In occasione della nascita dell'Inadeguabile e del Movimento Culturale che ne concapita, eccovi in omaggio internautico il primo tentativo di romanzo di francesco gallone. Non dimenticate, però, di passare da qui: http://www.inadeguabili.blogspot.com/
D
Ed un giorno, lui morì. La guardò un’ultima volta, sorrise rassegnazione carezzandole il volto bagnato di sale, e si spense, così, una sera tranquilla d’un crudele novembre, il silenzio assoluto nelle Strade Notturne della Grande Città, nel cielo sereno di stelle ghiacciate, bagnato dalle lacrime calde di lei. Lei, lì di fianco al suo esile corpo divorato dal male, stette immobile, silente, svuotando il dolore con le lacrime, cercando di ridare al suo petto calore col proprio, stringendolo. Fu così che accadde. Sollevò la schiena, guardò di nuovo negli occhi il suo uomo, e creò il sortilegio. Capì immediatamente cos’era successo, lo comprese, non lo accettò, ma sostenne, L’ultimo bacio, un bacio di addio, una promessa fedele e leale, le sue labbra calde incontrarono quelle fredde di lui; lei diede a lui tutto l’amore. Lui diede a lei tutta la morte.
Ad Ystad, tra cinque anni…
R
Lo faceva incazzare. Che il dolore è sempre infinitesimamente più lieve del mortale, non c’è dolore che uccida, solo dolori logoranti, solo sofferenza. E questo è ingiusto. È ingiusto, toglie senso e valore ai gesti ed alle persone, crea un dolore più cinico e cosciente, che alla fine nulla è tanto importante da ucciderci. Nel bene, e nel male. Credeva.
Il Ringhio era tutto un nervo. Esile, sottile, un corpo essenziale, appena appena per vivere, non un grammo di più, un corpo che mostrava tutto ciò che aveva di dentro, espressivo. Il volto, a vent’anni, scavato come quello dei saggi o dei vecchi viaggiatori, fiero, severo, gravato di chissà quale peso. Una qualche orgogliosa rabbia scaturiva dalla sua gola con la voce, la voce di chi non dà ordini, ma neanche ne prende. Un cane randagio. Un gran bastardo, secondo molti, meglio d’un fratello, secondo quelli del suo branco. Ma adesso, il suo branco, chissà dov’era.
Ad Ystad, tra cinque anni.
S
Come ogni mattina, prese mezzo caffè. Strinse attorno al collo il cappio della cravatta, chiuse le manette dei polsini, la cintura come un guinzaglio, e la divisa, quella per farsi riconoscere, uguale a tutti gli altri, per non essere diverso, né peggiore né migliore, né penoso né inviso, dignitosa, di quella dignità che ogni lupo perde in cattività. Come ogni mattina uscì dal palazzo, come ogni mattina attraversò al semaforo, come ogni mattina si fermò a prendere il giornale, per trovare frasi già pronte da dire. Ma quella mattina, invece di voltare a destra all’incrocio grande proseguì dritto. E cominciò un nuovo viaggio.
L’Uomo con la Cravatta proseguì dritto per una decina di minuti, sovrappensiero. Diede un occhiata all’orologio, parte della divisa, s’accorse di essere in ritardo, ma non ricordava per cosa. Pensò che avrebbe dovuto avvertire qualcuno, l’ufficio, ecco, doveva andare al lavoro in ufficio, però ora non ricordava il numero. E s’accorse anche di non volerlo ricordare. Erano quasi cinque anni, ormai, che ogni mattina, escluso sabato e domenica, arrivava puntuale al lavoro, e per la prima volta si interrogò sul perché si comportasse così, su cosa lo spingesse a vivere quella vita non vita. Con bufere di dubbi nella testa, proseguiva dritto, l’Uomo Senza Più Cravatta, l’aveva tolta, gli dava fastidio, stringeva, legava, e dopo un paio d’ore di cammino in mezzo al traffico dell’ora di punta nel Mattino della Grande Città, entrò nell’androne di un vecchio palazzo fatiscente, un palazzo che lui sembrava conoscere, salì delle scale e bussò ad una porta. “Chi è?”, chiese il Ringhio dopo qualche secondo. “Sono di nuovo io…”, rispose l’Uomo.
W
loro lo so pensano io sia un idiota……………………………lo pensano non me lo dicono ma lo pensano……………..so che lo pensano……………………………………..lo pensano………………………
…………………lo capisco da come mi guardano…………….come mi parlano …………………….cosa mi dicono………………………………………………….loro pensano io sia un idiota perché……………….
………………….in fondo lo sono…………………………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………………………………………..ho cercato
……………………………………………ho cercato di risolvere………………………………nell’unico modo possibile…………………………………..ho cercato di chiudermi nel mio guscio……………………come il pulcino al museo di stoccolma……………………………ma loro il mio guscio lo forano…….lo violano
………………………..continuano a parlarmi…………………….a chiamarmi………………………………..
….io starei bene da solo nel mio guscio…………………..sono inadatto alla vita………………….perché loro pensano io sia un idiota………………………………………………………………..ed in fondo lo sono
………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..
Ad Ystad, tra cinque anni.
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Camminava osservando gli stivali rossi scivolare nelle piccole pieghe della terra, le sue ginocchia si flettevano e il suo busto si sollevava ritmicamente. Saltellava, da lontano poteva sembrare un piccolo folletto, con quel cappottino rosso e il cappellino per la pioggia, trotterellava giocoso il piccolo goblin, con l'ombrello abbandonato un paio di metri più in là in compagnia delle grida di sua madre.
La pioggia quasi confortevole le accarezzava i capelli... a cosa serve...cos'altro c'è? L'asfalto luccicava, lei ne seguiva lo scorrere sotto i piedi, com'era piccola in quell'istante. D'un tratto si fermò, si sedette a terra e si lasciò andare a piangere, infinitamente, singhiozzando senza respirare. Dove erano finite le innumerevoli possibilità della vita, dov'era il piano divino, come poteva Dio desiderare che accettasse una cosa del genere? Aveva solo 21 anni. 21 anni, cazzo! Insetti con l’ombrello velocemente le girarono attorno... Non si può, non si può in questa Città di merda sedersi sul marciapiede sotto la pioggia, ho questo diritto?! Avrebbe voluto che qualcuno la prendesse a calci, per farle sentire ancora tutto il dolore del mondo, o avrebbe potuto morire, chissà se lui si sarebbe ricordato di lei in quel mondo dove tutto è bianco, dove le persone e l'aria sono la stessa cosa e...
Chiuse gli occhi che le facevano male e rimase un attimo in silenzio senza pensare a niente, d'un tratto sorrise pensando che ogni volta con lui si sentiva così, libera di tormenti e paure, solo un anima leggera su cui le leggi del mondo non avevano effetto, niente gravità, niente suono, niente respiri...solo gioia. E si ricordò di tutte le volte che così non era stato, dei giorni di cattivo umore in cui lei lo trattava male, sfogandosi con lui per tutti i problemi del mondo, senza lasciare nel suo cuore spazio per i suoi. E lui sempre paziente, che la osservava e l'ascoltava, facendo suoi tutti i casini, pronto per empatia a trovare soluzioni per calmarla, disposto, in qualunque condizione a fare qualsiasi cosa per lei.
E così ci si ritrova a piangere per tutti i cazzo di errori che si fanno, per le parole inutili, per le ore sprecate a fare altro, per i momenti rubati alla gioia. Perché l'aveva lasciata sola? Forse non avrebbe mai dovuto incontrarlo, per non essere privata così di colpo della vita. Forse non sarebbe mai dovuta diventare grande, con gli stivali neri e nessuna voglia di saltellare.
S
“Ma come cazzo sei vestito?”, esordì il Ringhio, osservando divertito il completo del suo vecchio compagno. “Armani…”, rispose questi, imbarazzato dopo tutto quel tempo passato senza una telefonata, senza incontrarsi una volta, dimentico di tutte le promesse ed i discorsi fatti insieme, quando ancora erano lupi a caccia di libertà, un branco di individui, ognuno per sé, ognuno per tutti. Ma erano altri tempi, erano giovani, erano ingenui… E allora perché il Ringhio era rimasto uguale, identico, cinque anni come un giorno? Ancora quella risata sincera, genuina, e quegli occhi col fuoco dentro, e quel potere di metterti a tuo agio, anche all’inferno. Il Ringhio indossò una maglietta, mise a bollire l’acqua per il tè, si sedette su una poltrona dalla pelle lisa dal tempo e dagli ospiti, sorrise, e disse all’Impiegato, ancora in piedi, con in una mano la valigetta col giornale che spuntava fuori, e nell’altra un’oscena cravatta beige e bordeaux: “Armani anche quella?”. L’Impiegato non capì, si guardò la mano, vide la cravatta e rispose di si con un sorriso titubante. Il Ringhio continuò a sogghignare amorevolmente, e s’accese una sigaretta: “E dove cazzo le hai nascoste tutte le tue teorie e le tue belle parole, Filosofo?”. Il Ringhio non sorrideva più, s’era fatto severo, lo fissava dritto negli occhi. Il Filosofo si fece di sabbia arida, colto di sorpresa dalla domanda, e si vergognò di sé stesso, del suo mutamento incoerente, della sua resa, del suo abbandono. Lasciò cadere a terra la valigetta col giornale e la cravatta, si buttò a sedere sul divanetto alle sue spalle, sollevò il viso a guardare oltre il soffitto, e rispose. “E che ne so…”.
Il Ringhio recuperò il sorriso, andò a preparare il tè, tornò sulla sua poltrona, e mostrò all’uomo che aveva di fronte alcuni fogli scritti a mano, raccolti dal pavimento. E s’infuriò. “Questi sono i testi delle nostre vecchie canzoni, te le ricordi? Ti ricordi il “Gridalo Forte!”, l’”Esprimi il Tuo Dissenso!”? Ti ricordi, figlio di puttana? Che cazzo di fine hai fatto, con i tuoi bei vestiti e quel bel collare… vaffanculo! Dicevi che era l’unico modo di lottare che tu conoscessi, la musica, dicevi che avremmo svegliato le coscienze, e poi t’addormenti tu!”. Sbraitava in faccia all’uomo sedutogli di fronte con lo sguardo fisso al pavimento. “Lo sapevo che dicevi una marea di cazzate, però ti stimavo, perché pensavo tu ci credessi. E poi mi lasci solo, perché in fondo le nostre canzoni cosa possono fare, perché è stato tutto un bel gioco, solo un hobby, adesso siamo più grandi, dobbiamo pensare da adulti, la vita non è fatta di musica… ed io ho ventun’anni, e sarò ancora un bamboccio, ci credo ancora e non ho ottenuto niente, ho conservato solo me stesso, ma tu, tu, cosa hai ottenuto, sei felice, perché sei venuto qui oggi? Che ne dice, signor K., d’abbandonare la sua forma d’insetto e recuperare un po’ di dignità, almeno per sé stesso?”. Silenzio. L’uomo lo guardò negli occhi, e rivide quella fiamma, quella che una volta possedeva anche lui, cinque anni prima; rise, raddrizzò la schiena, e sollevò il viso, e rinacque come fenice.
Dopo un paio d’ore il Ringhio dovette andarsene, aveva qualcosa da fare e fuori pioveva, gli disse di aspettarlo là, in casa sua. Lui non se lo fece ripetere. Aveva ritrovato qualcosa, là, che non aveva intenzione di perdere un’altra volta. Aveva ritrovato tutta la dignità persa in cinque anni di frustrata obbedienza a regole non condivise, e la forza e la voglia di cambiare il mondo, o di trovarne uno nuovo, di crearne uno nuovo, e si ricordò tutte le sue belle parole d’un tempo, si ricordò tutte le sue affermazioni d’attitudine, e tutta l’etica del guerriero, ricordò quando anche lui era disposto ad erigersi contro, pronto a risalire il fiume, perché era in cima che voleva arrivare, alla sorgente, dove tutto è puro e cristallino, dove l’acqua è limpida ed incontaminata, dove l’uomo è un animale in branco, leale, fedele, libero di vivere, morire ed amare. Ricordò il branco, i suoi fratelli persi nel tempo cinque anni prima, ricordò Maja, la sua bocca, ricordò l’alba nordica su un battello svedese, ricordò l’ardore delle promesse fatte a sé stesso pensando al futuro.
Poi il suo cellulare squillò. E corse in ufficio.
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….tanto lo so che pensate che sono un idiota…………………………………….………………………………………………………………………lo so………………………………………………………………………………….…………non voglio essere un peso……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….lasciatemi stare…………………………………………………che sono un idiota…………………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….vi sarei solo di peso…………………………………………………………….una volta facevo parte di un branco……………………………………………………………………………………………………………………………….ne ero parte solo perché facevo compassione agli altri…………………………………………
…………………………………..lo sapevo…………non glielo dicevo ma lo sapevo…………………………..
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………e allora me ne sono andato……………………………………………………………………
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..perché ero solo un peso……………………………………
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….mi ero illuso per un po’ di poter essere come loro………………………….
