio.<br />“Sono la voce delle telefonate mute. Che ne dici se ci vedessimo, che so, per una birra?”<br />Sabato. Certo, non era stato un invito romantico. Non puoi invitare una donna a bere una birra: è come chiederle di ruttare. Come invitarla a mangiare una fejoada messicana, di certo le staresti lontano dal culo per un paio di giorni. Gli uomini credono che le donne non reggano l’alcool, che non lo gradiscano, quindi la voce delle telefonate mute o voleva scoparla ubriaca, o aveva compreso da tempo che le donne bevono, cagano, ruttano, ed adorano il cazzo.<br />Comunque, la birra le andava, le andava che fosse la voce a pagarla, le andava di scoprire che faccia avesse la voce, le andava anche di fare qualcosa di diverso una sera che non fosse andare a vedere un blockbuster da Alessa o reggere il moccolo a lei e Claudio, le andava che Alessa credesse lei avesse un uomo. E le andava, in fondo, anche di conoscerlo, un uomo.<br />Non era un uomo. Questo, innanzitutto, deluse Diana. Era un gatto, un gatto grigio fumo stropicciato. Insieme ad un corvo con la cravatta ed un fermacravatta d’oro con sopra scritto Dingo. Almeno, l’aveva scelta dello stesso colore del becco, la cravatta. Insomma, le due bestie, entrambe col manto delle tonalità più scure del fumo, stavano sedute al bancone della locanda in cui l’aveva invitata la Voce, sugli sgabelli dove avrebbero dovuto essere l’uomo ed il suo cilindro nero. Diana non avrebbe potuto, per le proprie ristrettezze economiche, ma decise che forse avrebbe ordinato comunque una birra: sedette accanto al gatto acciambellato ed al corvo che la fissava, e cominciò a scorrere la lista. L’oste rispose al telefono, la guardò, guardò annoiato corvo e gatto e rispose che era arrivata. Diana lo spiò cercando di nascondere la faccia tra i nomi delle birre nella lista, quello le si avvicinò e le disse: “Puoi ordinare tutto quello che vuoi, ragazza, a quanto pare pagano loro…”, ed indicò il felino ed il volatile. Lei si voltò a cercare le persone indicate dalla mano dell’oste, e quando si rese conto di chi fossero, ordinò una Harp con molta schiuma e ammutolì.<br />Non era un uomo, ed aveva ordinato un Jack Daniel’s. Questo, in secondo luogo, stupì Diana: il corvo, non aveva capito come, aveva ordinato un Jack Daniel’s ed ora ci infilava il becco dentro, sollevava il bicchiere e sorseggiava l’ambra del whisky. Poi si mosse il gatto: si sollevò dalla sua posizione a ciambella, si stiracchiò puntando le zampe anteriori ed inarcando la schiena, carezzò Diana con la testa, fece un paio di fusa e saltò giù dallo sgabello. L’Uomo con il Cilindro entrò proprio allora, il gatto gli si fece incontro e gli si strusciò contro gli stivali in pelle nera. L’Uomo col Cilindro sorrise, un ampio sorriso giallo in mezzo ad un volto nero come la fuliggine. A lato del sorriso, un vecchio sigaro fumante in coltri spesse. Sedette sullo sgabello lasciato libero dal gatto.<br />Diana era un gran bel tipo: non era bella secondo i canoni di bellezza della fine del ventesimo secolo, ma era un gran bel tipo. Portava i capelli corti e tinti d’uno strano color porpora, impossibili a pettinarsi e perciò mai spettinati; aveva il seno piccolo, ma ben plasmato; e soprattutto, aveva un bellissimo sedere, sempre primo classificato di categoria nell’annuario clandestino redatto dai maschietti del suo liceo sugli attributi fisici delle ragazze della scuola. Era pallida, e questo faceva risaltare le sue labbra porpora come i capelli e carnose, e gli occhi parevano fessure d’ebano. Non fumava e detestava il fumo degli altri. Al sigaro del negro non importava.<br />Il Dingo seccò il Jack e svolazzò sull’appendiabiti a bracci a lato del banco: l’Uomo col Cilindro poggiò sul suo sgabello il copricapo, svelando dei lunghi capelli ricci e neri della stessa consistenza del legno. Diana pensò che in fondo il fumo non le dava così fastidio. L’uomo sembrava avere un’età indefinibile tra i venti ed i trecento anni, e questo la metteva un po’a disagio. Fu lui a parlare per primo.<br />“Grazie per essere venuta… anche se forse devi ringraziarmi tu per averti invitata…”, la voce del negro vibrava potente e bassissima nell’aere.<br />“Chi sei?”, chiese Diana.<br />“La Voce delle Telefonate Mute. Il Destino. Il Fato. Papa Legba. Chi vuoi tu”, e di nuovo quel suo sorriso giallo papiro.<br />“Bene, e che vuoi?”, Diana avvertiva un terribile senso di disagio e paura di fronte all’energumeno nero che le sedeva di fianco. Il gatto le saltò in grembo. L’Uomo col Cilindro rise forte, come un colpo di tosse.<br />“Senza mezze parole… Allora lo sarò anch’io. Dunque, le tue telefonate mute non erano di nessun amante troppo timido per parlare. Di nessun ex amante dispettoso. Di nessuna persona col microfono rotto che dovesse dirti le verità assolute della tua esistenza. Ero io.”<br />Diana arrossì delle sue fantasie svelate: “Che chiamavi a fare?”, rispose di getto.<br />“Chiamavo per controllare che tu abitassi ancora lì. Per noi è diventata dura, non abbiamo più lo stesso potere di un tempo, ora, quando andiamo a raccogliere qualcuno, dobbiamo andarci in macchina, i più sfortunati a piedi, e dobbiamo cercare il suo indirizzo sull’elenco del telefono. Perlomeno non paghiamo la bolletta…”<br />“Io continuo a non capire… che te ne frega a te dove abito io?”<br />Il negro rise: “Oh, ragazza, non potresti capire neanche se volessi. Io sono Papa Legba, e faccio solo il mio lavoro, come lo fanno tutti gli altri poveracci come me, da quel ricchione greco di Thanatos alla francesina anoressica con falce e sigaretta: raccogliamo le anime dei morti. Solo che io a volte i morti li faccio camminare…”, lo disse come se stesse ammettendo una marachella.<br />“Ma che cazzo stai dicendo? Tu saresti l’angelo della morte? Sei scemo?”<br />“Si…”, l’Uomo col Cilindro continuava a sorridere, “E si…”<br />Diana sbiancò. Poi, incredula, disse: “Dunque, sono morta?”<br />“Oh, no, mancano ancora un paio d’anni… è che a furia di sentire la tua voce per telefono mi è venuta voglia di incontrarti…”<br />“Un paio d’anni? Mi tocca crepare a ventotto anni? Cristo, mi tocca morire zitella…”, l’umana paura della morte prendeva possesso delle sue ginocchia, ed ogni dubbio razionale veniva respinto dalla figura irreale che le parlava di fianco. Il negro rise come se la cosa fosse buffa e nel ridere vibrò: “Ehi, calma, mancano ancora un paio d’anni, ma non si muore mai davvero…”<br />“Cazzo, due anni…”, fece un sorso di Harp e si zittì, poi chiese, con sospetto, “E che cazzo vuoi adesso, da me, oltre rovinarmi i prossimi due anni?”<br />“Papa Legba non rovina niente a nessuno”, soffiò il fumo fragrante del sigaro, “Papa Legba offre patti, affari per chi può aiutarlo a vivere meglio. Papa Legba porta la morte, e dona la non morte. Papa Legba sceglie chi prendersi, e tu sei mia giurisdizione. Papa Legba ti offre tre strade per sfuggire alla morte: la prima è uccidere Papa Legba, ma non è possibile uccidere chi domina la morte; la seconda è camminare nel mondo dei vivi da morta, ma Papa Legba assicura che è la via peggiore, marcire da non vivi; la terza è amare Papa Legba dall’erezione dura come il frassino, opzione consigliata; la quarta…”<br />“Avevi detto tre strade.”<br />“Tre è il numero perfetto, le cose devono sempre venire tre a tre: la quarta è collaborare con Papa Legba, assumere il suo ruolo nell’attività di ritiro, fare in modo che egli abbia un poco di riposo. Papa Legba vuole che tu scelga ora la tua strada.”<br />Diana lo fissò, come se non fosse riuscita a capire una sola parola vibrata dalle labbra carnose del negro; Papa Legba rinforcò il cilindro in testa, ed infine, nel silenzio totale di Diana, tuonò solenne: “Bene, la tua scelta è fatta… peccato, è tanto che non faccio l’amore con una donna… viva intendo… Hai scelto di diventare assistente di Papa Legba, ed in fondo te ne ringrazio infinitamente. Dingo ed il Gatto sapranno introdurti al tuo nuovo lavoro. Sei assunta.” S’alzò, sorrise del suo sorriso giallo, e se ne andò.<br />Diana ebbe solo il tempo di chiedersi se il negro fosse un pazzo necrofilo e se avesse davvero ancora solo due anni per trovare marito e lasciarlo vedovo, prima di rendersi conto che gatto e corvo fossero spariti e la Harp fosse finita. Ordinò allora un’altra Harp a spese “del tipo nero che era qua”, e solo quando, sfiorando la mano del barman per afferrare la pinta, vide accasciarsi a terra l’uomo dietro il banco e la cameriera ai tavoli chiamare l’ambulanza e gli infermieri affermare che non ci si spiegava come ma le funzioni vitali dell’uomo avevano sfiorato lo zero, solo allora cominciò a temere che tutto quel che era accaduto non se lo fosse soltanto sognato.<br />Il gatto ed il corvo la seguirono in strada. Lei se ne accorse, ma non ebbe reazioni di sorta, solo continuò a camminare. Tornò a casa, li chiuse fuori, ma non sembrò servire a nulla, loro semplicemente erano il buio dentro l’appartamento e quando accese la luce del soggiorno l’aspettavano ormai da tempo. Il corvo s’era versato del gin Larios, il gatto s’era semplicemente acciambellato sul divano: lei buttò il cappotto su una poltrona, e gli si sedette accanto, lui si stiracchiò, le strusciò la testa su una mano, e si riacciambellò. Dormirono entrambe profondamente, finché il sole non scacciò la notte.<br />Diana non ebbe sogni. Il corvo finì il gin. Il gatto sparì verso le sei. Dalle tapparelle filtravano alcuni raggi di sole ed il rumore del traffico di Milano. Erano le otto del mattino, era troppo presto, dal momento che non aveva un lavoro. Il problema forse era che fosse lunedì, mentre avrebbe dovuto essere appena cominciata la domenica: lei si rese conto di aver perso qualcosa proprio osservando scorrere il fiume di lamiere sotto la sua finestra, qualche decina di metri sotto, mentre sorseggiava del tè alla menta. Accese il televisore per controllare la data, e mentre ascoltava le notizie del giorno dopo, che era proprio lunedì, ma nove giorni dopo il sabato trascorso col negro, il corvo le porse un bicchiere di gin, ed afferrandolo lei si rese conto che le sue unghie erano diventate nere, come quando andava nei locali dark a dar mostra delle sue forme, e che stava accendendo la sigaretta che il corvo le aveva offerto. Stabilì che tutto era troppo assurdo, stava ancora dormendo, ma la cosa oltre a spaventarla la eccitava, la eccitava parecchio, sentì un brivido tra le gambe ed andò a guardarsi allo specchio: i capelli porpora s’erano macchiati di alcune ciocche nere che la rendevano una candela dalla fiamma color sangue, ed il viso le si era fatto più pallido, e quello sulle unghie non era smalto come si era augurata, e la sigaretta in effetti la trovava gustosa, e quando si guardò negli occhi, le fessure sottili color dell’ebano, lo specchio si spezzò in vari frammenti. Lei sorrise, carezzò il riflesso moltiplicato del suo volto fino a tagliarsi, non uscì molto sangue dal dito ferito, lei lo mise sotto il getto d’acqua del rubinetto, e vide l’acqua corrente imputridirsi e diventare torbida mentre fuggiva nello scarico del lavandino. Il telefono squillò.<br />Era Alessa.<br />“Claudio è uno stronzo!”<br />“Ciao, Alessa… che è successo?”, Diana era abituata a questo genere di conversazione telefonica, e non la trovava per niente stimolante. Per questo tirò il cavo fino in soggiorno e si mise alla finestra afferrando per il collo la bottiglia di gin.<br />“Ieri sera… siamo andati a ballare… e lui non ha fatto altro che parlare con una ragazza con la maglietta dei VnVNation… io gli ho chiesto di venire a ballare e lui invece è rimasto lì a parlare con ‘sta puttana… e tu dove cazzo eri finita che è una settimana che ti cerco… comunque, adesso basta! Gli ho detto che –CLIC-“, fine della conversazione. Diana voleva bene ad Alessa, ma in fin dei conti aveva proprio rotto i coglioni, e non era quello il momento. Il gin era finito, da prima che lo prendesse lei: si girò, guardò il Dingo, e quello le sorrise strafottente. Il telefono squillò.<br />Era il suo nuovo capo, il suo nuovo impiego.<br />Doveva darle alcune spiegazioni, il negro. Lei le pretendeva. Quello rise di gola, e le suggerì di mettersi comoda. “Papa Legba è un loa dei culti voodoo haitiani e africani. Io sono soltanto un Papa Legba, sono arrivato in Italia con le prostitute nigeriane da dieci euro a pompino, e sono cresciuto coi cubani ed i domenicani fino a diventare l’uomo bellissimo che hai visto…”<br />Diana non rise. Era in un casino più grande di lei: “Ascolta, come vuoi che io diventi un demonio voodoo, che sono nata a Niguarda?”<br />“Oh, non capisci. Il mio è un mestiere come tanti, ed altri fanno il mio stesso mestiere in tutto il mondo. La Bella Dama, Caronte, Thanatos, ce n’è un’infinità, perché gli uomini a morire sono tanti… Siamo angeli della morte, impiegati del trapasso, raccogliamo anime per chi ci crede, le altre le lasciamo a terra. Poco importa se il morto è Cristiano, Indù, Buddista, Ebreo, Musulmano. Certo, gli arabi poi ci restano male che dall’altra parte ci saranno 5 vergini in totale, ma li carichiamo tutti sul Ferry Boat di Caronte, e vanno tutti in villeggiatura forzata nello stesso posto. E poco importa chi è l’incaricato dell’accompagnamento. A me piaci tu, e ti ho assunta. C’est bien?”<br />“Ed ora tutto quello che tocco muore? Che sistema di merda è?”<br />“Sei tu che non sei capace, bimba!”, vibrò la voce del negro, “Puoi toccare chi vuoi e scoparti chi vuoi, basta non pensare alla morte! Capisci? Ti fai pompare da un maschio e pensi Lo Uccido, e quello ci rimane. È un metodo complesso, devi padroneggiare bene i tuoi pensieri, ma è possibile, io lo faccio, ad esempio.”<br />“E perché non sanguino? Perché ho dormito nove giorni? Perché non ho fame?”, rafficò isterica Diana.<br />“Le funzioni vitali del tuo corpo sono sospese, non ne hai bisogno. In realtà sono solo rallentate di migliaia di volte, invecchierai ed avvertirai la fame e la voglia, non sanguinerai copiosamente ma stillerai una goccia di sangue ogni dieci minuti, nel contempo le carni impiegheranno mesi a rimarginarsi, ed ogni anno per il tuo corpo sarà come una sola giornata. Compris, mademoiselle? E 9 giorni perchè le cose vengono tre la volta, tre per tre, che fa nove, non?”<br />“Perché hai chiamato?”<br />“Per dirti di prepararti, ma petit chat noir. Allenati su tutto quanto ti ho detto, è l’unico compito che hai per ora. Goditi questi giorni come le tue ultime vacanze, bella…”<br />E riattaccò.<br />Con Gatto e con Dingo furono mesi di allenamento concentrato e sfrenato divertimento. Diana portava avanti la sua vita come al solito, con Alessa e Claudio a bere e ballare e litigare, e portava avanti la sua morte in segreto, i soldi li recuperavano chissà dove il micio col corvo, lei poteva osare ogni cosa senza ripercussioni. Più acquistava sicurezza, meglio le andavano le cose, un sacco di ragazzi la corteggiavano, ogni tanto un’agenzia la pagava profumatamente per posare in servizi di moda dark o fetish, e non invecchiava e non ingrassava e poteva fumare seicento sigarette o bere litri di alcool senza alcun malore. Solo una volta s’era portata un tipo a casa che mentre glielo spingeva dentro da dietro aveva cominciato a sferrarle cazzotti sui reni chiamandola troia, e lei per sbaglio l’aveva ammazzato, ma era più rammaricata per essersi scopata uno stronzo che per averlo freddato. Al cadavere pensarono Gatto e Dingo, non si sa come, ed il periodo magico proseguì. Fino a quella maledetta serata in cui Alessa fu mollata da Claudio.<br />Alessa era disperata, al telefono. Claudio l’aveva tradita ed oltretutto l’aveva mollata per quell’altra troia, la solita storia. Ma stavolta lui non aveva invocato perdono, aveva rotto e ricominciato con un’altra. “Per favore, Diana, vieni con me, voglio strapparle i capelli, alla puttana, vieni con me!”<br />“Dove?”<br />“Stasera Claudio e la Troia vanno alla festa del Boga a Cesano, sono invitata anch’io, voglio ammazzarla!”<br />“Bèh, al massimo ci sono io”, ironizzò Diana, “Ok, andiamoci, passi tu?”<br />“Passo subito!”<br />Tra le lamiere incandescenti, in mezzo alla superstrada Milano-Como, Diana rivedeva Alessa strillare e sterzare tentando di evitare quell’auto che le tagliava la strada, una vecchia Ford berlina nera. Poi tutto si confondeva, la loro auto che capottava, il motore che s’infiammava, la pioggia che non bastava a spegnere quel fuoco. E Diana che, senza cintura di sicurezza, veniva sbalzata fuori dall’abitacolo, tanto non poteva morire più, e si feriva rotolando sull’asfalto bagnato, che cazzo, non si sarebbero rimarginate più, ci avrebbe impiegato mesi a chiudere quelle ferite…<br />Diana si sollevò, e guardò disarmata l’auto slabbrata, informe, in fiamme, qualcosa che pareva Alessa che ancora strillava sebbene ne fosse rimasto ben poco. Zoppicando, sotto la pioggia lenta e costante Diana si approssimò al rottame. Non c’era niente da fare.<br />La Ford nera tornò in retro. Diana si voltò, furiosa, decisa a giustiziare gli assassini della sua amica, e rabbrividì. Un tipo magrissimo, incappucciato, stava poggiato al cofano della Ford fumando una sigaretta, distratto dai suoi pensieri, dal lato del guidatore, con una lunga falce poggiata alla spalla. Il Negro, con un sorriso giallo stampato dietro il sigaro, era sceso dal lato del passeggero e le disse: “Niente male come primo impiego, eh?”<br />Diana non rispose, sentì soltanto la rabbia rapirla e spingerla al collo di Papa Legba, ma questi proseguì: “Quanto tempo è passato, dal nostro primo incontro, ricordi? Due anni. Ricordi, ma belle? Stasera tu muori, e diventi la Morte. Fantastique, non?”<br />Diana guardò nel metallo ritorto quale sarebbe stata la sua fine se non fosse scesa a patti con la Morte o i suoi agenti, e mentre Papa Legba l’accompagnava a raccogliere l’anima della sua migliore amica, prenderla per mano e condurla fino alle banchine dell’Aldiqua per mandarla Aldilà, mentre Alessa la guardava spaurita e muta senza capire granché, Diana pianse la prima lacrima e si sentì già stanca di quello sporco mestiere, mestiere di manovalanza. E s’accorse solo allora che, se aveva accettato lavoro dalla Morte, era soltanto perché amava la Vita.</div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-76994616069635376802008-06-06T07:23:00.000-07:002008-06-06T07:26:35.025-07:00Dogma4012 - Fuori Gli Sbirri Dai Quartieri<div align="justify"><em>Spin Off mai accaduto nel Mondo Nero del Gatto. A me non piace.</em></div><div align="justify"><br />Tutto cominciò di corsa. Lungo viale Sarca, e nessuno sapeva nemmeno come si fosse arrivati fin lì. C’era questo marocchino che correva a perdifiato, e dietro l’agente di Polizia del commissariato Cenisio Gemmi che tentava di stargli dietro. Arrivarono correndo e sembrava proprio se ne sarebbero andati correndo, il marocchino col piumino stracciato che perdeva piume sul marciapiede, Gemmi che aveva perso il berretto da gendarme e sudava rabbiosamente.<br />La gente guardava, allarmata, incuriosita, qualcuno pure divertito, và là lo sbirro che non ce la fa più. Ma crollò prima il marocchino: ad un certo punto, all’incirca all’altezza di Aldo, storica trattoria toscana lurida ed a prezzi popolari –particolare realizzato solo nell’immaginario di chi non ne era mai stato cliente- il magrebino s’inginocchiò a terra, spompato, e implorò.<br />Gemmi gli arrivò addosso come uno schiacciasassi, come una palla da demolizione che esagera nell’oscillazione e butta a terra anche i palazzi d’intorno. Ragazzi in pausa pranzo dall’Università Bicocca, che stavano pasteggiando chi da Aldo chi alla mensa della Casa Matta, centro sociale occupato studentesco, erano accorsi in strada attratti dal chiasso che l’evento stava suscitando, ed a quell’impatto dapprima risero di stupore. Gemmi stese a terra il marocchino con un calcio nei reni, poi cominciò a calciarlo sulle costole senza trattenersi, rubizzo d’ira in volto, sempre più forte.<br />Qualcuno gridò, picchialo piano, suscitando qualche risata e qualche commento d’approvazione o sdegno, ma Gemmi non sentiva niente, pensava solo a caricare ogni calcio più potente di quello precedente, a colpire in petto il nordafricano, mentre quello non riusciva più a respirare tra l’affanno e le percosse, e schiumava dalla bocca.<br />Vicedomini sopraggiunse ed arrestò la gazzella a pochi centimetri dal fuggitivo, scavalcando il marciapiede. Sulla volante con lui stava seduto mesto e tranquillo un altro marraca, in manette. Vicedomini sbalzò giù dall’auto e si mise a calciare pure lui lo sventurato staffettista marocchino.<br />L’adunanza civile cominciò ad insultare gli agenti in divisa, vermi, infami, ma quelli parevano sbattersene, pestavano senza far troppo caso alle condizioni del loro sacco di sfogo. Una Uno con sirena sul tettuccio accostò tranquilla al margine di viale Sarca, e ne scese l’ispettore Cristiano Camporosso. Guardò la scena, sorrise amaro e s’accese una Pall Mall blu. Un vecchietto gli si avvicinò chiedendo che avesse combinato il talebano, se fosse un terrorista, ma Cristiano rispose rassegnato: “Niente. Hanno rubato una macchina, lui ed il suo socio, ad Affori. Ed hanno stirato una bambina in Fulvio Testi. Il passeggero s’è consegnato subito, l’altro se l’è data a gambe. Cose che capitano, no?”, e s’avviò a quietare gli animi dei due agenti.<br />C’era un rombo caotico, quello provocato dalla troppa folla e precedente i disastri meteorologici o le catastrofi naturali. Cristiano ordinò ai due giovani sottoposti di mollare il marrakesh e caricarlo sulla volante, che il lavoro lo finivano i delinquenti onesti a San Vittore, non c’era bisogno di far indagare due agenti per percosse o abuso di potere. Ed appena il marocchino fu ammanettato e chiuso in macchina, arrivò la carica.<br />Al grido di fascisti, dei poveretti paladini di chissà che tipo di giustizia, come li avrebbe definiti poi Cristiano nel rapporto, assaltò i tre sbirri a calci e sassaiole. Gemmi rovinò quasi subito al suolo. Vicedomini mollò qualche cazzotto nella ressa, Cristiano cercò soltanto di farsi spazio intorno. Poi la schiera di guardiani dei guardiani arretrò disperdendosi. Qualcuno gridò: “È morto!”<br />E Vicedomini cominciò ad urlare. A piangere, ed urlare.