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………ma lei mi ha detto che non era colpa mia né sua solo non poteva funzionare perché lo sa il cazzo perché…………………………………………………….ed ho capito…………………
…………………………………………………………………………………………………………………………………………ho capito che sono un idiota…………………………………………..nato per sbaglio un contrattempo………………………………………………………………………………………………………………………………………………un contrattempo non voluto……………………….una noia………………..
………………………………………………………………………………………………………………………………………..non vi ho chiesto io di nascere…………………………………………………………………………
………………stavo così bene quando non esistevo……………………………………………………………
quando non esistevo
quando
non
esi st e vo
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Ed il Ringhio, assetato, entrò nel bar. All’esterno pioveva, lui fradicio, la porta del locale si chiuse da sola alle sue spalle. Diede un’occhiata all’interno, giovani coppie di cani da passeggio l’un dell’altro, e greggi di bestie fastidiosamente inutili e vuote che strafottevano arrogandosi un rispetto non dovuto. Il Ringhio conosceva il genere. Al bancone, una venere oscura, fradicia come lui, sedeva da sola, appartata dai quattro ragazzi che ridevano e gridavano due sgabelli a sinistra. Tra il Ringhio ed il banco, sei metri circa, e due bamboline coi loro montoni a metà strada.
“Il Ringhio abbassa lo sguardo e s’avvia verso il banco, fa l’indifferente, ma dentro l’orgoglio –il suo sterile orgoglio- lo rode. La Ragazza Con Gli Stivali Neri al bancone si gira, quasi ne avesse avvertito la presenza, e lo nota, è difficile non notare il Ringhio, lo sai, ce l’ha proprio l’aspetto del lupo, sembra lo faccia apposta, a farsi notare, per provocare. Allora, è lì che cammina a testa bassa attraverso l’atrio del locale, il Ringhio, e cazzo, sembra che dorma in piedi, ma capisce, capisce che i quattro stronzi, le bamboline coi loro cazzoni, stanno parlando di lui. Fa finta di niente, perché è così che si fa, se puoi eviti, no?, e passa di fianco al loro tavolo, loro zitti, muti. Il Ringhio è teso, irrigidito. Li passa, due metri, e quelli scoppiano a ridere. Lui si ferma, con gli occhi piantati per terra, sorride, si volta e li guarda, spiazzati, e s’avvicina. Si siede con loro, costernati dalle sue azioni, e col suo ghigno mangiamerda gli chiede: ”Allora, fate ridere anche me?”, ed è gentile, sorride, quasi chiede per favore. Poi, questi si guardano spaventati, uno dei buoi fa per parlare, e già sanguina per terra con mezzo boccale piantato in faccia. L’altro si alza, grida qualche minaccia, e si piega per terra con la mascella spezzata da uno sgabello. Le puttane piangono con le labbra spaccate dalle sberle del Ringhio. Stavolta, quando s’allontana, non ride nessuno. Questo vede il Ringhio nella sua testa; ma si trattiene. Uno dei buoi fa per parlare, imbarazzato, dice che non stavano ridendo, dice che è stata tutta una sua impressione. Il Ringhio sorride, prende una sigaretta da un pacchetto poggiato sul tavolo, le dà fuoco con l’accendino del bue che parla, i quattro lo fissano basiti, lui si alza, ringrazia per la paglia, li guarda dritti negli occhi un’altra volta, si gira e s’allontana. E comunque, stavolta, non ride nessuno. ”
Il Ringhio si mosse, come se niente fosse successo, verso il bancone. La Ragazza Con Gli Stivali Neri lo stava ancora fissando, lui le chiese “è libero qui?”, lei fece un cenno con la testa ed il Ringhio sedette. E mentre il locale esplodeva in subbuglio, loro erano come la quiete all’inferno.
E lei lo guardava stordita, terrorizzata e completamente rapita da quella sua fiera tranquillità grondante di sana follia. La Ragazza Con Gli Stivali Neri distolse lo sguardo, s’accorse di quanto fosse ridicola con quella bocca spalancata e gli occhi sgranati. Pensò, “Lui avrebbe potuto fare una cosa del genere?”, e mentre fissava il bicchiere senza trovare risposte, sentì una voce. “L’orgoglio di un uomo è come la spada di un samurai”. La Ragazza Con Gli Stivali Neri si voltò verso il Ringhio, che data l’assenza del barman aveva allungato la mano verso una bottiglia di crema di whisky oltre il banco, per servirsi da solo. Non sembrava essere stato lui, a parlare. Lei conosceva quella frase, una volta il suo uomo gliene aveva parlato: era un insegnamento dello Hagakure, un libro giapponese del ‘600 che insegnava la Via del Samurai. Era a proposito del branco, ma non ricordava bene il discorso, era stato tanto tempo fa, tanto tempo fa ed aveva solo 21 anni, possibile avesse già vissuto una vita in così pochi anni? Non diede importanza alla cosa, continuamente lei ricordava particolari di lui, credeva fosse proprio lui a suggerirglieli, il suo fantasma lì di fianco a lei, ad accompagnarla dal mondo di là attraverso il mondo di qua. Sorseggiò dal proprio bicchiere, crema di whisky, e sorrise, di nuovo stupita dagli arabeschi del destino.
Il Ringhio sembrava non far caso a lei, che ormai incuriosita aveva ripreso ad osservarlo: le piaceva il giubbetto del ragazzo folle seduto di fianco a lei, era completamente sgualcito, consumato dal tempo, ed era pieno di scritte, era come se lui si presentasse con quel giubbetto, se ne poteva interpretare la personalità, come il male dai quadri di Schiele. Lo stupore tornò a bruciare sulle gote della Venere Oscura, all’improvviso, di nuovo: sulla schiena del giovane pazzo stava scritto “Sette Volte Ronin”. Lo Hagakure!
Non seppe mai se stesse scherzando, o se fosse stato un caso, o se davvero gli occhi gravi di quel ragazzo nascondessero qualche cosa di magico. Tre enormi gorilla palestrati, pieni dei loro vestiti alla moda, lo vennero a prendere al banco. Gli intimarono di seguirli fuori, dicevano che doveva chiedere scusa a qualcuno. Il Ringhio si alzò, sorrise, s’avviò con i tre, poi si voltò, la chiamò.
“Allora, ci vediamo ad Ystad…”.
E Det rimase di pietra, mentre il mondo si faceva piccolo piccolo, e niente più aveva senso,
niente
più
aveva
senso
.
0
Ad Ystad, tra cinque anni.
Sento in me
l’alito del niente
soffiarmi
tra i polmoni e il cuore,
e fischiare
attraverso i vuoti
amputanti
ogni mio senso
ogni pensiero
ogni passione
che muore col respiro
dentro al fumo
inebriante
di quest’ultima frustrante
sigaretta.
Impotente
Chiudo gli occhi e me ne sto.
MARIO
MI CHIAMO MARIO E NON CREDO PIU A NIENTE. COSA VUOI, 76 ANNI, UN’OCCHIO SOLO CHE LA MACCHINA DA SCRIVERE E UNA TORTURA, VEDO SOLO I MAIUSCOLI A SFORZO, E LA GUERRA E IL PARTITO E LA POVERA GENTE IGNORANTE CHE NON CI PUOI PARLARE, CHE PENSANO SOLO AL PORTAFOGLI, SOLO A QUELLO. ERO GIOVANE, CON LA PAURA DI MORIRE E LA FAME E LE BOMBE SULLA STRADA E LE DONNE, LE PROSTITUTE, CHE NON HAI TEMPO DI PENSARE A SPOSARTI O D’AVER FIDANZATE SE LA FAME E LA GUERRA TI PRENDONO LO STOMACO. SOLO ORA, CHE DI TEMPO NE HO POCO PERCHE COSA VUOI, DOMANI POTREI NON ESSERE PIU QUA CHE LO SO CHE SON VECCHIO E MALCONCIO, E L’OCCHIO ED IL CUORE ED I RENI, ORA TROVO IL TEMPO, POCO CHE L’OCCHIO SI STANCA DI FRETTA, PER I LIBRI E IL VIOLINO E I DISCORSI. MA COSA VUOI, CHE LA GENTE E PRESA, E NON SI GUARDANO ATTORNO E NON SI GUARDANO DENTRO, SOLO IL SOLDO E NON LEGGONO UN LIBRO CHE LA TELEVISIONE E PIU SVELTA, TI DICE ANCHE COSA PENSARE. ORA, O 76 ANNI ED UN CLONE. IO LO CHIAMO COSI IL MIO AMICO PERCHE E COME ME ALLA SUA ETA. ANCH’IO A VENT’ANNI ERO MAGRO E BRUTTINO CHE LE DONNE NON MI GUARDAVANO. LUI E COME ME. NESSUNO LO ASCOLTA CHE QUELLO CHE DICE FA MALE, E PENSA E PENSA E DI TUTTO HA UNA SUA IDEA SOLO SUA. ED E BUONO, BUONO, MA COME IL PANE E GENTILE CHE GLI PUOI CHIEDERE TUTTO E LUI TE LO DA. E M’ASCOLTA, E RISPONDE, IL MIO AMICO. CHE MI DA ANCORA DEL LEI DOPO TUTTI QUESTI ANNI…….. .
“Perché la rispetto, signor Mario…”
“Oh, è arrivato il mio amico! Vieni, vien dentro che faccio il caffè… lo bevi il caffè, vero?”
“Si che lo bevo!”, ed il Ringhio sorrise.
“Vuoi fumare una delle mie sigarettine, intanto?”
“Magari!” e prese una sigaretta dal pacchetto portogli da Mario.
“Cos’hai fatto alla faccia? Sei tutto sporco di sangue...”
“Ma niente, ho avuto una discussione con dei tizi...”
Si conoscevano da qualche anno, ormai. E da qualche anno, il Ringhio passava qualche ora a settimana con l’anziano amico, ascoltando i racconti d’un uomo che si sentiva al crepuscolo, lungo o breve che fosse, memorie che sarebbero andate perse con il fango e la cenere in una cassa di mogano, ricordi per vivere ancora, di nuovo, e far vivere a chi li sentisse. Come se l’Anziano Mentore potesse far dono di settantasei anni di cicatrici e sorrisi ad un corpo nuovo ed intatto, e bardarlo del suo passato, del suo vissuto evanescente, a proteggere il giovane da quel mondo che il vecchio faceva fatica a guardare per la provata repulsione anche con un occhio solo. Sapeva che sarebbe potuto morire quella sera stessa. Attendeva il momento da anni. Eppure, in quelle ore passate a discutere con quel figlio acquisito, così distante, ma così somigliante, scoprendo interessi e pensieri comuni, ridendo e innervosendosi e ridendo di nuovo, in quelle ore si sentiva vivo, Mario, e la morte che rassegnato pensava avrebbe tranquillo accolto con la calma nello stomaco, la morte, allora, diventava molesta, inopportuna, la pace tanto cercata e tanto attesa diveniva uno spiacevole impegno improrogabile, più che un danno, una noia.
“Volevo dirti, Mario…”
“Cosa?”
“Niente, che parto.”
“Ma tu sei già andato via, non ricordi?”
“Si, lo so, ma devo tornare là, là dove me ne sono andato... voglio dire, che non posso più stare qua, forse ci è stato dato più del concesso, lo sai, io non dovrei più essere qui a parlare con te, chissà dove dovrei essere... sono passati cinque anni, abbiamo avuto cinque anni in più, ma ora devo andare. È l’appuntamento, ad Ystad. Non posso mancare, devo rivedere tutti, salutarli, almeno un’ultima volta...”
“Lo so, lo so. Hai già fatto tanto per me, tantissimo, oltre l’immaginabile.”
[silenzio]
“Mi spiace, lo sai... Promettimi che ti terrai in gamba!”
[silenzio]
“Mi stai dando del tu, lo sai?”
“Oh, scusa... mi scusi!”
“No, ora mi sento benissimo. Mi sento più giovane, mi sento rinato, è come se tu avessi accettato di considerarmi come un padre. Grazie... Buon viaggio, Ringhio. Salutami quella ragazza, come si chiama...”
“Arrivederci, Mario.”
“Chissà, magari ci rivediamo, di là...”
Il Ringhio se ne andò, lasciando solo il fumo di una sigarettina dell’anziano amico nell’aria, e l’eco lontana della sua voce. Mario sorrise, e si sdraiò sul letto, a guardare oltre il soffitto. Lasciò solo un foglio nella sua vecchia macchina da scrivere, prima di andarsene anche lui.
Addio, me ne vado, che non vale la pena restare. Muoio
felice.
D
_EUROCITY_
_CENTO_
_71_
_DELLE ORE_
_19_
_E_
_37_
_PER_
_MONACO_
_E’ IN PARTENZA DAL BINARIO_
_5…
La Ragazza Con Gli Stivali Neri poggiò la borsa da viaggio sul sedile di fronte al suo. Era arrivata tardi alla Stazione, era riuscita rocambolescamente ad acquistare il biglietto, convalidarlo e correre al quinto binario, e salire sul treno, sul suo treno, era stato un sollievo enorme per la sua ansia da viaggio. Pose una mano a sentirsi il cuore, quel cuore che non batteva più dal giorno in cui Lui era partito per non tornare, per andare chissà dove, lasciandola sola, e non era solo un capriccio, era l’atroce stato dei fatti, lasciandola sola coi suoi scarponi rotti, i suoi fogli stropicciati, e quella frase scritta ovunque e pronunziata sempre con malinconia e determinazione nello sguardo, quelle parole su Ystad, l’appuntamento, non sapeva ancora con chi, mai avrebbe scoperto perché. Solo il luogo, conosceva, un insignificante paese sul mare svedese, ed il periodo, congetturato coi biglietti del treno da lui conservati nel Cassetto dei Viaggi, insieme a bicchieri di carta sporchi, lattine vuote di bibite straniere, e riviste d’ogni genere e lingua tutte spiegazzate e mai lette, solo osservate per ore, affascinati dall’incomprensibile comprensibilità di quelle righe scritte chissà da chi, chissà dove.
La Ragazza Con Gli Stivali Neri sedette al suo posto, estrasse un quaderno dalle pagine gualcite e lise, un suo quaderno, coi suoi schizzi ed i suoi scritti, ma non lo aprì, arrestandosi percependo la partenza del treno. Guardò fuori, tranquilla, si è sempre più tranquilli quando il nostro treno parte per la nostra destinazione con noi a bordo, appoggiò la testa allo schienale, e sbarrò gli occhi per lo stupore, vedendo il Ragazzo Sette Volte Ronin salutarla portando due dita alla fronte e allontanandole di nuovo, in piedi, sorridente, sulla banchina del quinto binario.
Fu un piacevole turbamento quello che occupò la mente della Ragazza Con Gli Stivali Neri per le ore successive. Per tutto il viaggio , fino a Monaco, non riuscì a non pensare sorridendo al duplicemente Folle Ragazzo Sette Volte Ronin…
Lo spettacolo dei colori dietro il finestrino si faceva sempre più oscuro e gradito a Det. Il modificarsi delle tonalità, dal verde e blu al bianco e nero, di terra e cielo con l'arrivo dell'oscurità, l'attraeva. Il treno sobbalzava leggero, lei sentendo in sé quella notte infinita prese il sacco a pelo, lo poggiò ancora chiuso sul sedile accanto a lei e vi si avvinghiò. Lo stringeva, unico appiglio alla vita…lo stringeva nelle notti profonde, la sua pelle chiara e morbida. Vi si appoggiava profondamente, su quel petto che giurava di stringere fino alla fine…lui in cambio le accarezzava la testa mentre lei, con uno strano rito, pronunciava quelle Parole…
Scese dal treno, nell’alba tedesca, assorta nei propri pensieri, sul Folle Ragazzo Del Quinto Binario, sulla coincidenza per Kobenhavn, sul fatto che non mangiasse da tre giorni e non ne sentisse assolutamente bisogno, né voglia, quando si sentì chiamare: “Guten Tag, Fraulen! Ti aspettavo. Posso invitarti a colazione?”. Lei ristette, ora lo stupore si fece quasi paura, lo guardò spaesata per qualche secondo. Poi sorrise, e rispose: “Das ist gut…”, e finse fosse normale che il Ragazzo SetteVolteRonin la stesse aspettando laddove doveva arrivare, e l’avesse salutata là da dove era partita…
Andarono a far colazione in un bar ristorante turco appena dietro la stazione di Monaco, all’imboccatura delle scale della metropolitana. Un locale enorme, pieno di tavoli, con scortesi inservienti soggetti ad un gestore ancor più scortese: baffi neri, non molto alto, la pancia gonfia d’arroganza, sembrava la parodia grottesca di un turco, più che un turco. Una svogliata cameriera bionda metteva i soldi in un grosso borsellino legato alla vita da una cordicella di cuoio, restituiva il resto, ed ascoltava rassegnata le ordinazioni, che poi buttava lì, sul bancone o sui tavoli, come un adolescente ribelle che fa ciò che gli è richiesto riversandovi la violenza che reprime nello stomaco. Il Ringhio prese un caffè tedesco, pessimo al suo palato, d’obbligo alle sue manie di assumere le abitudini alimentari del paese in cui si trovava. La Venere Oscura, radiosa, ordinò un “cappuchino”, ed insieme decisero di prendere una torta, una intera, in due. Impiegarono un’ora a consumare il pasto, non tanto per le dimensioni di questo, quanto perché furono trascinati via dai loro discorsi, persi ormai uno nella bocca dell’altra, infervorati ad ascoltarsi l’un l’altra, e già s’amavano, solo per quelle parole, per il fatto d’avere qualcosa da dirsi.
Lei doveva prendere il treno per Kobenhavn delle 10 e 49. Lui prendeva lo stesso treno, per andare nello stesso posto. E per stare con lei.
Lei aveva il posto numero 69. Lui non aveva posto, che non fosse vicino a lei… Poco prima che il treno partisse, il Ringhio accese una sigaretta. Lei s’accorse che stranamente il fumo non le dava fastidio, anzi per un attimo temette non stesse neanche respirando, ma tossì lo stesso. Ed il Ringhio spezzò la sigaretta, lei gli sorrise grata dicendogli che non avrebbe dovuto, sarebbe uscita dallo scompartimento per lasciarlo fumare. Lui, così, disinvolto, subito ne accese un’altra, lei sbalordita dal gesto spontaneo del Ragazzo Folle rimase interdetta, e lo stupore s’ingigantì in una dolce, lusingata risata mentre il Lupo di fronte spezzava la carta di mais piena di tabacco essiccato appena infiammata. Era così, il Ringhio, lei lo sapeva, lo sapeva da sempre, da prima ancora di conoscerlo, era un uomo che parlava coi gesti, non di poche parole, solo quel che diceva pensava, e quel che pensava faceva. Tutto qui. Follemente, irrazionalmente coerente. E squisito. E malato. Malato di vita.
Tutto il sole tedesco entrava nel treno dai finestrini, tant’era troppo, da chiudere le tendine degli scompartimenti. Era come la creazione di un nuovo universo nel nulla cosmico, nascondersi allo sguardo del sole e degli altri viaggiatori, come se fuori da quelle pareti, oltre le tende, non ci fosse niente, la sensazione che si prova da bambini sotto le coperte, vagando strisciando su un mondo nuovo, il mondo di sotto, che solo noi vediamo, nascosto agli occhi di fuori, ed è nostro, nostro, e sentiamo che lì, in quel momento, niente e nessuno può farci del male, siamo al sicuro da tutto, e non ne vorremmo uscire mai più. Poi ci addormentiamo, e nel sonno, ci manca il respiro.
Lacrime come piccole gocce di pioggia percorrevano le guance della splendida Venere addormentata, gli occhi chiusi in quel pianto lontano, lui la fissava stordito e meravigliato…
Ehi…tutto bene?
…si
Erano ormai troppe notti che gli incubi venivano a tenerle compagnia…s'immergeva nel buio e nel fuoco. Arancione, nero e giallo.
Le prime volte ne aveva paura, ora era quasi normale, si sentiva a proprio agio. Ipnosi, trance, sonno, morte. La stessa cosa.
L’Uomo Che Nel Sogno Se Ne Andava Via l’aveva svegliata, vedendola piangere…
“Andiamo a prendere il tè?” chiese la stessa voce gentile e preoccupata che l’aveva richiamata al mondo. Lei acconsentì, asciugando le lacrime in uno stravolto sorriso, rassicurata dal vederlo, dilaniata dall’aver già vissuto una volta la storia del Folle Ragazzo e della Bambina Innamorata. Ed esserne morta.
D
La vocina infantile e stridula entrava nel cervello veloce come un segnale digitale, e come un telegrafo, ti martellava i neuroni. Bitte, Ruhe!
Discorsi inutili come le polveri colorate su quel Teschio, vuoti come le nuvole che assumono la forma più gradita a chi le osserva. Catene in serie da nove su un omero e una clessidra per il tempo da cinque milioni sull'altro. Il Corpo in decomposizione al fianco dell’insulto parlante, oscena crosta sulla pelle di Gea, emetteva dei suoni ogni tanto, senza venire ascoltato. Il Teschio si muoveva, lo scheletro che lo reggeva su trampoli lilla danzava grottesco dondolando i funebri addobbi. In equilibrio contro la parete, un manichino a riempirsi di una sigaretta, per poi svuotarsi nuovamente del suo unico spessore lasciando uscire il fumo dalla stoffa bruciata del suo volto.
Il calco di gesso accanto a loro si mosse per primo, Det li seguì, i fantastici quattro si sedettero, ella passò oltre.
LB
_Boujeau, ispettore di polizia criminale_ _Il mio nome è Boujeau, Leonardo Boujeau_ _Boujeau, polizia criminale_ _Boujeau, l’unico aspetto riuscito dei miei ventisette anni_
Era un gioco, tanto per divertirsi tra amici. Io però ci credevo; quello doveva essere il mio primo film. Il più importante, ed io ci credevo davvero, e lo amavo, ne ero soddisfatto nonostante ogni difetto. Ed è stato il mio unico film. Neanche completo. Ed io, io sarò Boujeau per sempre, finché il film non finirà, finché l’ispettore non troverà una sua vita, che sia completa, che sia finita. Boujeau si è preso la mia vita.
Perché io non sono stato in grado di afferrarla.
Ad Ystad, tra cinque anni...
T
Tirò a sé il piano cucina sotto la motrice, accese il gas e rovesciò nel pentolino una scatola di chili con carne precotto. Accese una sigaretta e sedette sullo sgabello, in una buia area di sosta su una desertica strada provinciale, in mezzo a campi di nebbia, in mezzo al nulla. Il freddo s’incuneava tra le pieghe del volto, s’aggiustò il cappello e rovesciò il chili in una scodella. Sorseggiò una tazza di vino rosso, e quindi cominciò a cenare.
Dal vano letto poteva vedere le stelle attraverso un oblò sul soffitto del cabinato. Aveva freddo, nonostante le tre coperte, ma comunque socchiuse il vetro ed accese una Gitane. Amava star solo. Amava viaggiare. Perciò, laureato, faceva il camionista. Per il puro piacere di stare da solo, in silenzio, dimenticando le parole, dimenticando la propria voce, nella cabina del suo tir, osservando e passando gli infiniti orizzonti del mondo. Sentì violenta infiammarsi la gola, tossì, ormai stava fumando il filtro.
Notò in sé l’insolito. Per la prima volta, da tre anni e mezzo sulle strade dei Vecchi Continenti, soffriva la solitudine. Per la prima volta era distratto da sé stesso, capì di fingere di pensare a qualcosa mentre in realtà un pensiero altro si faceva imperioso nel suo petto. Cercò di soffocarlo con un’altra sigaretta. Ma ormai, quel pensiero possedeva il suo sangue.
“Ystad…”.
Ad Ystad, tra cinque anni.
S
Ed a sera, come tutte le sere, alle 18 e pochi minuti, l’Uomo rientrò a casa dall’ufficio.. Il portone del palazzo si chiuse con un rumore violento dietro di lui, chiamò l’ascensore e dopo qualche secondo stava di fronte l’entrata del suo appartamento.
Era andato ad abitare da solo un paio d’anni dopo il Ringhio, su suo stesso incoraggiamento. Invidiava, in effetti, la dura indipendenza del Ragazzo Folle, che s’era gravato di mille responsabilità per non dover ringraziare nessuno di quello che aveva. Diceva, il Folle, “ora sono libero. E posso sbagliare in pace”. Sapeva che non era solo quello a muovere il Ringhio, ma anche una punta d’orgoglio, ed il fatto che non voleva nessuno si desse pena per lui, a cominciare dai suoi genitori, spezzati da un lavoro infame per dargli un futuro. Fu per questo che il Ringhio prese il proprio futuro balzandogli addosso, e bruciò i tempi, rinunziando al “sapore del sale dello scendere e salir per l’altrui scale”. Alessandro decise così di prendere un appartamento coi soldi che i suoi gli avevano messo in banca, subito dopo aver trovato un lavoro che gli garantisse l’indipendenza economica. E così fu.
Abitava poco lontano dall’ufficio, andando a piedi impiegava tre o quattro minuti. Abitava al terzo piano di un elegante, squadrato palazzo, ed ignorava l’aspetto del vano scala, abituato ad usare l’ascensore, bara di metallo e tessuti acrilici bordeaux. Da sempre, si faceva trasportare.
Aveva dipinto le pareti di bugie, in un angolo un cesto per i panni sporchi che sua madre lavava una volta a settimana, ed i piatti da scaldare già pronti nel frigo, e l’ordine, l’ordine che per quanto mettesse in disordine restava ordinato, che sua madre passava a rassettare ogni santa mattina. Non c’era una goccia del suo sudore, su quelle pareti, non un vestito che si fosse comprato da solo nell’armadio. A tutto, pensava la chioccia. E lui ne era felice. Si riteneva fortunato, il più fortunato tra tutti: non muoveva un dito, solo ogni giorno andava in ufficio, le sere del fine settimana girava per locali coi suoi innumerevoli amici, ed al termine del mese lo stipendio, ed al resto, al resto pensava sua madre. Sua madre.