<br />Gemmi era stato colpito ad una tempia con una pietra scagliata da qualcuno che per dogma politico odiava gli sbirri. Perché i delinquenti non odiano gli sbirri, ne hanno timore o li affrontano impavidi considerandoli merda, magari, o tentano in qualsiasi modo non onesto di farseli amici contagiandoli con la delinquenza ed il soldo facile. Ma alcune religioni partitiche ed extrapartitiche predicano l’odio allo sbirro, nemico del popolo, nemico della libertà. Alcuni politicanti non vogliono portare a processo le mafie, gli strozzini, gli assassini, le madri che massacrano i figli, o i pedofili, ma i poliziotti. Perché i delinquenti sono tutti vittima di un sistema sbagliato, mentre un ventenne che l’unico mestiere che abbia trovato giù in Ciociaria è stato venire ad indossare una divisa blu con un berretto da pirla in testa ed un cannone nella fondina a Milano è un fascista ed un infame. Perché al giornalista piace la rabbia di chi infiamma le strade, ma non piace il tutore dell’ordine che in preda al panico prema il grilletto. Perché lo sbirro ha più poteri e quindi più doveri di un cittadino normale, quindi stia in guardia, la guardia, i suoi guardiani stanno in agguato. E questo modo di pensare, anzi, di non pensare ma acquisire come proprio un ordine socio-politico interessato, Cristiano lo faceva imbestialire, perché faceva proprio il gioco ordito dai potenti, quel mettere l’uno contro l’altro i poveracci e distogliere l’attenzione dal giogo del controllo subliminale con sodomizzazione sociale inclusa. E nella sua testa stava prevedendo tutto con una oculatezza che l’avrebbe stupito, giorni dopo.<br />Era stato incredibile, pensò Camporosso mentre il cadavere di Gemmi veniva caricato sull’ambulanza a sirene spente, e Vicedomini prendeva a cazzotti un cestino dei rifiuti verde Amsa. Aveva visto Gemmi quasi tutti i giorni, negli ultimi anni, e gli stava anche simpatico, ma di lui sapeva così poco. Non sapeva se avesse una fidanzata, non sapeva di dove fosse originario. Vicedomini, invece, sapeva tutto del collega. Era fidanzato convivente in vista matrimonio con una gran figa bionda, con le orecchie a sventola però. Lei aveva avuto problemi di dipendenza da antidepressivi, robe così, ma da due anni era rinata, grazie a Giuliano. Cazzo, Gemmi aveva anche un nome, si chiamava Giuliano. Ed era del quartiere Isola, di via Volturno, per essere precisi. Abitava nello stesso palazzo dei suoi genitori, milanesi d’epoca. Aveva ventitré anni. Ed era appena morto su un marciapiedi assassinato da un sasso scagliato da uno spocchioso di merda incazzato perché un poliziotto stava, si, è vero, lo stava massacrando, quell’arabo del cazzo, ma Cristo quello aveva stirato una bambina!<br />Camporosso ascoltò in silenzio Vicedomini, fumando assorto le sue Pall Mall, mentre altri sbirri facevano tutti i rilievi, mentre in cuor suo sperava nessuno facesse quello che lui, per qualche istante, aveva desiderato fare.<br />Una settimana dopo, il funerale di Gemmi era passato, Vicedomini aveva un nuovo compagno, la sventolona di Gemmi tentava il suicidio coi barbiturici, e Camporosso sapeva chi avesse ucciso l’agente grazie alla videocamera di sorveglianza del benzinaio di viale Sarca. Ma Dio li fa, ed il Diavolo li accoppa.<br />Perché mentre Cristiano finalmente risolveva un caso con un serio metodo d’indagine, Vicedomini era riuscito a convincere un Commissario ad emanare un mandato di perquisizione per la Casa Matta, dalla quale proveniva in cuor suo l’assassino dell’amico e compagno. Così, mentre Cristiano chiedeva ad Aldo il toscano chi fosse il giovane rivoltoso con la barba ritratto in alcune foto pixellose ottenute dai fotogrammi della videosorveglianza –guardiana dei guardiani dei guardiani- del benzinaio là vicino, il Commissario Fassi caricò due camionette di sbirri antisommossa, tra cui Vicedomini, e partì al comando di un’incursione nei locali della Casa Matta.<br />Vicedomini stesso sfondò la porta a vetri, peraltro aperta, del Centro Sociale, e s’inoltrò nel piccolo corridoio che accedeva al cortile interno dello stabile ex-industriale seguito da Fassi e diciotto agenti in armatura. Fassi divise il drappello, dieci in cortile e dieci su per le scale che salivano a sinistra nelle stanze degli occupanti. Vicedomini prese le scale.<br />Cristiano entrò in Commissariato trionfante con il fromboliere in manette, Tiziano Cesari, uno studente di sociologia senza precedenti penali, un ragazzino di diciannove anni che al momento dell’arresto era scoppiato a piangere esclamando “Finalmente!”, e che per tutto il tragitto in macchina con Camporosso aveva spiegato la storia così come l’aveva vissuta lui, che non voleva mica ammazzarlo, ma così, nel gruppo, se non avesse lanciato quella pietra tutti gli avrebbero dato contro, che era un cagasotto e via dicendo. Cristiano aveva quasi avuto voglia di lasciarlo andare, ma poi si consolò convincendosi che se la sarebbe cavata con poco, il Cesari, che tanto la parola Giustizia in Italia si usa solo nella traduzione dei titoli dei thriller americani. Il trionfo fu svilito: Vicedomini era fuori. In missione.<br />Vicedomini era il compagno di Gemmi da tre anni. Avevano trascorso intere giornate assieme, fino a diventare intimi, più che amici, più che fratelli: ciascuno sapeva che dalla sua attenzione dipendeva la vita dell’altro, oltre che la propria, era un legame di sangue difficile da recidere in maniera diversa che col fallimento o la morte. Vicedomini frequentava Gemmi anche oltre l’orario di lavoro, combinavano uscite a quattro in cui la moglie del primo e la promessa sposa del secondo petulavano di facezie vanesie, mentre i due poliziotti sbraitavano contro i maxischermi che proiettavano il calcio a pagamento nel locale o nel ristorante. Vicedomini aveva promesso a Gemmi che gli avrebbe fatto tenere il figlio che gli stava per nascere a battesimo, e Gemmi invece aveva scelto il collega come testimone di nozze. Vicedomini non aveva potuto far niente per salvare il collega, il compagno, l’amico, il fratello, ed ora il cuore incrinato sotto la sua divisa reclamava una cosa soltanto: vendetta, a tutti i costi.<br />Mentre il plotone di esecuzione della Polizia di Stato manganellava a freddo chiunque trovasse all’interno della Casa Matta, Vicedomini sfondò una porta con un calcio e si trovò in una stanza occupata da un letto matrimoniale: sul letto stava inginocchiata una ragazza con in testa dei dredd tentacolari biondi, pallidissima, con in braccio un bambino di qualche mese, mentre un ragazzo barbuto stava tentando di spingere un armadio davanti all’entrata della stanza senza successo. Il ragazzo sbiancò e guardò Vicedomini. Lo sbirro ingoiò tutta la furia e si trovò ad essere confuso e spaventato, mentre urla e schiamazzi e tonfi di manganello popolavano l’aria: sollevò la visiera del casco, guardò il ragazzo, perplesso, e poi la ragazza, poi il bimbo, e poi il ragazzo.<br />“Che fate voi qui?”, chiese.<br />“Ci abitiamo…”<br />“Ma è vostra, la creatura?”<br />“Si”, rispose timoroso il ragazzo barbuto.<br />“Mannaggia…”, imprecò Vicedomini a bassa voce, lasciando cadere a terra il manganello. Poi levò il casco e chiese: “Ma voi sapete chi ha ammazzato il mio collega, qua davanti, settimana passata?”<br />“No”, rispose quasi in lacrime la ragazza coi dredd.<br />“Come si chiama?”, chiese il poliziotto.<br />“Chi?”<br />“La creatura…”<br />“Paco”<br />“Ma che nome e’mmerde, pore guaglione…”, sorrise Vicedomini, “Che posso prenderlo in braccio?”<br />I due ragazzi si guardarono perplessi, ma Vicedomini già stava sollevando tra le braccia il piccolo Paco: “Sapete, pure mia moglie è in attesa, deve nascere a dicembre. Ma lo chiamiamo Vincenzo, come mio padre. Ch’accussì le iniziali sono doppia V…”, e si mise a gigionare col poppante.<br />Entrò Fassi, e gridò: “Trovato qualcosa?”<br />“Ohè, dottò, non gridate, che spaventate la creatura. Qui non c’è niente, non troveremo niente. Può darsi che mi sono confuso…”, ammise Vicedomini. Riconsegnò Paco alla madre, e senza formalizzarsi col suo superiore, raccolse casco e manganello bisbigliando, “Mi sa che abbiamo combinato una cazzata, dottò, è meglio se ce ne andiamo…”<br />Fassi rimase con un palmo di naso, e sentì le vertigini immaginando soltanto i titoli dei giornali del giorno dopo. S’era fatto la Diaz a Genova, se l’era cavata, e s’era infilato di testa nella merda.<br />Vicedomini, invece, tornò in Cenisio.<br />Gemmi era morto. Ma non era in quel modo che l’avrebbe riportato in vita. Aveva combinato un inutile massacro, aveva messo nei guai il Commissario Fassi, e non aveva trovato neanche l’assassino del suo collega compagno amico e fratello, ed ora probabilmente si sarebbe scatenata una bufera sulla Polizia e lui sarebbe stato pure indagato. Ma mentre attraversava a piedi Niguarda per rientrare al Commissariato di Affori, sorrideva, e decise: Giuliano Vicedomini era uno splendido nome, un nome amico, un nome giusto, per suo figlio.</div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-18888255763298099242008-06-06T07:11:00.000-07:002008-06-06T07:23:03.267-07:00Papa Legba Traffics - Nero Pergola<div align="justify"><em>Toni da duro e prima persona: esperimento in classico stile hardboiled per un raccontucolo che deraglia nell'horror a la Carpenter. </em></div><div align="justify"><br /><em>Domenica mattina, ore 9:28.<br />Sono venuto a dormire alle 5 passate, ma il telefono squilla spietato ugualmente. Impantanato sotto le coperte immergo un braccio nel gelo della stanza e tiro su la cornetta. È Lulù. L’alzabandiera del risveglio si fa turgido e bollente. Se la immagino reggere la cornetta vedo le sue labbra che mi baciano lo scroto col glande pulsante infilato nell’orecchino a cerchio enorme che le pende dal lobo. “Dimmi”, dico imbarazzato. Mi avvisa che se voglio contattarla devo comporre un altro numero, ché la sera prima le hanno fregato il cellulare. “No, cazzo! L’avevi appena preso! Dove?”<br />Era andata a ballare in Pergola. La Pergola è una casa occupata autogestita, in via della Pergola, appunto, quartiere Isola, dove si va a ballare ad un prezzo d’ingresso proibitivo. E' pieno di africani che spacciano… “Sono stati quei negri di merda! Ci penso io!”, mi infiammo tricolore e mentre lei cerca di acquietarmi la saluto e butto giù, mi vesto e comincio a radunare la Brigata.<br />Camporosso no, è poliziotto e quello che voglio combinare non è proprio legale, sebbene sia giusto e doveroso. Comunque, per lui è meglio di no. Il Brucia è zoppo di nuovo, sarà a casa a contare le monetine della sua collezione o a fissare il soffitto per far scorrere il tempo. Il Pugile sarebbe l’ideale, ma non lo trovo, cazzo, da quando è morto la volta scorsa sembra Phoenix dei Cavalieri dello Zodiaco, non esiste più e compare solo nel momento del bisogno o quando non l’hai chiamato. Lupo, col cazzo che chiamo Lupo se si tratta di Lulù: è il semestre che stanno insieme, adesso, ma lei ha chiamato me, e non voglio dare a lui l’occasione di farsi bello di fronte a lei. Trentalibbre. È grande, grosso, oggi non lavora.<br />Aspettiamo sera, il mercato ne(g)ro di via della Pergola apre solo col buio, di giorno vanno a rubare: i Senegalesi spacciano in gruppetti di quattro e tentano di piazzare refurtive raccolte nel pomeriggio, i Marocchini spacciano di fianco, in via Dal Verme, non si mischiano ma si odiano, e la bella gioventù milanese và a dimenare il culo con la techno in Pergola o a stonarsi d’alcool al Frida, cortile trendy rimesso a locale. Poi escono, vanno dal negro che gli ha appena fatto il portafogli, e con un sorriso amichevole comprano dieci euro di pessima ganja. Gioventù di merda.