Accese il televisore e si sedette a guardare una mostra canina. Cani felici al guinzaglio.
M
Scheisse…ich muss schneller sein, ok ich habe alles le bozze, il cd, l'indirizzo del cliente, il biglietto ok ok.
Guten Tag, ich bin Maja S.1
Dal finestrino dell'aereo vedeva il grigio azzurro del cielo sopra le nuvole, davanti a sé c'era il vassoio del pasto, ormai vuoto. Cinque anni prima avrebbe lasciata lì tutta quella merda confezionata nella plastica, ma dopo la pizza alta 10 centimetri e l'acqua calda con un vago aroma di caffè, qualsiasi cosa le andava bene, anche la cucina della Lufthansa. Pensava già ai pasti luculliani che avrebbe consumato qualche ora dopo in Germania, dove doveva svolgere l’ultimo compito all’estero per la sua corporazione, prima di ottenere il trasferimento in patria, dove già pregustava l’addio alla burgerkitchen, immaginandosi tra i suoi amici di fronte ad una doppia porzione di pasticcio d’uova e spinaci, a casa d’un caro amico, ed ettolitri di vino tracannati tra le risa di quelle poche, indispensabili, persone, che avrebbe ritrovate all’appuntamento. Si sentiva bene, sorrideva col naso all'insù, un pizzico d'orgoglio le brillava nelle pupille nere come la china. Dopo tutto quel tempo, se lo meritava. Naturlich...”anche le donne di ferro hanno un cuore, ed uno stomaco vorace”, diceva la sua migliore amica, una volta. Cercò di scorgere qualcos'altro al di sopra delle nuvole, incuriosita dagli strani giochi di luce, quasi sicura di aver scorto la linea curva della superficie terrestre…i suoi occhi si spalancarono…a ritroso, di nuovo sotto quelle nuvole, 5 anni prima, due giorni troppo presto. Det.
M
IDIOMS = particular words used idiomatically
noun phrases/phrases of comparison/verb-noun adjective-noun collocation
adjective + proposition phrases
common proverbs
“Ok ok this is the last one …different aspects of the idiom… I'm leaving on Friday, sono stanchissima, non mi sono ancora abituata al fuso europeo.”
Maja era seduta, le gambe elegantemente incrociate in una delle file riservate nell'auditorium, il dottor Mc Goffin, pensatore di Oxford con parole sonno-lente affrontava il problema idiomatico della lingua inglese britannica.
La sfida intellettuale sarebbe stata colta prontamente dalla mente ipertrofica di Maja, se non fosse stato per quella maledetta inversione notte-giorno… changing attitudes to language… Carpiva qualche frase qua e là, sulla sua agenda grigia annotava qualche concetto. Le sue calzature eleganti, con piccoli lacci neri ondeggiavano …growth and change… al ritmo dell'inchiostro versato meccanicamente …in the English vocabulary… dalla cannuccia della stilografica.
Il suono metallico di un telefonino, come una radiosveglia, destò l'attenzione di Maja, le pagine dell'agenda si mossero frusciando, dal verde delle note si spostò al rosso del calendario.
November 13th Thu
documenti
ore 16.30
Straubingerstr. 23 Dokt. Kolm
documenti
M
Da quando lavorava negli Stati Uniti, Maja aveva preso l’abitudine di viaggiare in prima classe. Un posto riservato tra gente riservata. Era giovane, piacente, elegante e con qualche particolare sbarazzino. E fumava, solo sigarette francesi, cosa che, al suo vicino, non faceva affatto piacere. Al terzo attacco di tosse affettato dall’anziano trentunenne che le sedeva di fianco, Maja si alzò, muovendosi verso il piano ristorante della nave. E lì si sedette di fianco alla parete finestra dipinta dall’infinito del cielo e del mare.
Maja aveva attuato una scelta difficile e coraggiosa: cinque anni prima aveva chiuso i bagagli per andare a lavorare lontana dal suo mondo, lasciandosi alle spalle tutto quello che sino ad allora era stata. A New York, capitale del mondo degli uomini, lei credeva di trovare quello che aveva sempre cercato, di realizzare i propri sogni. E le sembrava, ora, d’esserci riuscita. Imprecò qualche santo, quando rovesciò il vino rosso che aveva ordinato sui pantaloni del completo verde.
A casa aveva lasciato un’amica, la sua migliore amica. Ed un uomo, ed altri amici, i suoi fratelli. Era convinta che, passati quei cinque anni, tutto, tra loro, sarebbe tornato come quei giorni in viaggio nel Nord. Dopo ventiquattro ore a New York, una lama nel cuore partorì dubbi zittiti nel suo stomaco.
New York = lavoro = carriera = felicità. Equazione logica d’una esistenza razionale. Egoista. Ogni uomo, davanti ad una scelta, si rende conto di come la via egoista sia quella più razionale. Istinto. L’animale cerca il piacere, egoisticamente, tra godere e far soffrire e non godere la scelta è immediata, automatica, istintiva. E Maja era completamente razionale. In fondo, forse, non le era mai importato niente di nessuno se non di sé stessa, della propria realizzazione per sentirsi grande, soddisfatta. Il Ringhio la guardava e non la capiva, non l’aveva mai capita, sin da quando aveva deciso di partire lasciando amici, famiglia e città, e pure il suo uomo, l’amore, ma non ci aveva pensato un secondo, no, quello che voleva era essere qualcuno, era New York. In fondo, lei stava andando all’appuntamento solo per zittire le percussioni della coscienza, perché anche il cuore più materiale non può evitare i rimorsi, e lei ne aveva uno da cinque anni. E quel rimorso non le serviva, solo offuscava d’un poco la sua splendida carriera. Era un neo, da cancellare.
R
Al lunedì smetteva di fumare. Al martedì non mangiava più carne. Da mercoledì smetteva di bere, ogni giovedì decideva di laurearsi, il venerdì smetteva di dire cazzate per un paio di giorni.
Quel giorno la casa del Ringhio era come il suo cuore. Non c’era un vetro che non fosse coccio, in cui si riflettevano frammenti di rabbia erotta e non ancora passata. La bambola gonfiabile impiccata vicino alla parete chiodata era esplosa in brandelli, il tavolo non aveva più gambe, i divani a pezzi, e schegge e schegge e schegge ed un mare di sangue, sangue dappertutto, ed il Ringhio, piegato in un angolo sfregiato e tagliato e ferito, come un gatto randagio nel cortile sbagliato, riversava fiumi di porpora a terra dalle braccia, la schiena ed il petto e le gambe e la bocca, la bocca ribolliva di sangue e saliva, un chiodo piantato nella lingua, per non sprecar più parole, ogni tanto un colpo di tosse per vomitare il sangue che lo soffocava, e per sopportare il dolore del gin, in un coccio di bottiglia, beveva tagliandosi le labbra, sgorgando rossi umori, e cercava d’accendere sigarette spente dai liquidi persi dal naso.
Stette così qualche ora, ed il gin era finito, e la vista appannata, ed il sonno incombente. Quando la Venere Oscura oltrepassò la sua porta, gridò il suo nome e corse sul suo corpo, credendolo morto, mentre invece, lui, le sorrideva a salutarla.
Det ripulì e disinfettò le ferite del suo uomo, lo lavò con una spugna, fasciò ogni taglio e lo mise nel letto. Poi giunse la Notte, con lei la febbre, ed il Sonno per entrambe.
Il mattino seguente, quel che del Ringhio non sanguinava lo teneva in piedi, di fronte ai fornelli del gas, un odore penetrante a diffondersi per le stanze, riempirle, saturarle, permearne i tessuti, mentre Lei dormiva ancora di fianco al posto che lui aveva lasciato vuoto. Quando il Ragazzo a Brandelli riuscì finalmente ad accenderlo, il gas, la fiamma vampò bruciandogli le dita, lui scattò di riflesso, poi tornò a preparare le fette di pane tostato e la spremuta per far colazione. Con le mani tremanti per la febbre, accese una sigaretta, sedette ad attendere l’acqua del tè, e quando tutto fu pronto, lo mise su d’un vassoio e barcollò fin nella camera da letto.
Det dormiva ancora, provata dalla fatica e dalle emozioni della sera prima. L’Uomo nella sua stanza aprì le tende sul sole spento del Mezzogiorno Sulla Grande Città, lei si lamentò sorridendo, lui le sorrise a sua volta. Poi lei gridò qualcosa scattando in piedi, all’improvviso, che non doveva sforzarsi, che avrebbe dovuto stare a letto, e tutte le premure per sé stesso che avrebbe dovuto serbare. Lui sorrise, di nuovo, indicando le tazze ed i dolci che aspettavano sul comodino. Lei rise, lo strinse, dimentica di tutti i suoi tagli, premendo il viso sul petto di lui, l’Uomo boccheggiò ridacchiando qualcosa, ed il nuovo giorno iniziò così, colazione per pranzo chiacchierando su lenzuola macchiate di sangue.
DIFFERENT WAYS TO THE PAST
Si erano conosciuti nella stagione più calda del paese più freddo, mentre il sole bruciava le pelli avvezze ai ghiacci, diluendo ogni scheggia in un fluido di cristallo limpido, sincero. Il cielo sopra Stoccolma piangeva d’un’esotica pioggia appiccicosa, che sembrava voler insinuarsi nei calmi passanti, quando la Ragazza In Nero inciampò, nel suo vagare senza meta, nel corpo sdraiato a terra, a prender quanta più pioggia possibile, di uno strano ragazzo, che parlava la sua stessa lingua, e sorrideva fradicio sull’asfalto. Il folle giovane chiese perdono del trovarsi in mezzo ai piedi, e la ragazza per tutta risposta si sedette di fianco a lui, sotto la pioggia, e lo fissò, per poi stendersi anch’essa a guardare il cielo cadere. Finché non smise.
Stavano zuppi a sedere in una caffetteria pasticceria, lei un tè, lui un beverone scuro e amaro come i fiumi d’odio, addolcito dal candore d’una valanga sproporzionata di zucchero. Lui viaggiava perché era l’unica cosa che sapesse fare, e poi forse cercava qualcosa che neanche lui sapeva cosa, e tutte cazzate del genere dettate dall’imbarazzo di chi ha di fronte ciò che ha sempre cercato, ed allora quasi si piscia addosso dall’emozione quando se lo trova davanti. Poi le chiese il suo nome. Lei non se lo ricordava. E non ricordava nient’altro.
Non aveva completamente perso la memoria, la Ragazza Sperduta che era inciampata nel Ringhio. Solo non ricordava il proprio nome, né come fosse arrivata là. Il Ringhio aveva letto, una volta, qualcosa a proposito della rimozione di ricordi dal livello cosciente della memoria a causa di forti traumi. Aveva sempre pensato, con la sua maniera di vedere le cose, che era un meccanismo simile alla chirurgia estetica per cancellare le cicatrici, un modo per non averle più. Oppure, un modo per non vederle deturpare il proprio corpo, pur avendole comunque impresse, sotto pelle. Era strano, per lui, questo processo inconscio, lui che i ricordi se li marchiava sulla carne, cicatrici e cicatrici, ogni cicatrice una storia, diceva, e quasi ne andava fiero, se non avessero fatto così male, e cazzo, aveva solo diciassette anni e già ne era pieno, di cicatrici, e doveva conviverci, doveva sopportarle, ed era insostenibile proprio che fossero sostenibili.
Passarono il resto della giornata a trasferire i bagagli di lei presso l’ostello di lui. Cenarono cinese, senza che lui toccasse cibo, senza che si lamentasse, senza che ingerisse qualcos’altro. Tornarono verso l’ospizio a notte fonda, scorrendo nell’intimità della città che dormiva ma ancora pulsava di voci e suoni e rumori. In camera, lei indossò un pigiama troppo grande, sebbene sembrasse un modello da bambina, lui tolse solo la maglietta e si definì pronto per dormire. Lei lo fissò: un numero enorme, forse infinito, di cicatrici copriva il suo petto, peggio ancora la schiena, ferite più dolorose ricevute a tradimento. Non un angolo di pelle illesa, e non sembrava vergognarsene, anzi, ne appariva in qualche modo orgoglioso. Diciassette anni, ed un corpo che sembrava essere stato all’inferno. Diciassette anni di insulti, violenze, umiliazioni, slealtà, delusioni, perdite, dolori d’ogni sorta, tutti scolpiti in quelle carni, e quello sguardo invece vivo, ancora sapeva sorridere, ancora amava la vita per quello che era, vedere la pioggia cadere, i bambini sorridere, e sentire il vento sulla pelle, freddo, per capire che il calore è dentro di noi.
Non si chiesero mai la ragione. Era stato spontaneo, naturale, come se si fossero conosciuti da sempre e non si fossero mai incontrati da diciassette anni. Il Ringhio non dormiva, non ci riusciva, non c’era mai riuscito, scriveva e disegnava nel buio, solo il rumore della mina che graffiava la carta. E lei non riusciva a dormire, non c’era mai riuscita, tormentata non sapeva più neanche lei da cosa. Aveva freddo. Posso dormire con te?, Se ti fidi..., e s’abbracciarono. Per non lasciarsi mai più.