<br />Parcheggiamo il Peugeot 806 di Trenta, e chi ti becco? Il mio avvocato, Guglielmo Roggero, che compra il fumo dai Senegalesi. Lo saluto, “Hai una macchia di sugo sulla camicia”, aggiungo. Willie, perché è così che lo chiamo, mi ha difeso al processo in una puntata precedente delle mie disavventure di questi ultimi anni, avevo ucciso un tipo che minacciava me e la Brigata ai tempi della faccenda del Kontenitore, ma è una storia lunga, potrei scrivere 120 pagine word se volessi raccontarla…<br />Saluto il negro, gli sorrido e rifiuto il fumo, Trenta mi aspetta accanto al suo monovolume, oddio, o si mette a dieta, o diventa un monovolume anche lui, non lo distinguo dall’auto, Willie sta lì con me. “Senegal, vorrei un cellulare Nokia nero, a sportello, ce l’hai?”<br />Lui ed i suoi soci, sono in quattro, come al solito, si dicono qualcosa in una lingua che pare il verso del tacchino, mi squadrano, non ho l’aria né dello sbirro né del fascio, si lasciano imbrogliare dal mio stile da punk/metallaro/sfigato, dal mio aspetto di Che Guevara denutrito di periferia: sorridono e mi fanno vedere tre cellulari, ma non sono quello che cerco. Sebbene il sangue mi ribollisca nelle vene visiono i telefoni e con una smorfia insisto sul modello che ho richiesto, così chiamano il Lou Ferrigno dell’Africa Centrale e tutta la sua cricca, un supernegro, quello arriva e mette in mostra tutta la vetrina. Lo vedo. Il cellulare di Lulù con ancora impiccato Winnie the Pooh inguainato un costume di Halloween in lattice viola. Afferro il telefonino ed il negrissimo Hulk me lo offre per 30 euro, ribatto “Devo pagare una cosa già mia?”<br />I negri si allarmano, nervosi estraggono le lame dai loro piumini d’oca colorati, gli occhi si socchiudono in fessure iniettate di sangue, i sorrisi brillanti diventano ringhi bestiali, io un po’ mi cago addosso e gli dico, “Calmo, calmo”, tiro fuori venti euro e glieli piazzo in mano, “Non più di questi”, dico, lui torna a sorridere soddisfatto, io lo mando a fare in culo sottovoce. Chiedo a Willie dove ha parcheggiato, lontano, bene, “Vieni con me, allora”, saliamo sulla macchina di Trentalibbre, io dietro, Trenta mette in moto mentre Willie lo saluta, partiamo, apro il portellone laterale ed accendo il panno della molotov, non effettuo un ottimo lancio verso gli africani, ma si cagheranno addosso. Willie mi dice agitato che non potrà aiutarmi granché, stavolta, al processo, Trenta si complimenta con sé stesso per aver prudentemente coperto le targhe del Peugeot.<br />Che cazzo, comunque, ho presa in pieno con la bottiglia incendiaria una di quelle merde, cominciano a seguirci a piedi mentre la Torcia Umana di colore rotola in terra. Dei loro compari ci tagliano la strada e ci si parano innanzi, uno coi rasta indossa una tunica colorata che sfiora terra ed è pieno di pendagli con feticci e fotografie incorniciate: ci scatta una decina di foto, tranquillo, con una vecchia reflex Olympus, Willie si preoccupa per una possibile denuncia, invece il santone giamaicano ci fa segno col dito che ci taglia la gola.<br />I negri si fermano tutti intorno a noi, e ci osservano. Noi tre nella macchina non apriamo bocca e se potessimo forse piangeremmo. Dalla Pergola escono dei fottuti fattoni da Casa Occupata. C’è un gran vociare, ma d’un tratto cala un silenzio sacrale. Lo vedo per primo io, nello specchietto retrovisore. La carbonella di negro alla brace che la mia coscienza rimordeva d’avere ammazzato e non solo spaventato sta arrancando lentamente verso di noi, ancora in fiamme. Sembra un burattino manovrato male. Il Santone Fotografo ha le pupille ribaltate e schiuma idrofobo dalla bocca. Una certa memoria a fotogrammi e vignette mi sussurra nell’inconscio una parola, ma non la colgo subito, al momento sono solo terribilmente terrorizzato. Poi esplode nella mia testa e nel petto mentre la strillo, “ZOMBIE!”, ma Trentalibbre, più sveglio e cinico di me, ha già inserito la retro, impresso la scritta Pirelli degli pneumatici sul cadavere vivente della rediviva Torcia Africana, intrapreso in retromarcia piazza Minniti speronando una vecchietta su una Fiat Punto, e scheggiato verso casa mia, in silenzio. Forse se non ne parliamo non ce lo ricordiamo, forse se non ne parliamo non è mai successo.<br />Ci barrichiamo in casa mia cagati sotto, più che per quello che abbiamo visto, per l’atmosfera malsana e malevola dello Sciamano e del tizzone negro come il carbone che si rianima e ci viene incontro. Willie, che non legge romanzi, ma solo saggi di entomologia e biologia, fornisce una spiegazione razionale e scientifica dell’accaduto: lo Sciamano avrebbe avuto un attacco epilettico dovuto alla tensione del momento; la scarica d’adrenalina avrebbe reso insensibile alle ustioni ed al decesso Carbonello. Io, che sono un cretino, penso a Romero, ai fumetti, ad una puntata di Starsky & Hutch, continuo a battere i denti percependo intorno a me loa voodoo, Papa Legba, morti viventi. Le foto. Mi spaventano le foto, morire tra atroci dolori dilaniato sulla celluloide da spilloni malefici. Trenta non si scompone, mette a bollire l’acqua per la pasta e s’accende una sigaretta, preparandosi un Campari col bianco.<br />Mangiamo tanto e beviamo di più. Siamo tutti imbriachi e sragioniamo sul da farsi: Willie si rammarica di aver perso grazie alla mia molotov la fiducia del suo pusher di fiducia, Baba; Trenta ci vuol costituire all’ispettore Camporosso; io vorrei un fucile con proiettili BumBum in argento. Verso le 3, mentre in TV guardiamo una donna nuda con le smagliature che da un divano soddisfa le sciocche fantasie erotico-telefoniche di una voce identica a quella del nostro professore di Filosofia al liceo, qualcosa batte contro le persiane: do un’occhiata alla e dalla finestra, mezzo intontito dal sonno e dal vino, in strada non c’è niente.<br />Abito in una casa di corte ad Affori, al secondo piano, un non luogo periferico milanese annegato tra cortili di corrieri trasportatori, piccole fabbrichette, tir parcheggiati, cantieri edili in animazione sospesa: di notte, qui, è tutto morto. Solo il buio lacerato da lampioni arancioni, un semaforo frustrato dall’indifferenza dei piloti lunatici, ed un pascolo di auto posteggiate sullo sterrato di fronte casa mia. Vaffanculo!<br />Noto una trentina di giganti incappucciati accovacciati tra le auto! I loro occhi bianchi son tutto ciò che ne tradisca la presenza! Fanno parte dell’oscurità che ci assedia, poi, da sotto la mia finestra stessa, sbuca in mezzo alla strada un arlecchino intunicato, lo Sciamano!<br />Lo Stregone mi guarda e ride, non so come faccia a riconoscermi da dietro le persiane. Estrae dalla sua borsa a tracolla colorata mimetizzata sulla tunica variopinta una delle foto che deve averci scattato davanti al Pergola, è una foto di Trentalibbre, lo riconosco perché la foto è grossa come la copertina di una rivista di moda: poi il Santone mi mostra uno spillone e lo infila in mezzo agli occhi di Trenta. Io guardo il mio amico, enorme, massiccio, sembra una delle Due Torri del Signore degli Anelli, che tranquillo, guardando la tv seduto in poltrona, si stropiccia gli occhi. Cazzo!<br />Ributto l’attenzione al negro dai mille colori, ed ora estrae una foto del povero Willie, il mio avvocato, il mio confidente sentimentale da quindici anni, che adesso sta bucherellando il mio divano con le caccole della canna che si sta fumando con Trenta, e lo Stregone fa il Vudù pure a lui, gli infila uno spillone in gola, un brivido lungo la schiena, mi si accappona la pelle e non ho neanche il coraggio di girarmi a guardarlo, lo sento solo tossire convulsamente, cazzo, cazzo, ho gli occhi inchiodati sullo Stregone Vudù e non riesco a distoglierli, soprattutto perché ho il presentimento di chi sarà la prossima vittima, e difatti, eccomi, una mia foto, un primo piano confuso del mio volto teso, prende tre spilloni, che cazzo, ce l’ha proprio con me, me ne infila uno in un occhio, uno in gola ed uno nelle tempie, avverto tre fitte insopportabili, mi manca il fiato, sento il petto che mi esplode, caccio fuori la lingua perché mi sento soffocare, mi volto verso i miei amici… Trenta intima a Willie di non soffiargli il fumo negli occhi, Willie chiede scusa e si lamenta della scarsa qualità della ganja che gli han venduto, gabbini fecciosi, m’han dato un bidone, impreca. Solo guardando i miei goffi compari impegnati in uno sketch a cui ho fatto l’abitudine m’accorgo che in fin dei conti non sento alcun disturbo, tutte quelle fitte che credo di sentire scompaiono non appena le dubito. Bene, dunque, sono immune al Vudù di arlecchino! Ma i trenta zombie giganti accovacciati ai suoi ordini?<br />Ora, lo ammetto, sento un brivido alle braccia ed avverto una sensazione di fastidio, come uno stimolo doloroso, al pisello. Come se stessi per pisciarmi addosso. Devo essere più pallido del solito, perché quando mi volto Trentalibbre e Willie mi chiedono che ho. Ho visto un fantasma? “No, degli zombie…”, sussurro a singhiozzo. Allora Trenta si solleva e viene alla finestra, e li vede. Ordina a Willie di spegnere tutte le luci, poi và in cucina e mette a bollire tutto l’olio che trova in dispensa. Mi chiede se possiedo delle armi, recupero la mia maledetta katana, una mazza da baseball scheggiata, un set di Miracle Blade –se lo chef Tony ci taglia le lattine, chissà che può fare alle teste di non-morto-, una fionda, ed una pistola di plastica a pallini di gomma con un puntatore laser che sfalsa la mira di almeno 45°. Willy telefona a Claudio Capurso, appuntato dei Carabinieri e nostro amico da sempre, e mi rendo conto che nell’epoca dei telefonini sarebbe inutile comunque tagliare la linea telefonica ad un assediato. Spostiamo i mobili davanti agli ingressi, rovesciamo i tavoli, serriamo le finestre. Sono le quattro meno un quarto. Che aspettano ad attaccare?<br />Trentalibbre, schiena contro il muro accanto alla finestra del soggiorno, rompe il silenzio di questa attesa inquieta con una delle sue riflessioni sofistiche: “In un certo senso, li puoi definire davvero morti viventi. Agli occhi della società, non esistono, sono morti, ma ci sono, sono vivi. Sono presenze, spettri. Sono morti che cercano di vivere, e per avere una vita sono costretti a mangiare vite. Non sono cattivi, sono ferini, uomini che non sono più uomini. Un cane idrofobo lo sopprimi. Per loro esisterebbe un antidoto, ma è più comodo lasciar che la malattia decorra, e nel caso diventi nociva, sopprimere il malato…”<br />Smetto d’ascoltarlo perché avverto un rumore come un presentimento. Sollevo la testa dietro il tavolo rovesciato e butto una fugace occhiata in strada. I miei zombie sono usciti dai loro oscuri nascondigli e si stanno schierando in strada, pronti a stanarci. In mano hanno armi, bastoni e pistole, anomale per dei morti che camminano. Mi viene in mente l’esercito zombie decimato da Napoleone Wilson, sorrido, e lo cito: “Hai da fumare?”, Trenta mi porge una Marlboro media, la accendo, e continuo: “Sono nella condizione in cui ogni giorno è come una bella donna: quando ti accorgi quanto ti è necessario, t’ha già lasciato…”, e mentre concludo incerto che la battuta di Distretto 13 sia proprio così, il fumo mi và di traverso e gli occhi s’impallano.<br />Al semaforo, cinquanta metri più in là, vedo la mia principessina. È una storia un po’ complessa, ma tenterò di sintetizzarla: Gioia, una mia vecchia compagna di corso, di quando facevo finta di andare all’università, c’è sempre stata attrazione, ma ci sono sempre stati altri rapporti di mezzo; appena lei si laurea, si sposa, e comincia la mia fase di rimpianto, ma che cazzo, mi faccio gli affari miei; poi una sera ci incontriamo in una birreria metal di Sesto San Giovanni e ce lo leggiamo in faccia, e mentre suo marito conversa coi miei compagni di bevuta, io le azzardo in un sussurro: “Domenica, a casa mia, fa finta di essere uscita con le tue amiche”, non aggiungo altro, lei non risponde ed io non attendo risposta. Se vorrà, la vedrò arrivare…<br />E porco cazzo è arrivata davvero, ma nel momento più sbagliato opzionabile!<br />Deglutisco rumorosamente, non so più se per il timore dei miei zombi o l’imbarazzo di far incontrare l’oggetto adultero delle mie fantasie erotiche a Trentalibbre e Willie, e prendo una somma decisione: “Chiudete la porta alle mie spalle, io devo scendere in strada!”<br />Mentre mi preparo a fare la mia incursione, indicando, senza dare le spiegazioni che i miei due amici si danno da soli, Gioia in strada, prendo su la mia Maledetta Katana con l’Elsa di Tigre, ed indosso il mio giubbino di pelle, l’Armatura Ronin, come nel miglior cartone animato nipponico ho le mie armi feticcio. Tiro su anche un paio di palle da baseball, che se le lanci fanno male e comunque fanno fare buona impressione con le ragazze se le infili nelle tasche davanti dei jeans. “Sono pronto! Chiudete, se va male mi rifugio in cantina!”, e sgattaiolo fuori. “Buona fortuna, Gatto!”, risuona alle mie spalle.<br />Ripeto, abito in una casa di corte, e funziona come un fortino, scendo le scale lungo i ballatoi e mi ritrovo in cortile, mi dirigo al cancello d’ingresso, è come essere nell’oceano in una gabbia circondata di squali. Non so bene cosa fare, ma apro il cancello pedonale e mi getto in strada a spada sguainata, mollo fendenti a caso verso i senegalesi che mi osservano perplessi, penseranno che sono impazzito, e quando realizzano, mentre corro incontro alla mia mogliettina adultera, ringhiano in coro e mi si lanciano addosso, qualcuno mi spara pure, un proiettile mi fischia vicino vicino, ma due elementi incorrono a salvarmi: il primo, sono Willie e Trenta che da casa mia lanciano sull’esercito Vudù secchiate d’olio bollente, sfollandolo in preda a urla lancinanti; il secondo è quello che io chiamo signor Kafka.<br />Il signor Kafka è un impiegatucolo che abita in via Grazioli, a qualche decina di metri da casa mia. Il signor Kafka soffre di forfora radioattiva, perché magari fa il radiologo a Niguarda, non lo so.Gli acari della polvere di casa sua, nutrendosi di questo particolare tipo di forfora mutante, hanno subito una trasformazione come le Tartarughe Ninja, e si sono ingigantiti. Ogni sera il signor Kafka porta i suoi tre acari, Rambo Commando e Scorpiorosso –infatti Predator e Terminator sono morti sotto un’auto due anni fa- a passeggio ai giardini vicino casa mia. So che la cosa sembra inverosimile, ma io mi rifiuto di pensare che esistano cani così brutti e feroci…<br />Comunque, gli acari atomici o cani deformi che siano del signor Kafka, a pipì nei dintorni col loro padrone, allarmati dalle urla dei negretti che m’assediano impellenti si presentan nella mischia, azzannando con le lor terribili fauci cosce e sederi degli zombie che mi stanno alle calcagna. Abbraccio la mia erofantasia insaporita di peccato e tradimento, la stringo forte a me, spingo con le palle da baseball per dar un’aria di virilità, lei si stringe a me e sente tutta la mia carica premerle contro l’inguine, mi bacia appassionata, io ricambio, mi volto, la tengo per un braccio e la trascino con me al sicuro nel cortile di casa mia, gli artigli ed i proiettili degli zombi ci seguono e cercano di afferrarci e trascinarci con loro all’inferno, ma con la sola forza della libidine riesco ad aprire il cancelletto, penetrare con Gioia nel cortile, salire le scale tenendola in braccio fino al mio appartamento, e tornare al sicuro tra i miei amici. Le sirene delle auto dei Carabinieri intanto si convoglian da ogni dove tutt’attorno all’armata delle tenebre, li sento scaricarsi addosso tonnellate di piombo a ripetizione, e quando guardo giù in strada, a terra solo i corpi dei miei nemici, e tra gli uomini in divisa, Claudio mi guarda, mi sorride e mi fa cenno col pollice che tutto è a posto, siamo salvi, abbiamo vinto. Mi giro, e dico a Trenta e Willie: “Ragazzi, conoscete Gioia, vero, vi prego di lasciarci un po’ d’intimità, sapete, abbiamo molte cose da dirci e credo lei mi si voglia concedere completamente, in ogni orifizio, stanotte e per sempre, quindi, avete mangiato, bevuto, fumato, forza, toglietevi dai coglioni”, e mentre sorrido a questa mia brusca e scherzosa battuta per eliminare il terzo e quarto incomodo dal mio talamo fedifrago, dal corridoio entra in soggiorno una tunica policroma, e dentro di lei un uomo di colore con gli occhi rovesciati all’indietro, lo Sciamano!, mi salta al collo ed affonda le sue zanne nella mia carotide, sbatto la testa contro il termosifone, poi non ricordo più niente.</em><br /></div><div align="justify"> </div><div align="justify"> Appena il Gatto terminò il suo racconto, Lulù inarcò un sopracciglio e rimase a guardarlo, in silenzio. Poi disse: “Gatto?”<br />“Dimmi”<br />“È una cazzata…”<br />“No, giuro, è andata così!”<br />“Ascolta, Lupo, sul Corriere della Nera, ha riportato una versione diversa e molto più verosimile dei fatti…”<br />Lupo era diventato, oltre che ragazzo di Lulù un due o tre volte, giornalista a tempo pieno per un noto quotidiano milanese, ed aveva titolato:<br /><span style="font-size:180%;"><span style="font-size:100%;"><span style="font-size:130%;">Milano: sgominato spaccio e ricettazione in strada: “Prendevamo ordini dai calabresi</span><br /></span>Maxi rissa sfocia in retata antidroga<br /></span><span style="font-size:130%;">17 senegalesi coinvolti nel traffico. Il tutto parte da un litigio, disordini al CSOA Pergola<br /></span>“Ma no, Lulù, è che su un giornale nazionale mica possono dirti che esistono zombi ed acari atomici, c’è un complotto, l’hai visto X-Files, no?, poi sai come sono i giornalisti, no?”<br />“Gatto?”<br />“Eh!”<br />“La tua storia è una cazzata. E tu sei un razzista di merda.”<br />“Perché? Siamo in un bar cinese!”<br />“Perché? Negri qua, negri là, a volte dai il voltastomaco a sentirti parlare!”<br />“Ma vàh, scusa, chiamo le cose col loro nome, no?, sarei razzista a fare attenzione a non chiamarli negri ma far giri di parole tipo ‘di colore’ o ‘nero africano’, in fondo negro è latino…”<br />“Seeh… e poi perché? Speravi di portarmi a letto con le tue fandonie Macho-Ku-Klux-Klan? Non bastava restituirmi il cellulare?”<br />“Ma…”<br />“… che poi magari se fossi stato sincero e meno disgustoso, te l’avrei pure data, ma come al solito, sei tu che rovini tutto… lascia stare, guarda, grazie per il cellulare, e vaffanculo…”Si alzò e scostò la sedia rumorosamente. Uscì senza guardare in faccia nessuno. Gli lasciò solo il conto da pagare.<br />Con il suo deja vù vorticante in testa, il Gatto si accarezzò i punti di sutura sul collo, seccò la birra e si alzò dal tavolino del Green Bar dove aveva invitato Lulù a bere l’aperitivo. La cinese dietro il banco gli chiese, “Vai a letto?”, il Gatto sorrise e rispose, amaro, “Magari… ci andrei con Gioia…”, avvertì una fitta alla nuca ed un vuoto nel cuore, aprì la porta del bar e cedette il passo ad un africano con indosso una tunica colorata ed al collo pendagli con foto b/n ed altri feticci, il nero gli disse “Grazie”, e lui rispose “Niente”, uscì in strada, accese una sigaretta, sollevò il bavero dell’Armatura Ronin e, con la non-morte nel petto, s’avviò verso casa.<br /></div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-170838747336887309.post-49831483362588181372008-06-04T05:53:00.000-07:002008-06-04T06:05:10.469-07:00Grazie a Dio<div align="justify"><em>Racconto pilota: nasce Camporosso. Concepito prima di Milano è un'Arma, completato dopo, si colloca prima dei fatti narrati nel romanzo</em><br /><br />Gennaio: Infanticidio<br />“Buona sera dottor Camporosso”, esordì l’appuntato Gemmi mentre apriva la porta dell’appartamento di via Tracia al suo superiore.<br />“Gemmi, non sono laureato, non sono nessuno, sono qui per raccomandazione solo a prendere la michetta, quindi chiamami Cristiano e facciamola finita…”. Camporosso, ispettore della Polizia Criminale, per caso e per forza, trent’anni in ottanta chili di muscoli rilassati, avvolto per il lungo in uno spolverino blu che pareva raccolto per la strada, era bonario, schietto, ed ancor più sarcastico. Aveva studiato poco e male, s’era costruito una cultura strana tra romanzi all’italiana e film di Castellari, spolverata di fumetti ed altra non-cultura, e dopo dieci anni di squat e centri sociali presi sempre senza impegno, aveva partecipato al concorso per entrare in Polizia come fosse stato quello del Dixan, solo per i soldi e senza vere intenzioni: sta di fatto che il padre della sua fidanzata era poliziotto, e trovandolo tra i nominativi dei risultati non eccelsi, l’aveva spostato tra i primi dieci privilegiati. Gli amici l’avevano preso per il culo fino all’isterismo, quando l’avevano visto in divisa. Ma dopo il primo stipendio, Cristiano non ci fece più caso.<br />Ora Cristiano Camporosso era ispettore, perché non era comunque uomo senza qualità, e la divisa poteva smetterla se non nelle occasioni formali, e per il suo carattere s’era guadagnato l’occhio buono dei subordinati, e quello storto dei superiori. Per questo Gemmi rispose: “Dottor Camporosso, lo sa, è più forte di me…”<br />“Allora non chiamarmi, e dimmi solo che è successo qui.”<br />“Un macello. Il padre ha preso a fucilate i due figli, dieci e cinque anni, e poi s’è sparato in faccia. Nessun sopravvissuto. I cadaveri sono ancora di là, dove li ha trovati la vicina. Vicedomini è andato ad informare l’ex moglie dell’assassino.”<br />“Posso vedere i corpi?”<br />“Certo… si tenga forte, è roba da brivido…”<br />Camporosso entrò nella camera adiacente all’ingresso in silenzio, ed in silenzio si mise a studiare la scena, immobile sulla soglia. Vedeva un uomo, seduto con le spalle alla finestra con la faccia ridotta a poche frattaglie; un bambino di circa dieci anni col petto dilaniato ed una pistola dello spazio intergalattico di plastica in mano, riverso supino un paio di metri di fronte all’uomo; quindi scorse la piccolissima mano vicina al suo piede destro, un altro bimbo, molto più piccolo del primo, sdraiato prono con un braccino portato in avanti, in direzione della porta, la schiena spaccata da quelli che parevano due colpi di piccone, ed invece erano solo due proiettili sparati da un padre disperato. E disgraziato. Si, perché, pensò Camporosso, solo un padre disperato può arrivare a mangiarsi i suoi cuccioli. E comunque, decise, il suo stomaco avrebbe digiunato anche quel giorno.<br />“Sigaretta”, chiese. Gemmi rispose porgendogli un pacchetto intero. Cristiano lo aprì, ne estrasse una, la portò alla bocca e l’accese, sbuffò una abbondante boccata di fumo, restituì il pacchetto a Gemmi, e cominciò: “Qual è la prima versione dei fatti?”<br />“Abbiamo già interrogato la vicina, la signora…”, Gemmi sfogliò un blocco note piccolissimo che teneva nella mano guantata, “… Marchesi.”<br />“E che dice, questa signora Marchesi?”<br />“Allora… alle ore 17 circa avrebbe sentito i bambini correre giù per le scale ed entrare in casa del padre.”