T
Viaggiava per vedere. Non aveva mai negato che la scelta del lavoro, camionista laureato, così discutibile e così discussa per la sua famiglia e per tutta la società in cui era vissuto fino ad allora, altri non era che la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, vagare per il mondo, non avere più punti di riferimento, la preferenza del non possedere al poter perdere. Quando aveva avuto, aveva perso, ed era rimasto smarrito ad odiare quella scenografia senza più attori, spettacolo di malinconia specie se si ha assistito alla messa in atto. Ma ora, lui viaggiava solo per vedere, conoscere, imprimere negli occhi il mondo tutto, ogni suo aspetto, assaggiare il sapore d’ogni esperienza. Come faceva la piccola Det. O come diceva Bon Jovi nello stereo, dormirò quando sarò morto. Ed infatti non gli ci volle molto, a raggiungere Ystad col tir: non portava rimorchi, e dormiva solo un paio d’ore al giorno, le sigarette e l’impazienza d’arrivare a fargli compagnia. Quattro giorni d’autostrada, da Atene, e riconobbe l’ostello sul mare nella stazione delle ferrovie, col cantiere del nuovo porto di fronte, proprio come cinque anni prima, quando il Ringhio, appena arrivato, era salito sulle impalcature per “fare un paio di domande a Dio”.
Doppia T non credeva in Dio. Era un filosofo, in qualche modo un razionalista, ed era in grado di accampare almeno dodici ragioni per affermare l’inutilità di elucubrare l’esistenza dell’Onnipotente, e quattro prove per negarla del tutto. In realtà, credeva poco anche nell’uomo, ma risultava di gran lunga più convincente quando postulava la vacuità di quest’ultimo. Era avvenuto qualcosa, però, ad Ystad, cinque anni prima, che aveva seminato il germoglio del dubbio nella sua saccente convinzione: qualcosa di terribile, romanticamente sublime, qualcosa che elevava l’uomo con un monito di dolore, dipingeva un Dio disinteressato alla vita o alla morte, ma colmo d’amore nei confronti delle sue creature. Perché la vita non compie il suo senso. Il senso è oltre la vita.
“Cosa sei andato a chiedere a Dio, là in alto?”. L’aveva buttata come una battuta, quella frase, doppia T. Il Ringhio si pose l’indice sulle labbra e rispose: “Segreto!”, saltò addosso all’amico per abbracciarlo, e mentre quello cercava di divincolarsi, gli diede un bacio sonoro, con lo schiocco, sulla guancia, e rise forte, poi fece lo stesso con un Leonardo restio a quella effusione, a Maja, fingendo una fin troppo finta passionalità, ad un geloso Alessandro, a coso, a Det.
RD CLOSE TO DEaTh
“Ricordi la prima volta che t’ho detto ti amo?”. Det gli sorrise. Il Ringhio stava sdraiato sulle tegole del tetto dell’ostello, di fianco a lei, a guardare il volo dei gabbiani, le nuvole plasmate da Morfeo in mille sogni multiformi, il fumo dei comignoli di Ystad evanescente nell’azzurro intenso del suo cielo invernale; da quasi un’ora, ormai, e l’avevano passata parlando in silenzio, senza quasi mai guardarsi. Era stato a Stoccolma, quattro anni prima circa, tre giorni dopo che una giovane Venere inciampasse in un Folle fradicio sdraiato a terra, stavano seduti sul gradino di un negozio di tabacchi chiuso, nel quartiere dei locali notturni, mentre una folla di persone eccitate dall’incipiente nottata di divertimenti si muoveva in fretta lungo la strada, scivolando dentro le entrate dei pub appagati da una piccola, insignificante, immensa gioia. Det dormiva con la testa poggiata sul petto del Ringhio, lui le carezzava il volto delicatamente con la mano aperta, e sussurrando giurò, anche se lei non sentiva: “Ti amo, piccola Det…”. Lei si svegliò, finse di non aver udito, e lo strinse a sé più forte.
Non se lo confessavano spesso, forse perché l’avvertivano dentro, perché lo sapevano: le cicatrici sulla schiena del Folle, quelle perse nella memoria sotto il profumo della pelle liscia della Venere Oscura, li avevano colmati di un senso di sfiducia che li terrorizzava; come fossero stati bambini dopo aver ricevuto il dono più bello, e ne gioissero temendo però glielo potessero togliere, se lo potessero riprendere. L’ultima volta era stata qualche giorno prima di partire per quel viaggio in Scandinavia, il Giorno della Furia del Ringhio: su quelle lenzuola macchiate di sangue, il Ringhio tutto un taglio, con la lingua bucata dal chiodo ancora dolorante ed indolenzita, Det gustava le fette di pane tostato preparate dal Folle sorridente, chiacchierava, lui la ascoltava. Poi, d’improvviso, gli occhi le si gonfiarono di lacrime, singhiozzò qualcosa, lo abbracciò forte, e pianse. A lungo. Quando smise, s’asciugò le guance, prese il volto del Ringhio tra le mani, e cantò flebilmente, in un sussurro... if you die, I say, so do I, I say… tell me I’m forever yours… you’re forever mine…
Il Ringhio, se fosse riuscito a parlare, le avrebbe promesso di donarle qualcosa di eterno, anche se l’eterno non fosse esistito. La baciò, invece, piano, dolcemente, col sapore del sangue in bocca, le carezzò il capo con una mano, e la strinse al suo petto.
“Cosa sei andato a chiedere, a Dio, prima?”. Il Ringhio, senza alzare la testa dalle tegole dell’ostello, accennò un sorrisetto strano, ironico, determinato: “Non gli ho chiesto niente”, rispose, “gli ho solo detto che, se lui non avesse creato il ‘per sempre’, beh, allora lo creerò io…”. “E lui come l’ha presa?” “Mah, s’è fatto una gran risata, m’ha guardato, e poi m’ha detto, ‘va bene, mi fido, hai il mio permesso…’, e poi, ‘sei il più fico di tutti, Ringhio, il mio prediletto!’.”. Det rise: “Ti ha detto davvero così?”. Il Ringhio, serio, sussurrò: “No. Mi ha solo detto che l’eterno esiste, ma pochi sono abbastanza grandi per fruirne. E che forse, io e te, siamo abbastanza grandi. Solo questo”. Det lo guardò, lui ancora a scrutare il cielo, abbozzò un sorriso, mentre le cicatrici scomparivano dalle carni del suo uomo, e gridò, come un canto. “Scemo!”.
Ma intendeva dire “Ti amo”.
…I know I’ll be forever yours you’ll be forever mine…
T
Seduto sui gradini di fronte al cantiere, di fronte al mare, Doppia T guardava oltre l’orizzonte, in silenzio, fumando una Blend. Tutta mattina. Erano passate le undici, stava là da quattro ore, ed infine sentì quello che avrebbe voluto sentire. Gli scarponi del Ringhio smossero la ghiaia, e mentre Doppia T continuava a fissare oltre il lontano, quegli stessi scarponi si fermarono di fianco a lui. Non si salutarono, solo il Ringhio sedette, dopo qualche minuto, e rubò la sigaretta dalle labbra dell’amico. “È un po’ che non ci si vede…”, esordì pacatamente Doppia T. “Già…”, confermò con un pigro sospiro l’altro.
“L’ultima volta è stato a Lisbona, un anno fa.”
“Se lo dici tu…”
“Si, abbiamo discusso di cosa ci fosse dietro l’orizzonte… Ricordi, ‘mirando costas ao mundo, orguliosamente sos’…”
“L’orizzonte.”
“Secondo te, cosa c’è dietro l’orizzonte?”
“Un nuovo orizzonte.”
“E che senso ha?”
“Se uno di noi arrivasse là in fondo, sarebbe semplicemente vivo. Non saremmo capaci di starcene qui fermi, sarebbe insopportabile una condanna del genere. L’orizzonte conserva i nostri sogni, aspettando che noi andiamo a recuperarli, che li raggiungiamo. E dopo ogni orizzonte c’è un nuovo orizzonte.”
“Non si arriva mai, quindi…”
“E chi ha bisogno di arrivare? Arrivare è finire! Ogni nuovo orizzonte è un nuovo sogno. Ed io, io voglio sognare per sempre.”
“Non si vive, di sogni...”
“Non si vive davvero, senza sogni...“
“Ricordi, Ringhio?”
“Lo ricordi tu. Basta questo.”
E Doppia T, senza distogliere lo sguardo da quell’orizzonte, s’alzò, gettò il mozzicone in terra, si voltò, e risalì le scale, tornando di nuovo indietro. Ascoltando Det arrivare e sedersi di fianco all’amico. Come cinque anni prima.
Tra cinque anni, ad Ystad...
S
E alla fine, quando ti resteranno due giorni soli da vivere con me, dopo averne passati migliaia a diventare qualcuno, come dici tu, quando ormai tutti i nostri fiori saranno sulla via d’appassire, troverai un senso a questo tuo cercare? Troverò un senso a questo mio aspettarti? Quando avremo perso tutti quei momenti che non è concesso recuperare, questa nostra realizzazione, come la chiami tu, ci farà sentire completi?
Questi cinque anni spesi dietro al nostro salir le scale, non vorremo tornare indietro a riprenderceli? Se non sarò diventato un eminente, se sarò ancora un semplice impiegato, tra quarant’anni, sorriderò pensando a quando sognavo di far carriera. Se non avrò vissuto ogni istante con te, tra quarant’anni, mi maledirò, implorerò il Signore di farmi tornare indietro, e morirò sentendo d’aver perso di vista la cosa più importante, in vita. È questo, che m’aspetta. E che aspetta te. Perché non vuoi capirlo? Avrei voluto una vita semplice, senza titoli, senza fama e senza gloria, ma con te. Vivrò la vita che non avrei voluto vivere, per te, senza di te.
E butterò anche questo foglio, insieme alla mia dignità, nel cestino dei rifiuti.
Buona notte, Maja
Milletrecentovenitreesimo giorno,
tuo Alessandro-
IN BETWEEN DAYS
… GO ON GO ON JUST WALK AWAY GO ON GO ON YOUR CHOICE IS MADE... cantava l’uomo dentro lo stereo, riempiendo l’aria del locale di nuovo ossigeno. Ed il cantore sembrava un profeta, con quelle parole sui Giorni Di Mezzo, l’attesa -sebbene la canzone narrasse d’un qualche amore finito- prima che il Ringhio partisse per andare, per tornare, e non tornare più. E sembrava un amico, l’uomo dentro lo stereo, seduto di fronte, oltre la candela, col suo bicchiere in mano, che ti esorta a fare ciò che vuoi, ciò che è meglio per te. E Doppia T, con le gote scaldate dalla fiamma in cima alla cera, fissava la Lingua Zittita Dal Chiodo negli occhi, soffiando fumo, esprimendo con lo sguardo una saggezza dissonante con la sua giovane età.
Senza parole parlava al Ringhio già muto, con la lingua bucata, sapore del sangue e del vino a sfiorargli la gola; in silenzio, Doppia T capiva tutto ciò che bagnava gli occhi dell’amico di fronte, l’altro ascoltava l’aspetto di grave determinazione del proprio compagno.
E come un formicaio, le stanze del locale brulicavano degli avventori di divertimento a pagamento, vocii e risate acquistate in saldo su caotici palcoscenici dove l’unico spettatore è l’attore stesso. La Cenerentola in Nero appuntava veloce qualcosa su foglietti bianchi, sorrideva, dopo qualche minuto porgeva il vassoio di felicità in bicchiere a chi ne aveva chiesta, fingendosi sorda agli sguaiati apprezzamenti degli idioti di carne. Si muoveva vittima d’una frenetica danza tra i tavoli del locale, e tossiva ogni volta passando di fianco a quello del suo Uomo, che puntualmente spezzava la sigaretta, mentre Det rideva e carezzava la spettinatura del ragazzo imbronciato a nascondere un sorriso.
Maja, seduta al banco, sorrideva la malinconia di chi s’accinge a partire, ed osservava Alessandro, il suo uomo, nella mischia a trangugiare bollicine ambrate ridendo, a discorrere con qualche amico. Det la salutò, lei rispose tornando alla realtà, mentre gli schiavi dintorno guaivano della gioia concessagli, il rumore a coprire ogni cosa, a soffocar le coscienze.
Fumava, per il sapore della nicotina accorpata alla birra, per l’ansia, perché in fondo mancava poco ad andare, e la voglia d’andare era tanta, di più la paura, e lo stomaco, ed il petto, reclamavano la vita da cui quella birra e quella sigaretta potevano distrarre, ma che nulla al mondo poteva sostituire se non la menzogna. Fumava, per far scorrere il tempo, lei che di tempo non ne aveva, troppo impegnata a dimostrare sapeva il cazzo cosa, solo per sentirsi dire di essere realizzata, avere un foglio, una prova, d’aver trovato l’equilibrio, quello che il suo egoismo non le avrebbe permesso mai di trovare, troppo presa a mostrare agli altri d’aver ottenuto qualcosa che invece avrebbe dovuto cercare solo per sé stessa. Fumava, per far scorrere il tempo, per arrivare più in fretta di fronte alle scale che avrebbe voluto salire. Fumava, per far scorrere il tempo, come la maggior parte dell’argilla animata del locale. Viveva, per far scorrere il tempo.