<br />“Ce l’hanno un nome, questi bambini?”<br />“Sharon, la bimba di dieci, Dylan, il bimbo di cinque.”<br />“Che nomi del cazzo… ma i genitori erano stranieri?”<br />“Nessuno dei due. La madre si chiama Carmela Zappulla, il padre si chiamava Duilio Zammataro, direi che stanno più a sud di lei, dottore, ma comunque in Italia…”<br />Camporosso sorrise, chinandosi sul corpicino del piccolo Dylan Zammataro: “E quindi?”<br />“Appena entrati, ha sentito tre spari, poi un quarto: è corsa a vedere, la porta dell’appartamento sul pianerottolo era aperta. Quando è entrata ha trovato i corpi così come li vede ora lei.”<br />“Impressioni?”<br />“Io la penso così, dottore: il padre era divorziato, e la madre abitava due piani qui sopra. Era geloso ed ha sparato ai figli per fare uno sfregio all’ex-moglie.”<br />“Plausibile. Dov’è Markic?”<br />“Il dottor Markic dovrebbe arrivare ora assieme al fotografo.”<br />“Bene. Ci metterà un po’, c’è un sacco di traffico. Quando arriva, chiamami. Io vado di sopra dalla madre dei bimbi… c’è Vicedomini, no?”<br />“Già. È salito più di mezz’ora fa…”<br />“A dopo…”<br />Camporosso salì i due piani a piedi: sul pianerottolo aveva incontrato la disponibilità eccessiva della signora Marchesi, che a quanto pareva voleva farsi interrogare di nuovo da lui. Lui, cortesemente, la tranqullizzò elogiandone la chiarezza espositiva della dichiarazione. Due piani più sopra, Vicedomini fumava una sigaretta davanti alla porta della ex-signora Zappulla.<br />“Vicedomini, non riuscirai mai a far l’uccello del malaugurio, eh?”<br />“Oh, buon giorno dottò… io stavo solo… cioè, facendomi coraggio, non so… non so come dirglielo…”<br />“Fammi, un favore, Vicedomini: c’è una signora, giù, la signora Marchesi, vai da lei, fatti offrire un caffè, e cerca di evitare che diffonda la notizia. A far la cornacchia ci penso io.”<br />“I suoi bimbi sono morti. Il suo ex marito li ha presi a fucilate, poi s’è sparato.”<br />“Come, scusi?”<br />“Ho detto, Camporosso, Polizia Criminale: i suoi bimbi sono morti, il suo ex li ha fucilati e s’è sparato pure lui.”<br />“Come?””Ho detto, Camporosso, Polizia, i suoi bimbi sono morti a fucilate…”<br />“Ho capito, ho capito!”<br />Camporosso sentiva l’odore delle persone. E quando la signora Carmen Zappulla gli aveva aperto la porta di casa, il fiuto gli aveva imposto di essere crudo.<br />“Prego, entri…”<br />Carmen Zappulla era una signora oltre i quaranta anche ben tenuta, fresca di tinta nero corvino, pantajazz neri aderenti ed un top di pelo acrilico fucsia con sopra una enorme croce nera a pendaglio dal collo: una attempata adolescente con degli osceni stivali di pitone bianchi col tacco.<br />“Grazie.”<br />“Posso offrirle qualcosa?”<br />“No, grazie, sa, i cadaveri dei bambini ti bloccano lo stomaco…”<br />“Ah…”<br />L’atmosfera effettivamente s’era fatta surreale: in un decadente condominio popolare, in un monolocale scalcinato un padre aveva ammazzato i propri figli; due piani più sopra la madre dei bambini, una versione degradata, volgare ed involontaria di Cindy Lauper, in un’enorme appartamento arredato sicuramente da un navigato progettista d’interni, dalle pareti sobrie ed i mobili smussati agli angoli e varia oggettistica di design in esposizione, accoglieva un poliziotto privo del filtro del tatto che le spiegava come erano morti i suoi bambini.<br />“E quando è successo?”<br />Camporosso guardò delle lancette nere che spuntavano direttamente dal muro, segnavano le 18 e 15: “Circa un’ora e un quarto fa.”<br />“E dove sono?”<br />“A casa di suo marito”, Cristiano estrasse una sigaretta spiegazzata dalla tasca interna dello spolverino.<br />“Ah…”<br />“Dov’era lei un’ora e un quarto fa?”, chiese Camporosso, poi accese la sigaretta.<br />“Ero qui, in casa…”, la Zappulla gli porse un posacenere.<br />“Qualcuno può confermarlo?”<br />“Il mio compagno, l’architetto Santi…”<br />“Ed i bambini?”<br />“I bambini hanno ricevuto una telefonata dal padre, gli ha chiesto di scendere… mi hanno chiesto il permesso ed io ho detto che andavano pure…”<br />“Senza permesso non sarebbero morti. Vuol vederli?”<br />“Certo!”, rispose Carmen Zappulla, d’un tratto sbalenando fuori dal suo stato di ebetismo intellettuale.<br />“Andiamo.”<br />Mentre Camporosso e Carmen Zappulla scendevano le scale, Markic, il dottore della scientifica, ed il fotografo salivano. I quattro si incontrarono davanti la porta di Duilio Zammataro, un povero cristo bastardo che aveva ucciso i figli per far dispetto alla moglie che puttaneggiava con un architetto. Si salutarono, poi entrarono nel monolocale, mentre dietro la porta di fronte la signora Marchesi raccontava a Vicedomini della nuora, Cristina, che aveva sposato anche lei uno di polizia, ma di giù, la trattava come a regina, lei stava a casa, ma da brava ragazza madre di famiglia, non come quella prustituta della moglie di Duilio, che s’era cercata i soldi e credeva di essere tornata bambina lei, e i figli in strada, Cristina no, stirava, lavava, cucinava, tutto benissimo, e Vicedomini pensò che la prossima volta avrebbe fatto l’uccello del malaugurio, piuttosto che andare a prendere caffè e mal di testa da un’altra signora Deodata Marchesi.<br />“Chissà dove vanno i bambini morti ammazzati…”, chiese all’aria sospirando Cristiano, stupendosi di quella sua sciocca ed insensata domanda, mentre la Morte, lì convenuta per adempiere al suo triste e necessario dovere, anche la Morte che se ne stava là invisibile e distratta a fumare tra i cadaveri, ebbe un brivido lungo lo scheletro.<br />“Gemmi, per favore, un’altra sigaretta…”<br />“Prego, dottor Camporosso!”<br />Cristiano accese la sigaretta, poi chiese a Markic: “Allora?”<br />“Che cazzo m’avete chiamato a fare, si vede ad occhio nudo, quello senza faccia ha sparato ai due bambini, li ha fatti fuori sul colpo e poi s’è fucilato. Ora del decesso, un’ora e mezza fa. Porca puttana, un’ora in macchina per un lavoro di venti secondi!”<br />“Sei pagato anche tu per questo. Faccio entrare la madre…”<br />Cristiano spinse la porta della stanza e chiamò la ex signora Zammataro: quella scattò dentro, ed anzi, ancor prima di essere entrata nel locale, cominciò a strillare, fortissimo, sfrenatamente, agitando la testa e strappandosi la chioma tinta con le mani. Gemmi e Markic la raccolsero da terra, inginocchiata, e la riaccompagnarono sul pianerottolo, poi su fino in casa. Cercarono di calmarla, ma le sue grida attirarono comunque l’attenzione di tutto il palazzo. Decine di persone affluirono sulle scale. Cristiano buttò il mozzicone in terra, lo calpestò, e bussò a casa Marchesi. Disse a Vicedomini di far pure portare via i cadaveri, e poi raggiungerlo in macchina. Aveva parcheggiato proprio di fronte al cancello di quel palazzo di via Tracia.<br />Cristiano aveva una Fiat Uno d’antiquariato, nel senso che ormai la carrozzeria era metallo fossile. La usava come ufficio mobile quando si muoveva, e comunque, di solito, amava trascorrere la domenica in casa, ed il resto della settimana chiuso nella macchina parcheggiata da qualche parte. Ora stava lì, seduto al posto di guida, dopo aver comprato le sigarette sottobanco al bar di via Paravia insieme ad un caffè, e fumava meditando, coi finestrini chiusi, mentre a Milano pioveva una sera di gennaio. Faceva un freddo cane.<br />Duilio Zammataro aveva ucciso i figli a fucilate. Carmen Zappulla aveva accolto la Polizia allo stesso modo in cui i liberi professionisti accolgono la Guardia di Finanza. Con diffidenza, fino a nascondere il dolore; se anche ce n’era. Non c’erano dubbi su chi fosse l’assassino: ma Cristiano aveva dei dubbi su chi fossero le vittime, e sul motivo di tale macello. E prima di archiviare il caso, voleva delineare al meglio la forma di questi dubbi.<br />Vicedomini scese in strada appena prima che arrivasse l’ambulanza con le sirene a morto. Ascoltò qualcosa da Cristiano, quindi l’ispettore avviò il motore e partì, mentre il giovane poliziotto lo salutava accondiscendendo a qualche richiesta. E quando le due ambulanze portarono via i tre cadaveri, uno per ogni misura, in strada rimase una pantera, con dentro due giovani poliziotti, Vicedomini e Gemmi, a mangiare un McBacon ed un McFish, bevendo Coca Cola sgasata sotto la fredda pioggia di micropolveri ed acqua gelida di Milano.<br />Cristiano Camporosso tornava in ufficio dopo un pomeriggio movimentato, con in una mano un pacchetto di Diana Blu, nell’altra un sacchetto di plastica da cui veniva odore di falafel e kebab e spuntavano una bottiglia di Mecca Cola con, nascosta in un tovagliolo, una Moretti da 66. Era stanco, nauseato, ed affamato. Salutò alcuni colleghi, e si infilò nel suo stanzino, a cenare con la scusa di redigere il rapporto del delitto di via Tracia. Il kebab con le patate fritte sopravvisse ancora un paio di minuti, poi fu la volta del panino di falafel, quindi accese una sigaretta e stappò la birra Moretti con l’accendino. Accese il computer. Cliccò due volte sull’icona di Double Dragon II, e si mise a giochicchiare, con la sigaretta in bocca ed il fumo negli occhi. Pensava.<br />Furono Vicedomini e Gemmi a distoglierlo dal punk vestito di rosso. Camporosso pigiò immediatamente il tasto ESC lasciando sul monitor la schermata di Word. Accese una sigaretta, diede un sorso di birra, si alzò in piedi e chiese ai due poliziotti sull’attenti, bagnati: “Allora?”<br />“Allora solo freddo, dottore…”, rispose Gemmi, prendendo la sigaretta che gli porgeva Cristiano.<br />“Dunque l’architetto, uscito secondo le testimonianze del portiere del palazzo circa cinque minuti prima che arrivasse la Polizia, non è tornato a casa, perlomeno per cena. Ma se avessero ammazzato i figli di tua moglie, Vicedomini, tu ti tratterresti al lavoro?”<br />“Non credo proprio”, rispose accendendo la sigaretta offertagli dal suo giovane superiore.<br />“Appunto. Avete scoperto intanto dove sia lo studio di questo Santi?”<br />“Qualcuno ha detto in Bovisa, forse è professore…”, rispose Gemmi, che da quando aveva acceso la sigaretta aveva perso la marzialità dell’attenti.<br />“Benissimo, domattina andiamo a trovarlo, Vicedomini, raccogli informazioni. Io nutro una convinzione, più che altro un dubbio che è una convinzione: Zammataro è un assassino, spietato, ma folle e disperato. Sono convinto che qualcosa o qualcuno l’ha portato all’estrema decisione di ammazzare i figli. Ora, se io fossi disperato, non verrei a lavorare, come ha fatto Zammataro. Starei chiuso in casa a tracannare Jack Daniel’s, a fumare MS, forse andrei anche a puttane, ma cercherei di problematicizzare ulteriormente la mia esistenza, per distruggermi e farmi schifo. Quando ti fai schifo, e solo allora, puoi ucciderti. A meno che tu non lo faccia per fuggire. L’omicidio si compie per rabbia, calda o fredda; il suicidio per disperato odio verso sé stessi, o per paura del futuro… sedetevi pure, ragazzi… insomma. Semplicemente, io so chi ha ammazzato i bambini, e probabilmente so anche perché. Ma così, a pelle, è tutta questione di pelle, come direbbe Lino Banfi, la Zappulla mi sta sulle palle e sento, così, intuito, che non me la racconta giusta. So che probabilmente perderemo tempo e basta, ma per le prossime 72 ore voglio concentrarmi su quella troia sfatta, sul compagno laureato, e capire perché uno spazzino di 42 anni con la passione della caccia, unico sfogo alle tensioni familiari, prende e ammazza i figli. Ecco tutto.” Prese la Moretti e sorseggiò, dunque accese un’altra sigaretta, e si risedette dietro la scrivania. “Domani, io ed un amico andiamo a parlare con l’architetto. Tu, Gemmi, insieme a Vicedomini, ti fai di nuovo un giretto in via Tracia, in borghese, vai al bar di via Paravia, a quello di piazza Selinunte, ascolti, prendila come una vacanza, ma senti che dice la gente. San Siro è come un paesello, anche se ormai è terra magrebina. Vedrai che qualche notizia interessante viene fuori…”<br />Gemmi e Vicedomini conoscevano la sporadica logorrea di Cristiano, per questo si erano seduti ancor prima del suo invito. Nonostante questo, ascoltarono le istruzioni con attenzione. Si fidavano ciecamente del dottor Camporosso. Come Camporosso si fidava di Lo Russo Felice, un mastino pugliese alto un metro e sessanta, per 103 chilogrammi di potenza macinatoria nelle braccia e nelle mani.<br />“Buongiorno, lei è il dottor Santi?”<br />“Chi desidera saperlo?”<br />“Camporosso, Polizia. Potremmo farle qualche domanda?”<br />“Ma anche lui è poliziotto?”<br />“Certo, perché?”<br />“Perché già lei è poco credibile, si figuri questo tipo qui…”<br />Al Pugile prudevano già le mani. Avevano aspettato circa un’ora l’architetto in strada sotto il suo studio, ed a gennaio è una pessima esperienza. La Bovisa stava diventando una piccola Islamabad, le strade erano sempre più lerce, e devastate, cantieri stavano abbattendo ogni vecchia testimonianza dell’antica dignità industriale della zona. Dove stava il saponificio c’erano stati prima gli zingari, i rumeni, gli albanotti, poi la giunta era stanca delle lamentele e aveva deciso di sfondare i soffitti e lasciarli senza un tetto. Ma i parassiti trovano ovunque dove attecchire, sicché s’era risolto tutto in una inutile cattiveria, che non aveva né ripulito la città né salvati gli indigenti. Fosse stato per il Pugile al posto dei bulldozer avrebbe usato il lanciafiamme, stava di fatto che Milano tossiva sempre più malata di tifo e feccia. E quel giorno faceva pure un freddo del cazzo, aggiunse.<br />Come se non fosse bastato, s’era aggiunto quel viscido architettucolo con la puzza sotto il naso e la saccenza da dittatore nordcoreano. Li fece salire nel suo lussuoso studio, li fece accomodare come fossero stati clochard alla mensa dei poveretti, offrì loro un caffè in tondeggianti tazzone design e si mise a giocare a biliardo, nello studio teneva un biliardo, a casa di Camporosso il soggiorno era più piccolo del panno verde. Lo aiutava a rilassarsi, disse.<br />Cristiano lo osservò: non tradiva alcun tipo di preoccupazione, sostenendo un’aria di superiorità che metteva a disagio, con i suoi vestiti da architetto, il solito dolcevita coi soliti calzoni alla carrettiera, nero e marrone, gli architetti si vestono sempre a metà tra un carpentiere omosessuale ed uno stilista a cui hanno scippato il buon gusto dieci minuti prima.<br />“Sa dirmi dov’era ieri sera mentre i piccoli Dylan e Sharon venivano fucilati?”, chiese Cristiano.<br />“Ero in casa con mia moglie. A quanto ho capito sono uscito poco prima che accadesse tutto…”, rispose tranquillo Santi infilando la prima palla in buca.<br />“Beh, ad essere sinceri a noi è stato detto che lei sarebbe uscito poco prima dell’arrivo della Polizia…”<br />“Forse siete stati celeri, per una volta”, ridacchiò l’architetto puntando gli occhi in quelli dell’ispettore, “Sarete stati tanto tempestivi che sul piano della percezione prima dell’accaduto e prima del vostro intervento hanno coinciso, dottor…?”<br />“Camporosso, ma senza titolo, semplicemente ispettore”, Cristiano si morse la lingua, e sentendo la biglia decisa centrare la buca e finire in deposito, comprese di essere caduto nella trappola. Era furbo, l’architetto.<br />“Ah, non è laureato?”<br />“No, non è necessario per essere ispettori”, bravo babbo, si insultò Camporosso. Vedeva la tela intessuta da Sarti e ci si invischiava sempre più.<br />“Ma ha studiato, però, parla correttamente l’italiano… sa, io ho una certa passione per la lingua e la letteratura”, terza palla in buca.<br />“Io no, ho solo una certa familiarità con gli stronzi…”, bravo Cristiano, disse il tenente Colombo, grosso come un puffo, appollaiato sulla sua spalla destra, sei cascato nel tranello elementare dell’esperto di una scienza il cui massimo esponente si chiama renzo piano, tutto questo denota l’astuzia del detective.<br />“Cosa vorrebbe insinuare?”<br />“Come? Niente, niente. Senta, non ho molto tempo…”<br />“Ed io ne ho meno di lei, ispettore”, lo interruppe Sarti rimarcando il grado di Cristiano.<br />“Appunto. Com’erano i rapporti con lo Zammataro?”<br />“Era un poveretto, incolto, uomo ignorante e di fatica come una bestia da soma. Un disgraziato. Non aveva niente da dire e niente da dare. Spesso sono i gradini inferiori dell’evoluzione a macchiarsi delle più turpi crudeltà, una legge di natura”<br />“La natura può essere crudele, cruda, cinica, ma è sempre logica. Zammataro ha compiuto un gesto illogico. Ci hanno detto che amava i suoi figli, che li riempiva di regali”<br />“Certo, ma era geloso che Carmen si fosse ricostruita una vita, era in continua competizione con me, per questo dilapidava tutto lo stipendio in quelle sciocche cianfrusaglie da poche lire che comprava per i figli. Ciarpame acquistato al mercato, mentre io potevo dare loro tutto ciò che desiderassero. Lui non lo capiva, voleva indietro la sua famiglia, senza capire che averla persa era soltanto colpa sua, della sua inettitudine, della sua mediocrità”<br />“Ha una gran considerazione del povero Duilio, vedo”, disse Cristiano alzandosi in piedi, “Ma ne parla con scherno, con biasimo, senza rancore, senza l’odio che dovrebbe provare per chi ha ucciso i suoi figliocci. Lei è freddo, distaccato, tradisce quasi soddisfazione”<br />“Ma come si permette?”, s’indignò Santi.<br />Cristiano accese una sigaretta, una Diana Blu, e fece cenno al Pugile di venir via: “La ringrazio, dottor Santi…”<br />Il Pugile soffiò vapore furioso dal naso taurino: “Sai che penso, Campo? Penso che sia stato questo figlio di puttana a sparare ai bambini e pure al padre!”<br />“No, ti sbagli. È troppo intelligente per una cosa del genere. Come i veri figli di puttana deve essere stato sottile. Molto sottile. Però è colpa sua.”<br />“Hai qualche piano? Per incastrarlo?”<br />“E per chi cazzo m’hai preso, per il tenente Colombo? Questo ci ha fottuti tutti: la passerà liscia, se non ci sono testimoni, e comunque al massimo la passa liscia poi in tribunale. Il mondo e la burocrazia giudiziaria stanno coi figli di puttana…”<br />“Vaffanculo”, sbuffò col naso il Pugile, come i buoi che avevano dato il nome alla zona, Bovisa da boves, che non era latino ma milanese, e Felice Lo Russo non capiva niente del primo e meno del secondo, al massimo in Bovisa cercava le vacche, quelle umane, ma a suo avviso era solo una zona affollata da porci arabi e spocchiosi universitari del cazzo, con le loro troie a panza di fuori e la riga del culo in bella mostra, che bella umanità di merda, ed il suo amico pulotto lo tirava su ammettendo la realtà, che nessuno paga mai, che gli stronzi cadono sempre sul culo, che puoi ammazzare un bambino e filarla liscia e nessuno ti potrà mai dire niente, mica come ai tempi di Toni Ganassa, quando i pedofili in carcere li prendevano a sgabellate sulla testa e sulla schiena, senza preoccuparsi di non ammazzarli, anzi. “Oh, mi hai fatto girare le palle, andiamo a scroccare da bere al Gatto, già che siam qui, non dire di no”<br />Dalla Bovisa a casa del Gatto in Affori a piedi ci volevano cinque minuti, in macchina un quarto d’ora di sensi unici, semafori e carrozze di latta incolonnate. Il Gatto se ne stava a casa a curar la bronchite, causata dal freddo, secondo lui, provocata dalle troppe sigarette a detta dei suoi polmoni. Accolse i suoi amici interdetto, a petto nudo svelando la sua impressionante magrezza ricucita da centinaia di punti di sutura, la maggior parte dei quali monito alla sua ed altrui sciocchezza. L’appartamento della casa di ringhiera era un disastro: all’esterno fatiscente, all’interno dominato da un disordine dissennato, libri e fumetti ovunque, una pila di compact disc instabile e più alta del tavolo. Il soggiorno era arredato da una libreria strabordante, una cristalliera colma di robacce, il tavolo da pranzo, un divano, due poltrone; una finestra a balconcino senza persiane illuminava la stanza anche di notte tramite un lampione appeso a pochi metri dall’apertura. Tale arredamento si sarebbe potuto scorgere se non fosse scomparso sotto le tonnellate di alimenti per la fantasia che il Gatto possedeva e lasciava in giro. L’unico spiazzo libero sul pavimento era coperto da un tappeto con sopra accartocciata una coperta di lana ed una chitarra senza corde.<br />“E c’hai la bronchite e te ne vai in giro a petto nudo?”, lo rimproverò il Pugile sfilando il cappello di lana dalla testa, “E poi c’è un nebbione di fumo di sigaretta, grazie al cazzo che non guarisci se continui a fumare, babbo!”<br />Il Gatto rispose imbarazzato: “No, ma adesso sto bene, sono in convalescenza ma sono guarito…”<br />Sedettero dove poterono ed il Gatto stappò tre birre Moretti, dopo essersi infilato una maglietta nera con sopra disegnato un braccio mozzato che spruzzava sangue stringendo ancora salda l’elsa di una spada. Camporosso raccontò la storia brutta di Zammataro e dei bambini, interrotto metodicamente dagli imprechi del Pugile. Il Gatto ascoltò distratto, poi più per riflesso condizionato che per aver capito davvero qualcosa chiese: “E tu come la vedi, Campo?”<br />“Io”, disse Camporosso, “Sono convinto che l’architetto e l’ex moglie abbiano indotto Zammataro a compiere la strage, magari sottoponendolo a qualche forma di tortura psicologica…”<br />“E come pensi di provarlo?”, temporeggiò il Gatto.<br />“Non posso provarlo. Non posso né accusarli né arrestarli. L’unica prova che ho, che poi una prova non è, è chè dai tabulati della Telecom risulta una chiamata della Zappulla allo Zammataro intorno all’ora della strage… ma non ho niente di concreto in mano. Me la vedo già la troia che telefona all’ex marito mentre se lo fa piazzare in culo dall’architetto ansimando, umiliandolo, spingendolo a cercar vendetta sparando ai figli. E quel povero cristo coglione prende la carabina e spara ai figli e poi s’ammazza. E vaffanculo…”<br />“Fantapornografia”, commentò il Gatto dubbioso ma credendoci un poco. Poi sbiancò.<br />Una voce di donna, all’improvviso.<br />“I bambini non si toccano”, rabbiosa, solenne. Lulù, con gli occhi lucidi ed i denti stretti comparve dall’ingresso in soggiorno, il caschetto nero di capelli bagnati tirato all’indietro, addosso solo l’accappatoio di Capitan America. Si voltarono tutti e tre a guardarla, quella bambina che in realtà era una donna, non alta ma attraente, infantile, d’una bellezza che forse non poteva essere oggettiva ma indubbiamente era la più adatta possibile, la più complementare, alla personalità del Gatto.<br />Solo a quell’epifania Camporosso scorse sul tappeto, accartocciati con la coperta, uno slippino fucsia, una gonnellina scozzese, delle calze di nylon ed un reggiseno anch’esso fucsia non generoso ma ammiccante.