Con quattordici whisky vuoti davanti, l’Ispettore fumava nervoso, buttava la cenere nei bicchieri aspettando il n° 15, pieno. Umide e macchiate di cenere, tre pagine bianche morivano, con due battute appuntate sopra, sotto i bicchieri sul tavolo di Boujeau, quello fuori dal foglio. La cameriera vestita di nero gli sorrise e lo chiamò per nome, fuori campo, lui sollevò lo sguardo sul primo piano di lei, ringraziò, carrellò dalla figura di spalle che s’allontanava al prossimissimo piano del bicchiere di whisky, il numero 15, quindi strinse in dettaglio sul liquido ambrato. E Creatura e Creatore continuarono a bere.
Tutti si divertono.....tutti.....io no.....perché non ne sono capace........perché loro non mi vogliono.....eccolo qui il mio posto......questo cesso......sono fatto per stare al cesso..........sono un rifiuto...sterco.......ma in fondo sto meglio qui....là sono fuori posto le loro risate le loro parole io sto qui..........da solo...........sto meglio da solo....................................................................
...............................................................................................................è meglio per loro..
In silenzio. I due guardavano, muti, in direzioni opposte, il Ringhio osservava la cassa nera che rinchiudeva l’uomo dentro lo stereo, Doppia T scrutava il soffitto, cercando una fuga al trambusto, al caos provocato dalla mandria di porci, soffiando fumo verso banchi di fumo. Era una situazione particolare, per entrambe, stare seduti in un locale in mezzo a tutta quella gente, con l’orgogliosa misantropia condivisa dai due, sentimento che nel Ragazzo Folle toccava vette sofferte di odio estremo, per l’uomo, per la vita stessa, che toglie valore con un cazzo ed una figa a tutto quello in cui credi, e t’offende, t’offende nell’intimo più profondo, crea il dubbio nel tuo cuore, e soffri, e soffri, e non ne muori mai, sopporti, ma quanto è duro andare avanti tra tutte quelle carni, e che voglia di bruciare tutto, di macellare buoi e vacche, immergersi trionfanti nel loro sangue, come Aiace, e restare soli, ad attendere, o l’amore o la morte. Era l’odio, a tenerlo in piedi tra la folla. L’amore, a tenerlo al mondo.
Alessandro lasciò il gruppo dei colleghi dell’università, salutò Det incrociandola col vassoio, lei gli fece un gran sorriso, uno vero, non quello di lavoro che faceva agli altri clienti, e lo ringraziò per averle ceduto il passo. Il Ragazzo In Cravatta attraversò i tavoli, e si mise a sedere con i due suoi amici silenziosi. In qualche modo sentiva che quello era il suo posto, ma qualcosa lo obbligava ad intrattenere dei rapporti sociali poco interessanti solo perché così doveva essere, lo legava alle frasi di circostanza ed ai discorsi pieni solo di fiato, agli orologi placcati, agli elogi, alle vette da raggiungere, all’ultimo best seller letto, al programma televisivo della sera precedente, al marchio delle scarpe, alla birra rossa sebbene preferisse il vino. Appena accomodatosi, notò lo sguardo dei due muti fisso ad inquisire il suo collo, portò una mano al colletto, avvertì il nodo della cravatta, lo sciolse e la poggiò sul tavolo. Poi esplosero a ridere, tutti e tre, ed Alessandro chiese a Det un bicchiere per aggiungersi agli amici a bere vino, Malvasia rosso, da meditazione. E vivere davvero, per qualche minuto.
Già sapeva, però, che quando, mezz’oretta dopo, si sarebbe alzato, avrebbe raccolto la cravatta, e rimesso la camicia nei pantaloni, anche se stringeva il ventre, gonfio di birra.
Ad un certo punto, quando ancora il chiasso era imponente nel locale, Maja indossò il cappotto verde e s’apprestò ad uscire, senza salutare nessuno. Det la scorse da dietro il bancone, come ogni volta che l’amica si comportava in quel modo sentì il vuoto crearsi nel petto attorno al cuore, quasi che quello fosse fuggito non potendo reggere l’acre delusione che ogni volta gli dava l’egoismo della Donna In Verde, e la trachea avvertiva un fastidioso pizzicore, un soffio, disingannato, di pianto, di rabbia, di sconforto, di resa vera e propria di fronte alla sconfitta dell’essere umani. Per Alessandro, invece, era incomprensibile. Anche quando erano a letto insieme, lei era solo per sé stessa, pensava a prenderlo senza rischi, che vedeva solo per lei e per la sua carriera, poi stava un po’ a crogiolarsi della completezza di avere un uomo di fianco, comunque non indispensabile, e quindi rispondeva al telefono, si rivestiva, lo salutava formalmente, e tornava al suo splendido curriculum. Anche lui era dovuto diventare così, per piacerle. Ma non lo comprendeva, comunque, sottostava, per paura di perdere qualcosa, di restare solo. Non appena vide la Donna Che Pensava d’Amare vestirsi per uscire dal locale, salutò il Ringhio e Doppia T, scattò in piedi, recuperò la giacca e la seguì di fuori. Lei andava a casa. Lui la accompagnò, spaventato da quel suo solito modo di fare, che lei non lo amasse, che fosse arrabbiata con lui, o sapeva il cazzo cos’altro, però era lei, lei, e lui non voleva perderla, anche se era interessata solo a sé stessa, e lui si sentiva solo una cornice, una cornice che la amava, una cornice che senza di lei si sarebbe sentita vuota, inutile. La accompagnò, perché la amava.
……………………vaffanculo stronzo vaffanculo…………………………………………………………………
…………………………………………io non ho voglia di uscire cazzo doveva andare a pisciare lui ed io ancora più stronzo gli vado anche a chiedere scusa brutta merda cacasotto che sono………………
ma che cazzo io me ne vado a casa me ne vado fanculo io non sono fatto per stare qui ……………
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………………………………………………………………………………me ne vado a casa appena se ne sono andati tutti…………………………………starò chiuso qui ancora un po’………………………………
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Numero 27, andava a credito dal 23. la bella cameriera continuava a sorridergli, con un qualche dannato velo di commiserazione nello sguardo. Quando aveva portato il whisky numero 8, gli aveva chiesto se avesse scritto qualcosa. Boujeau le aveva risposto di no. Poi gli fece la stessa domanda portandogli il numero 25. Lui le diede la stessa risposta. Non aveva scritto niente, per tutta la sera, per tutta la giornata, a dire il vero, e ad esser sinceri, per tutta la vita. Per tutta la vita, niente. Però era convinto di essere un regista, uno scrittore, quand’era sobrio. Quando la dignità svaniva completamente dal suo sangue, affermava di essere l’ispettore Leonardo Boujeau. Lo avrebbe fatto anche quella sera, se il pacchetto vuoto non lo avesse costretto ad uscire per comprare le sigarette, e le gambe cedevoli non gli avessero fatto impiegare troppo tempo ad arrivare al distributore automatico e tornare al locale. Trovo la serranda calata, sedette con le spalle appoggiate al muro, accese una sigaretta e s’addormentò, guardando le stelle, così lontane dietro la coltre rossastra dello smog.
Det aveva tirato giù la saracinesca per metà, il locale era ormai quasi vuoto, solo un tavolo era occupato, sopra due bottiglie di Malvasia rossa, i due clienti muti. Il padrone del locale, il Maestro, chiese a quello magro e spettinato qualcosa. Quello tirò fuori la lingua mostrando una grossa ferita nel mezzo di essa, il Maestro fece una battuta sul piercing andato a male e si vestì per tornare a casa, Doppia T rise, e Det ricevette l’ordine di chiudere lei, se poteva. Misero tutte le sedie sui tavoli, lei, il Ringhio e Doppia T, e poi sedettero all’ultimo, con tre bottiglie di Malvasia, una piena, e stettero lì a bere per un po’, di gusto, che offriva la casa. Parlarono di ieri passati e domani impazienti, del senso di tutto e del senso del niente, del viaggio che s’apprestavano a fare, rotta a Nord per scaldarsi col freddo, un viaggio per stare insieme, in sette a scoprire belle città, belle persone, loro, un viaggio per conoscersi e conoscere, un viaggio per partire, un viaggio per arrivare, un viaggio per finire e ricominciare. Di lì ad un paio d’ore, il Ringhio e Doppia T sarebbero dovuti andare al lavoro, non sarebbero neanche andati a letto, che non si riesce a svegliarsi alle cinque se hai dormito due ore. Il Ringhio fece cenno d’andare col capo, Det prese il cappotto, le chiavi, la borsa, il cappello, il suo libro, il giornale, le foto e la macchina, le videocassette di due film di Kassovitz, la sciarpa, anche i guanti, un quarto d’ora ed è pronta ad andare, anzi no, il cd, col libretto, ora si, escono tutti, tra un quarto d’ora Boujeau tornerà con un pacchetto nuovo di Pall Mall ma troverà chiuso, Doppia T apre la macchina, salgono Det e poi il Ringhio, la portano a casa, a dormire, la Cenerentola In Nero, buonanotte Doppia T, buonanotte Ringhio, buonanotte Det, è ora d’andare, ci vediamo per pranzo, è ora d’andare, è ora d’andare.
……GO ON GO ON JUST WALK AWAY GO ON GO ON YOUR CHOICE IS MADE……
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……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ma che cazzo non c’è più nessuno ma cazzo mi han chiuso dentro che stronzi che stronzo che povero stronzo che sono ……
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………sono un coglione…………
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………mi han chiuso dentro……
.....
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dentro
IL VIAGGIO
Sabato. E pioveva. Forte. Doppia T ed il Ringhio la stavano prendendo tutta, ma non sembravano accorgersene. Digitarono al citofono del palazzo rosso il codice ricevuto da Alessandro, attesero qualche secondo, poi la voce di Maja irruppe tra i rivoli d’acqua e la serratura del cancello rosso scattò. Gli era stato detto al terzo piano, la porta era aperta, Alessandro li salutò senza staccare gli occhi dalla guida turistica della Scandinavia, Maja offrì loro un caffè, strillando però che non bagnassero in giro, fradici com’erano. Uno, coso, come si chiamava, era in bagno, già da un po’, a
dire il vero, mentre Leonardo stava seduto di fianco ad Alessandro, pregustando il quadrinomio imminente caffè, sigaretta, ammazzacaffè, sigaretta. Tutti aspettavano l’ultimo ospite, la cara, dolce Det: un’ora e mezzo dopo, un’ora e mezza in ritardo, Det squillò al campanello della porta, sperando di farsi perdonare l’attesa col dolce che l’aveva trattenuta in cucina.
Si trattava di viaggiare attraverso le terre nordiche, in treno, per un paio di settimane, tra novembre e dicembre. Maja era poco convinta dalla faccenda, le sembrava troppo faticoso viaggiare continuamente, dover dormire in treno la notte, e passare una vacanza in movimento, abituata com’era a passare russando ogni momento di riposo della sua carriera. Ma presto sarebbe dovuta partire, e le sembrava giusto accompagnare i suoi amici in quel viaggio. Gli altri sei, coso era finalmente uscito dal cesso, sembravano tutti, chi più chi meno, entusiasti del tour organizzatosi: dovevano solo trovare i soldi. Il Ringhio e Doppia T avevano un lavoro quasi fisso, e non si sarebbero fatti comunque problemi a partire senza denari, arrangiandosi alla giornata. Per Alessandro e Leonardo, pagavano i rispettivi papà. Maja aveva i suoi risparmi col lavoro di assistente all’università, Det si sarebbe arrangiata coi suoi part time, coso lavorava da qualche parte, e così si decise di andare incontro al freddo nordico, tutti insieme, tutti e sette, cinque anni prima, gettandosi tra le braccia dell’ignoto, il destino, senza sapere che tale viaggio avrebbe comportato un ritorno: dopo cinque anni, ad Ystad.
IL BRANCO
Li univa l’orgoglio.
Certo, li univa l’affetto: l’amicizia, sentimento di familiarità. Con tutti i suoi ingredienti, fiducia, lealtà, simpatia, dedizione. La comunanza di interessi. Ma quei quattro figli di puttana erano uniti da qualcos’altro ancora, più forte, più grave, più violento: la rabbia. L’odio. Ed uno sterile orgoglio. E mentre per i suoi tre compagni tale sentimento si limitava ad essere coltivato di dentro, nel cuore nella testa e nello stomaco, il Ringhio ne era sopraffatto, travolto, non riusciva a contenerlo e peggiorava la sua permanenza nel mondo con nuovi fastidi, nuovi nemici, nuove avversità e difficoltà ed ostacoli ed insofferenze. Era insofferente a tutto, compreso sé stesso. L’orgoglio di rifiutare gli ambienti accademici come luogo di studio, e trovarsi a spaccarsi le mani per campare senza più avere tempo né forza per fruire o creare. L’orgoglio di non imparare. L’orgoglio di opporsi a chiunque lo volesse diverso, di non sorridere a sforzo, piuttosto sanguinare. L’orgoglio di non dire “sto male”, l’orgoglio di non chiedere per non ringraziare. L’orgoglio di chiudersi in casa a piangere, gridare, tagliarsi, sfregiarsi e sanguinare, l’orgoglio di farsi male per sopportare. L’orgoglio di stare male.