<br />Lulù ebbe un brivido, mentre il Gatto arrossiva ed il Pugile veniva fatto preda da un mutismo assoluto dovuto al colpo di tosse di Cristiano che gli aveva fatto notare l’intimo sul tappeto. La bimba ferita chiese, perdendo una lacrima, “Che pensi di fare, Cristiano?”<br />“Io non penso di far niente. Ci pensi Dio…”<br />Dio, che aveva trascorso l’ultima mezz’ora nascosto in bagno a sbirciare le abluzioni sensuali di Lulù, sentendosi nominare si vergognò come a loro tempo avevano fatto Adamo ed Eva, e senza rifletterci troppo sopra esclamò, “Ci penso io”, e scomparve, lasciando intendere che quella voce fosse stato lo sciacquone azionatosi per vita propria.<br />Lulù si vestì con degli abiti del Gatto, senza reggiseno e con dei boxer da uomo, per evitar di recuperare il suo intimo sul tappeto in presenza di Cristiano e del Pugile. Con la mimetica e la felpa nera –gli indumenti più sobri che avesse reperito tra gli stracci del felino- sembrava un tredicenne androgino più che una ragazza. Salutò sommessamente ed uscì trafelata, per andare a scuola, disse.<br />La curiosità, si sa, è femmina, e così il Pugile giustificò la sua domanda rivolta al Gatto: “A scuola? Ma quanti anni c’ha?”<br />“Ventidue. Tutte le mie ragazze hanno meno di ventidue anni. A ventidue di solito mi lasciano, dura lex sed lex…”, rispose amaro il Gatto.<br />“Appunto, non vi siete lasciati mesi fa?”, intervenne Camporosso.<br />“Si”<br />“Vi siete rimessi insieme?”<br />“No”<br />“E allora che cazzo ci faceva qui, Lulù?”<br />“Passava…”<br />“E si faceva una doccia di passaggio?”<br />“A casa sua hanno la caldaia rotta…”, si poteva sentire lo stridore delle unghie del Gatto appigliate con tutta la loro forza a tutti i vetri del suo reame.<br />“E si doveva spogliare in soggiorno, per fare la doccia?”, insistette Cristiano sollevando gli slippini fucsia filatelici rinvenuti sul tappeto.<br />“E fatti un po’ i cazzi tuoi, Campo”, troncò il Gatto, alzandosi ad occhi bassi e tutto rosso per recuperare un altro giro di Moretti.<br />Vicedomini si fiondò nell’ufficio dell’ispettore Cristiano Camporosso, un paio d’ore dopo, svegliandolo dal suo torpore alcolico: “Mi scusi, dottò!”<br />Cristiano cerco di capire dove fosse ora che aveva ripreso coscienza, “Non c’è problema, Vicedomini, che c’è?”<br />“Una voce che abbiamo sentito al bar, io e Gemmi, oggi.”<br />“Che voce?”<br />“Per i bambini ammazzati, dottò… l’architetto, lì, il nuovo marito della madre… fessava di continuo il padre…”<br />“Fessava? Che vuol dire fessava, Vicedomini?”<br />“Che lo torturava, tipo… lo umiliava… non lo so, me l’ha detto Gemmi…”<br />“Vessava. Deve aver detto vessava. Comunque, continua, Vicedomini”, spronò Camporosso, chiedendosi che diavolo di cognome fosse quello.<br />“E comunque l’architetto, lì, diceva sempre a quell’altro che se teneva le palle doveva portare via i bambini, ma no portarli via che poi se li andava a riprendere, proprio ammazzarle, le creature, doveva spararle, che così faceva capire alla moglie che era un uomo…”<br />“Capisco”, Cristiano era compiaciuto delle sue intuizioni e disgustato dall’aver avuto ragione, mentre un rutto acido di baffi Moretti gli tornava sotto al naso, “Scusa… e qualcuno ha testimoniato?”<br />“Nessuno è disposto a farlo, perché so’ solo chiacchiere, e le chiacchiere fann’e’ppiruocchie, dottò… e poi lo sapete, sono case popolari, arabi e meridionali, lì lo sbirro non lo vuol fare nessuno, è pieno di omerdosi, come si dice…”<br />“No, no, è giusto, merdosi. Merdosi omertosi…”<br />“E allora, che putimme fa, dottò?”<br />“Tu puoi darti una calmata, e smettere di parlare in dialetto”, che Vicedomini aveva bisogno di molta calma per l’italiano, mentre l’agitazione era dialettale, “E noi non facciamo niente, senza testimoni. La Polizia ha le mani legate…”<br />“Speriamo in Dio, dottò…”<br />“No, speriamo negli uomini”, concluse Cristiano, con un bagliore crudo negli occhi.<br />L’architetto Santi parcheggiò in strada, la solita notte popolata di arabi del quartiere San Siro, e nel cortile buio del supercondominio dove abitava la nuova compagna, in attesa che la sua villetta a Paderno Dugnano fosse rifinita, ebbe una sensazione, ovattata: un bambino gli sparò con una pistola dello spazio intergalattico. Per un attimo la notte inghiottì il respiro di Santi, poi riconobbe il piccolo marocchino, e ringhiò: “Vaffanculo, mohammed di merda!”<br />Il Pugile e l’Ispettore stavano cenando a casa del Gatto, il quale manifestava una certa ansia di sbolognarli fuori. Mangiavano kebab e pizza, mentre Cristiano spiegava di voler prendere in disparte l’architetto, farlo coricare di mazzate da Felice Lo Russo e costringerlo a confessare sotto minaccia: probabilmente non avrebbe pagato comunque, ma almeno la soddisfazione di rompergli la faccia…<br />Il Pugile si mostrò entusiasta e deciso, e fissarono il tutto per la notte stessa. Il Gatto non li avrebbe seguiti, si disse debilitato dalla lunga degenza, e la sua convalescenza comparve sulla porta in minigonna a pieghe, calze autoreggenti, camicetta sbottonata sotto un cappotto rosso Benetton: aveva la faccia sana e sorridente di Lulù, la convalescenza, un sorriso sincero e pulito, ammiccante al peccato solo nel colore del rossetto. Cristiano e Felice lanciarono al Gatto un’occhiata dubbiosa se deriderlo o mandarlo a cagare.<br />Santi salì le scale, che nelle case popolari non c’è l’ascensore, e notò che ai suoi passi facevano eco quelli delle corse su e giù di alcuni bambini. Ma non una voce, non uno strillo, solo il rumore di quelle corse singhiozzate per la tromba delle scale. Bussò alla porta di Carmela Zappulla, e quando imprecò che nessuno veniva ad aprirgli, si rese conto di aver bussato alla porta di Duilio Zammataro. Rabbrividì.<br />Inquieto, salì le scale ancora, il suono di mille organetti hammond sintetici lo assordava acuto ritmato da quei passetti.<br />Carmela aprì, e non era la donna che aveva scopato fino a quella mattina. Il viso scavato, i capelli in disordine, scalza, con indosso una tuta coperta da pallini di lanugine. Non era più una Milf. Era una madre che s’era resa conto d’aver fatto ammazzare il frutto del proprio grembo. Santi la guardò, irrequieto ed ancora spaventato, ma prima di preoccuparsi per Carmela, si rammaricò che quella sera non avrebbe chiavato. Poco male, coi brutti pensieri che aveva avuto e quel freddo polare non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di tirarlo su dritto.<br />“Che c’è?”, chiese con una sicurezza incrinata da qualcosa.<br />“Ti rendi conto? Ti rendi conto che abbiamo ucciso i figli miei? Ti rendi conto?”, ed esplose in lacrime.<br />“Li ha ammazzati quel coglione di tuo marito, i tuoi figli!”, sbottò Santi, “E ci ha fatto un favore, a tutti e due, io non voglio figli miei, figurati i figli suoi!”<br />“Oddio, aggia accise glie figlie mie…”<br />“E sta’ zitta, Cristo! O vuoi che ti butti giù dal balcone?”<br />Poteva sembrare una frase detta così per dire nel trasporto dell’ira. Ma Carmela comprese, qualcosa nella voce, qualcosa negli occhi, che quell’uomo non stava parlando a vanvera, così per dire. L’avrebbe gettata seriamente dal balcone, ed avrebbe testimoniato che s’era suicidata per il dolore della perdita dei figli. L’avrebbe passata liscia, ora che le aveva rovinata la vita, al primo rimorso l’avrebbe annullata, per sempre.<br />“Sai, amore”, cercò di calmarsi Carmela, “Ho visto Dylan, prima”<br />“Che?”<br />“Dylan. Nella sua cameretta. Con Sharon…”<br />“Tu sei pazza!”<br />La tazza del cesso gorgogliava. Feti cagati nelle fogne, neonati incastrati nei cassonetti, poppanti strangolati, bimbetti stuprati e sgozzati, in fila, riemersero dalle acque putride del water closet. Le loro carni erano putrescenti, i loro aliti non acidi di latte ma di ratti e rifiuti. Rifiuti! Ecco cosa erano, o perlomeno cosa erano stati. Squittivano rosicchiando la porta del bagno, rotolarono fuori e si arrampicarono sulle pareti del corridoio, fin nella luttuosa cameretta di Dylan e Sharon. Là Dylan e Sharon giocavano, lei con un’imitazione di Barbie, lui sparando a quegli invasori alieni con la sua pistola dello spazio intergalattico.<br />Il branco di morticini fissava idrofobo Carmela e Santi che attraversavano il corridoio: “Ti dico che li ho visti, guarda anche tu!”, insisteva Carmela.<br />Santi infilò la testa nella cameretta dei suoi figliastri, accese la luce dell’interruttore, ma la lampadina lampeggiò tre volte e si fulminò. Con una lama di luce infiltrata dal corridoio, Santi entrò nella stanza e, nonostante la sensazione di essere al banco d’accusa in un tribunale sovraffollato, appurò che nessuno era lì. Fu quando Dylan lo mirò in fronte con un raggio fotonico che Carmela lo colpì, alla nuca.<br />Santi non capì, e non avrebbe mai capito, cosa lo avesse colpito e lo avrebbe ammazzato. I morticini incitavano Carmela, Dylan e Sharon si sollevarono in piedi, a guardar silenziosi l’esecuzione ormai sentenziata. Carmela, con le forbici recuperate poco prima in corridoio di fianco al telefono, colpì di nuovo il suo nuovo compagno, al collo, ed ancora, ed ancora, finchè la testa di Santi non si disfò in colate di materia cerebrale tra fiotti di sangue.<br />Il primo colpo, la paura. Il secondo, di terrore. Il terzo, ormai è fatta, al quarto, indietro non si torna. Il quinto, la vendetta, il sesto di rimorso, sette colpi fatti d’ansia, otto colpi di nervoso. Al nono, poi, aveva smesso di contarli.<br />Quando Santi smise di avere qualsiasi tipo di reazione, i morticini, che avevano strillato garrito squittito furiosi ed eccitati come babbuini, si quietarono: raccolsero l’anima dell’architetto e quella di Carmela, ormai condannata, strappandole dai loro corpi vuoti, e zampettarono in fila, seguiti dagli spettri spaesati di Sharon e Dylan, coi loro trofei fino alla tazza del cesso, per trascinarli ai loro inferi e divorarli.<br />Ecco che fine fanno i bambini quando muoiono ammazzati.<br />Camporosso parcheggiò in via Zamagna, scesero dalla sua Uno antiproiettili lui ed il Pugile, percorsero via Tracia di fretta a capo chino, decisi. L’ispettore si sarebbe giocato il tesserino, ma era troppo convinto d’avere ragione, di essere nel giusto, contava su questo, e solo per questo azzardava l’azione.<br />Al citofono non rispose nessuno. Cristiano pensò, sono usciti a festeggiare, e pigiò il pulsante Marchesi risoluto ad aspettare Santi e Carmela sul pianerottolo. Salirono le scale, Camporosso faceva strada. Giunti al piano, per uno strano riflesso, girarono la maniglia e la porta di casa Zappulla si aprì: le luci accese erano smorte, ed in fondo al corridoio Cristiano ebbe la strana impressione di scorgere una fila di gremlins ridacchiare zompettando via veloci.<br />Cristiano s’era salvato il tesserino: trovò Carmela Zappulla in stato confusionale davanti al cadavere dalla testa maciullata dell’architetto Santi. Forse Santi gli fece meno ribrezzo in quel momento che non nel suo studio. Carmela non parlava e non si muoveva. L’ispettore Cristiano Camporosso avrebbe archiviato il caso Zammataro come strage immotivata, avrebbe mandato la Zappulla in un ospedale psichiatrico, ma non avrebbe mai risolto i due casi, non avrebbe mai avuto una risposta definitiva su quella serie di vite interrotte, sui perché, su che fine fanno i bambini morti ammazzati.<br />Grazie a Dio.</div>ghallonzroninhttp://www.blogger.com/profile/05009100734308969180noreply@blogger.com0