Erano stati giorni di pioggia, ed un altro ancora aspettava, dietro il mattino della Grande Città, mentre il Ringhio di nuovo carezzava coi capelli l’asfalto. Aveva diciassette anni, e già l’odio lo mangiava. La frustrazione.
Lui era un pazzo: perché gridare la rabbia contro chi pensa solo per sé stesso, cantare ad alta voce per la strada, scrivere sulla giacca e camminare scalzi sopra l’erba dei giardini, questi sono tutti atteggiamenti da malato di mente. Il problema più grosso, per lui, non era tanto che le persone gli facessero notare l’anomalia dei suoi comportamenti, ma che cercassero di impedirglieli in ogni modo, negandogli la libertà d’approcciare alla vita nel modo più piacevole e sensato secondo i suoi criteri di giudizio; in realtà, anche questo non sarebbe stato un problema tanto grosso, dato il suo disinteresse ad ascoltare critiche ed obbedire ai veti. Il problema vero era che, più cresceva, più restava solo, gli amici li abbandonava fino ad evitarli. Non il Branco. Ignorava quale fosse il legame, sapeva solo di sentirlo e non volerlo tradire. Gli altri tre lo aspettavano sotto il porticato della Villa nel Parco, pioveva, più forte, stavano lì e ridevano di qualcosa successo qualche sera prima. Il Ringhio di lontano sorrise, e avvicinandosi si mise ad ascoltare, non capiva ma rideva. Doppia T raccontava di come la barba d’un tizio avesse preso fuoco con la candela in un locale, e delle reazioni scomposte di quella tizia c
LB
I EPISODIO
Milano. Un’auto parcheggiata lungo un marciapiede d’una via poco trafficata. Autunno.
LEONARDO BOUJEAU (in macchina, mette a posto qualcosa, poi prende le chiavi e mette in moto. Mentre ingrana la retromarcia Antonella bussa al finestrino del passeggero; lui la guarda a metà tra il distratto ed il rassegnato.) Ciao,‘ntonella…
ANTONELLA (bella, magrettina, capelli scuri,pelle d’avorio, veste di nero con particolari arancione. Farfallona) Ciao Leonardo, senti me lo dai un passaggio, devo andare al bar e sono in ritardo, lo sai com’è il Maestro…(entra in macchina)
BOUJEAU Ma io non passo dal bar…(distratto)
ANTONELLA Daai, per favore, non èe lontano, che ti costa…
BOUJEAU Non ho detto che non t’accompagno…
ANTONELLA Grazie, Leo, sei un tesoro
BOUJEAU (distratto) non chiamarmi Leo…( e partono).
In macchina, LB ed A.
ANTONELLA Come vanno le cose, Leo?
BOUJEAU Al solito…
ANTONELLA Ma in pratica che lavoro fai?
BOUJEAU Nessuno, e cerco di sopravvivere…
ANTONELLA Ma fai davvero l’investigatore privato, come Magnum P.I.?
BOUJEAU See, magari…
ANTONELLA Ma ce l’hai la pistola?
BOUJEAU Mhm?!
ANTONELLA Dove la tieni? (apre il cruscotto e trova la rivoltella: subito la prende in mano) Allora ce l’hai, la pistola… Che gran bella pistola che hai, Ispettore Boujeau…
BOUJEAU (sorride distratto, poi) Dai, mettila via, è carica.
ANTONELLA Oh, hai la pistola carica, allora sei pronto a tutto… E fammi vedere come lo usi, il tuo pistolone…
BANG!
Un’automobile volta l’angolo a gran velocità, in lontananza sirene della polizia che s’avvicinano. Il proiettile partito dalla pistola di Boujeau sfonda il parabrezza della sua auto e va a colpire il guidatore dell’auto in fuga, il quale muore sul colpo. L’auto in fuga si schianta contro un palo.
BOUJEAU Occazzo…!
ANTONELLA ?!
Boujeau ingrana la marcia e parte via di corsa: ha riconosciuto l’auto degli sgherri di Vittorio Gambino, e sa di essere nei pasticci. Nella fretta tampona l’auto di Ivan, violento zarraccio della zona. Boujeau riesce a fuggire(corre subito a casa ma lascerà l’auto in un garage del Maestro)
Casa di Boujeau, locali grandi, ariosi, confusi, disordinati. BOUJEAU è in sala da solo, fuma una sigaretta mentre guarda dalla finestra che dà su una via molto trafficata.
BOUJEAU FUORICAMPO (primissimo piano rotante ad allontanarsi)Il mio nome è Leonardo Boujeau, e faccio l’ispettore di polizia criminale…(viene via dalla finestra e la visuale lo segue mentre attraversa le stanze in direzione del bagno) Abito in questo appartamento in affitto, il padrone di casa convive con me ed un altro inquilino: io questo non l’ho mai visto, anche se ci ho parlato spesso (bussa alla porta del bagno occupato)
DIO Occupato…
BOUJEAU Scusa, non volevo disturbarti…
DIO Vai in pace, figliuolo.
BOUJEAU FUORICAMPO (torna in sala e si butta sul divano con la sigaretta accesa) Il suo nome non me l’ha mai voluto dire; Marietto, il padrone di casa, afferma che è Dio, ma ho smesso di credergli da quando si svegliò il mattino dopo un cartone di LSD asserendo d’aver insegnato a suonare a Jimi Hendrix… E’ amaro ammetterlo, ma ormai vivo sulle spalle di Marietto e del Maestro, il padrone del Carlito’s Bar, l’unico posto oltre a casa dove riesco ad elemosinare qualcosa da mettere sotto i denti. Loro m’aiutano volentieri, ed io cerco di dare loro tutto quello che posso per ricambiare; il problema è che mi ficco in guai sempre più grossi e la corda, si sa, prima o poi si spezza. Ci mancava solo il casino di stamattina…
Parte la sigla d’apertura, forse “Paranoid” dei Black Sabbath. La visuale s’allontana attraverso le stanze, inquadra Marietto, alto, ben messo, capellone, faccia da buono ed occhi assenti, fuma con la chitarra a tracolla mentre ascolta appunto “Paranoid” sullo stereo; poi si perde nel cielo fuori dalla finestra, grigio, decorato da colonne di smog. La scena successiva si apre sul fumo di sigaretta.
Nebbione di fumo di sigaretta. Boujeau, Antonella, Marietto ed il Maestro(partenopeo, occhiali scuri anni ’70, in camicia con un cappotto col collo di pelliccia sempre anni ’70, capelli trascurati, catena d’oro al collo con la camicia sbottonata, orologio d’oro, accento del SUD) seduti ad un tavolino appartato del Carlito’s Bar, fumano con un cylum. Piano sequenza circolare dal centro del tavolino, tutti primi piani. La macchina segue il cylum.RIUTILIZZA COME SCENA FINALE
BOUJEAU (gli viene passato il cylum da fuori campo, lui con la mano lo prende e subito lo passa dicendo) No, grazie.
IL MAESTRO (contemporaneamente a Boujeau da fuori campo, poi sarà lui a prendere il cylum da Boujeau) Guagliù, ma ch’avete combinato? Ma lo sapete ch’avete fatto uno sgarro a don Gambino, e mò siete pure ricercati? Oimaronna(aspira un tiro di fumo), e mò che facciamo? Ci debbo pensare io, come al solito, eh, Leonà…(passa il cylum a Marietto)
BOUJEAU FUORICAMPO Ha ragione, Maestro, ma il guaio è fatto.
No...
Il furgone bordò mangiato dalla ruggine è fermo di fronte da ieri sera. Stamattina, un ceffo spiegazzato se ne è trascinato fuori, si è allontanato, ed è tornato con un sacchetto di carta bianca unto dal contenuto, ed un thermos con cinque o sei bicchieri di cartone infilati in testa. E così, ancora spiegazzato, ma un po’ più sveglio, è rientrato nel furgone. Boujeau ha capito, da dietro le tapparelle della sua finestra, che dentro quel furgone qualcuno aspettava l’uomo spiegazzato, ha capito che quell’uomo non è il premuroso padre di una famigliola di nomadi, ed ha capito di essere nei guai. Il problema è, non sa perché, non sa come uscirne. Prende il telefono, e chiama Endrix, quattordici squilli per svegliarlo, quello si incazza, però si veste, si lava la faccia, scende le scale dal terzo al secondo piano, bussa alla porta di Boujeau, “stronzo…”, entra in cucina, mette a fare il caffè e s’infila in bocca un biscotto trovato sul fondo di un pacchetto alla fine.
No...
“Leonardo Boujeau” stava scritto sul brandello di carta straccia, e “Leonardo Boujeau, Ispettore” stava scritto sulla porta di quell’ufficio della centrale di polizia. La ragazza, capelli neri ed un sorriso bianchissimo, occhi d’ebano e tre piccole cicatrici a branchie di pesce sul sopracciglio sinistro, un lungo e sgualcito impermeabile a coprire le fattezze di quel corpo nervoso e scattante, non ancora convinta bussò a quella stessa porta.
“Avanti!”
“Permesso...”
La ragazza scivolò dentro come un gatto; davanti, le si mostarva un ragazzo magro, sui trent’anni, serioso e freddo, d’una risibile eleganza da cantante elettrowave anni 70, seduto ad una scrivania, la scrivania più grande e disordinata dell’ufficio.
“Mi dica...”, disse l’uomo, portandosi in avanti a poggiare i gomiti sulla scrivania con sopra la targhetta a presentarlo, Isp.re Leonardo Boujeau.
“Lei è l’ispettore Boujeau?!?” chiese la ragazza, i cui dubbi dopo questo incontro s’erano ingigantiti e moltiplicati, e quasi risolti nella decisione di far finta di nulla e rioltrepassare il portone principale del commissariato per tuffarsi di nuovo nella fiumana di consumatori pronti all’acquisto d’ogni bene pubblicizzato ed acquistabile, e lasciarsi affogare così.
Flebilmente, l’uomo rispose “Beh, in un certo senso...”.
“CHE CAZZO FAI SEDUTO ALLA MIA SCRIVANIA, FRANZ!?!”
L’ometto scattò in piedi mugolando “Oh, mi perdoni, ispettore, stavo dando un’occhiata ai rapporti del caso Fantocci quando è arrivata questa signorina che vorrebbe parlarle a quanto ho capito di cosa non so la stavo ascoltando per caso ero qua...mi perdoni, ispettore...”.
L’uomo entrato dalla porta sembrava
No...
È inutile insistere. Ora devo solo aspettare l’idea. Arriverà, l’idea, ed io saprò afferrarla, coglierò l’opportunità. Molti sono capaci, ma non hanno l’opportunità. Io, invece, devo solo aspettare quell’idea, sarà una, nella vita, anche solo una, ma l’avrò. Aspetterò la grande idea. Sono anni che me ne sto di fronte a questi fogli che restano bianchi, fogli che cominciano storie senza finale, incorporee, personaggi che prendono solo l’aspetto, si vestono e muoiono poco dappresso, barlumi di soggetti composti solo da un luogo o un’immagine, è l’inchiostro, l’inchiostro, è colpa sua, è lui che non riesce a descrivere ciò che accade nella mia testa, lo uccide alla nascita, non sa plasmarlo, io lo vedo con gli occhi e la mano non riesce a scrivere, tutto resta dentro, non nasce, è un feto che ho dentro da anni e non vuole uscire, perché forse non è completamente sviluppato, o perché non riesco a partorirlo, è un peso in testa, un peso da cui non riesco a liberarmi, non riesco a liberarmi, non riesco a scrivere, a scrivere.
Boujeau accende una sigaretta, si sdraia sul letto, fissa il soffitto, ed aspetta. Quando sarà il momento, lui lo saprà, lo sentirà. Per intanto, lui aspetterà.
S
Dipingere di bugie. Grandi, piccole, condiscendenze gradevoli quanto mendaci. Un trucco, per portare avanti la pellicola d’una vita che è falsa, trucco essa stessa.
Ed aveva trovato un trucco efficiente: rispondere a ciascuno ciò che questi volesse sentirsi dire, lasciando scorrere il tempo finché non fosse troppo tardi per fare ciò che non aveva mai avuto intenzione di fare.
M
Maja se ne stava tranquilla seduta davanti alla parete di vetro del piano ristorante del battello. Spettri plasmati dalle nubi candide nel cielo l’avevano catturata ed incantata, inchiodata alla poltrona di fronte a sé stessa, come riflessa allo specchio a vedersi dall’esterno. Vide l’ultimo sorriso di Det perdersi nella spuma del mare, cinque anni prima ed ora di nuovo, vide l’uomo in lacrime che la salutava al check in dell’aeroporto, mentre lei partiva per New York, un pianto silenzioso per gridarle quanto la amasse, Alessandro, povero Alessandro, che la chiamava tutti i giorni e trovava solo una segreteria che parlava inglese, mentre lei era presa a costruirsi un futuro, e non aveva tempo neanche per un “mi manchi”, o come forse sarebbe stato più corretto, per un “non aspettarmi, non tornerò”. Tastò le tasche della giacca del tailleur cercando le sue sigarette francesi, ne portò una alle labbra rosso Chanel macchiandone il filtro, e si mise a cercare i cerini. Una mano, reggendo un accendino, le offrì il fuoco che le serviva.
Ringraziò l’uomo, civettando una certa compiacenza per il favore ricevuto, tirò una gran boccata di fumo e la espirò, fissando con sorriso ingannevole il volto di quello, che s’era fermato ad accendersi anch’esso una sigaretta, una Pall Mall. Quindi l’uomo sedette, sulla poltrona di fianco a quella della Donna Col Cappotto Verde.
“Incredibile, a volte, come le nuvole in cielo ci mostrino apertamente ciò che ci rode di dentro...” disse in italiano l’Uomo Seduto Di Fianco osservando l’azzurro oltre il vetro. Maja restò sconcertata da quelle parole. Era un uomo trasandato, ma piacevole, d’un fascino maudit. E le chiese: “come mai dalla Statua della Libertà ad Ystad?”. Lei ci rimase, avvampò, lo aggredì, “e lei che ne sa?”. Lui, calmo, le spiegò che le scritte sul pacchetto di sigarette di Maja era in inglese, e ciò gli suggeriva perciò che venisse dagli Stati Uniti: in Inghilterra, quella marca la importavano direttamente dalla Francia, con scritte francesi, dunque, ed il tipo di abbigliamento, invernale, gli faceva intuire invece che lei non venisse dall’Australia, arrivando dalla quale avrebbe avuto abiti da mezza stagione, essendo là estate piena. La Statua della Libertà, perché l’ultimo scalo prima di partire per l’Europa avrebbe dovuto essere New York. Ecco tutto. Maja, sbalordita, chiese all’uomo chi fosse. “Boujeau, polizia criminale.” “E l’italiano?”, disse Maja dopo qualche secondo di silenzio. L’uomo rispose d’aver intuito che era italiana dalle imprecazioni in lingua madre. Maja rise.
L’uomo di nome Boujeau era italiano, come lei. Era incredibile la lucidità che mostrava nonostante il rivoltante fetore di alcol che gli aleggiava intorno, era quasi certamente ubriaco fradicio, ma non lo sembrava, quasi che l’alcol avesse tirato fuori una persona diversa da quella che probabilmente era in realtà. Non lo stesso uomo deformato dall’alcol, ma un altro uomo. Maja, per conto suo, non ne era disgustata come si sarebbe sentita in una situazione del genere con chiunque altro, ma anzi, ne sentiva il fascino. “E lei, cosa va a fare, ad Ystad, ispettore?”, chiese Maja ambiguamente. Lui la guardò, quasi severo, e sussurrò: “quello che vai a fare tu: ho un appuntamento, l’hai fissato tu, cinque anni fa, non ricordi?”. La Donna In Verde ebbe un sussulto, un brivido, mentre il cielo di fuori si copriva, e riconosceva la luce negli occhi di Leonardo, il vecchio Leonardo.
“Davvero non mi avevi riconosciuto?”, chiese Boujeau, spegnendo la sigaretta in un posacenere per accenderne subito un’altra. Maja, ancora sconvolta da quell’incontro quasi terrorizzante, da quell’impatto pieno col passato, accennò una conferma col capo. Tremava. Leonardo sorrise, “hai capito, allora, come sapevo tutte quelle cose di te?”. Ma Maja ormai era persa in un vortice, fatto dei volti che aveva quasi dimenticati, volti che in cinque anni erano cambiati, volti a cui non sarebbe stata in grado di confessare che non ne aveva sentita la mancanza e che forse, se fossero stati tutti morti, le avrebbero reso più leggero il ritorno a casa. Sensazione dettata dalla consapevolezza e dal senso di colpa di averli traditi.
Maja aveva deciso di partire per l’America, ed accettare un lavoro come assistente all’Università di New York. Lei faceva già l’assistente per una cattedra nell’Università della sua Città, ma aveva deciso che New York era New York. Sarebbe dovuta partire prima del termine delle vacanze. Questo amareggiava i suoi amici, ed il suo ragazzo, Alessandro, il fatto di vederla andarsene a metà del viaggio attraverso le lande scandinave, e poi non vederla per cinque anni. Era per accontentarli, che aveva fissato quel fasullo appuntamento ad Ystad, che lei riteneva uno scherzo, gli altri sei una promessa. Il suo scherzo finì, dopo ventiquattro ore dall’arrivo nella Grande Mela, quando seppe della tragedia che aveva spezzato definitivamente il viaggio e le vite dei suoi vecchi compagni.
I suoi sei compagni di viaggio la circondavano, cercando di mostrarsi allegri, nella stazione di Malmo, mentre lei s’accingeva a partire per Kobenhavn, tornare da lì nella Grande Città e prendere l’aereo della svolta, la sua svolta. “Buon viaggio!”, le augurò Alessandro, un po’ impacciato. “Grazie”, rispose lei, raggiante e decisa. “Ascolta, ti inviamo una e-mail, così ci fai sapere come è andato il viaggio... tra un paio di giorni noi siamo ad Ystad...”.
“Allora, ci vediamo ad Ystad, tra cinque anni”, rise Maja, colla sua giacca a vento verde. In coro, gli altri sei giurarono, solennemente: “Ad Ystad, tra cinque anni!”
Leonardo ricordava bene quel momento, era ancora troppo presto perché fosse già ubriaco. Ricordava anche che Maja non fece mai sapere se fosse arrivata o meno. L’avrebbero rintracciata solo quattro giorni dopo la tragedia di Ystad, con un messaggio di posta elettronica sintetico e terribile, che lei avrebbe letto solo dieci giorni dopo averlo ricevuto, a cui non avrebbe mai risposto, ma avrebbe coltivato nel suo animo il rimorso come lo stimolo a rispettare la promessa.
Cenarono insieme, senza toccare l’argomento ”vecchi tempi”, che forse entrambe volevano eludere, ed invece discorrendo e raccontandosi quello che avevano fatto negli ultimi cinque anni. Maja era diventata docente e ricercatrice di lingue inglese e tedesca, aveva pubblicata la tesi di laurea per un editore che poi pubblicò altri due suoi libri. Era diventata una esimia nell’ambiente accademico statunitense ed italiano. Gli allievi dei suoi seminari, ed alcuni colleghi, la chiamavano Frigidaire, ironizzando sulla sessualità della personificazione della Professionalità, ma questo lei non lo sapeva. Non sapeva neanche che molti avevano imparato a detestarla, tra cui il suo giovane assistente, il quale aveva messo in circolo la voce che gli uomini non le interessassero, perché troppo affezionata ai lavori manuali del “fai da te”.
La vita di Leonardo era stata molto più semplice: al mattino si svegliava, accendeva una sigaretta ancora dentro il letto, pensava a cosa avrebbe scritto quel giorno, poi s’attaccava alla bottiglia, e si svegliava il giorno dopo. Mangiarono tutto con gusto, senza imbarazzi. Nel momento in cui si erano incontrati e riconosciuti, il tempo era stato cancellato, il passato diventava racconto, avvenuto solo nel pensiero e nel ricordo, mentre loro erano lì, insieme, a mangiare, come cinque anni prima, cinque anni mai trascorsi, cinque anni ed erano ancora loro, quei ragazzi di ventun’anni, a ventisei. E giunse l’ultimo bicchiere di vino. Maja sbadigliò, provata dal viaggio e dal Chianti, ed il gentiluomo Boujeau, il personaggio, si offrì di accompagnarla in camera non appena lei lo avesse desiderato. Lei sorrise e ringraziò, accettò la Pall Mall portale dall’uomo, lasciò che lui la accendesse, accavallò le gambe strappando le calze di nylon verdi in una imperfezione della sedia su cui stava seduta, imprecò un qualche santo, Leonardo rise e la guardò in silenzio.
Entrò in lei con impressionante irruenza, Maja ebbe un sussulto, sentì un calore lacerante tra le cosce e mugolò di piacere. Leonardo, sopra il suo corpo nudo, bolliva, sudava, le sembrò che grugnisse, ma un velo calò sui suoi occhi spalancati dalla passione, il corpo travolto dalla virilità eruttiva del maschio che teneva di dentro. L’uomo s’accasciò su di lei, svuotato, stremato, quasi incosciente. Lei sospirò, e per la prima volta in vita sua, non pensò di fumare dopo l’orgasmo, completamente rapita dall’immagine fissatasi nella sua mente, Leonardo, il vecchio Leonardo, un nuovo Leonardo, l’uomo che aveva appena amato, sdraiato su di lei, così bello come non se lo ricordava, come lo voleva, la presenza bollente sul suo ventre appena allontanatasi per cercare una sigaretta nella tasca dei calzoni gettati a terra, lasciando la sua pelle nuda intirizzirsi al freddo. “Vado a fare i bagagli, tra un paio d’ore sbarchiamo ad Ystad... mi trovi al bar, se vuoi...”. Leonardo allacciò la cintura ed uscì senza voltarsi, mentre lei pregava perché lui la baciasse, perché tornasse a scaldarla col suo calore, assaporando una qualche muta umiliazione. Vedendosi là, su quel letto, scoperta sulle lenzuola disfatte, un’altra nuova, vecchia immagine venne ad alimentare le sue lacrime. Alessandro...
HostELL
Leonardo camminava lungo il sentiero che collegava attraverso il cantiere il porto all’ostello di Ystad; qualche metro dietro, Maja lo seguiva impacciata trascinando la pesante valigia rigida, le cui rotelle si incastravano tra le pietre della strada sterrata. Lei, Ystad, non l’aveva mai vista. Lui, se la ricordava identica a quel paesino silenzioso di fronte ai suoi occhi, immobile, sospesa, un mortorio, come cinque anni prima.
Sulle scale dell’ostello, Doppia T stava seduto a fumare ormai da qualche giorno. Pensava sarebbe stato meglio masticare catrame, piuttosto che assaporare il tabacco delle Blend svedesi, e disgustato, semplicemente, ne accendeva un’altra. Salutò Leonardo, come se si aspettasse di vederlo sbucare nel vano scala con accesa la sua Pall Mall, o forse solo se lo augurava per fumare qualcosa di simile ad una vera sigaretta. Fu l’entrata di Maja, che non s’aspettava: lei lo guardò, gli sorrise e lo salutò, senza l’imbarazzo che invece provava il Gigante Seduto a Terra ad incontrarla così, dopo quel lustro passato senza vedersi e mai cercarsi, Maja. Quasi non l’aveva riconosciuta, se la ricordava ventunenne a sognare il suo futuro come fosse un gioco, se la trovava di fronte donna, soddisfatta nella sua ambizione, col gelo negli occhi ed un alone d’altezzosità e superbia che faceva venir voglia di prenderla a sberle. Nonostante questo, rispose al saluto cercando di mostrarsi contento di quell’incontro, supportato in questo dallo stupore dovuto alla smentita della sua convinzione che la Donna Col Cappotto Verde non sarebbe mai venuta all’appuntamento.
Leonardo salì veloce le scale, una mano in tasca, l’altra a reggere la sua piccola valigia da viaggio. Maja gli arrancava dietro, imprecando tutti i santi del calendario, sollevando a fatica il suo valigione rigido, lussuoso sarcofago contenente il suo aspetto d’affidabilità. Quando la Donna Col Cappotto Verde spuntò sul piano delle stanze, Leonardo aveva già ritirato le chiavi alla reception; lei s’affannò per raggiungerlo senza che lui rallentasse per aspettarla. Maja aprì la porta lasciata socchiusa da Boujeau ed entrò nella loro stanza, Leonardo fumava seduto sul letto a guardare verso la finestra. Maja tolse il cappotto sospirando sollievo, l’ispettore le afferrò le spalle, premette il proprio petto sulla sua schiena, la baciò sul collo, e se la scopò.
Mentre il treno si fermava, Alessandro scorse l’ostello accanto alla stazione di Ystad. Coprì la cravatta con la sciarpa, attese s’aprissero le porte, e scese sulla banchina del terzo binario. In fondo, dove l’asfalto di questa cominciava a perdersi tra le erbacce, il Ringhio stava seduto, come cinque anni prima, su una vecchia sedia di legno abbandonata, con le mani conserte davanti alla bocca, le spalle alla stazione, e lo sguardo smarrito laddove scomparivano le rotaie, all’orizzonte. Alessandro decise fosse meglio non disturbarlo, salutò con un cenno Det, seduta a sorridergli sul davanzale di una finestra dell’ostello, e s’avviò stancamente verso l’entrata di questo.
Il seno di Maja premeva schiacciato contro il materasso, sudore imperlava l’abbronzatura artificiale sulla pelle del suo corpo nudo, inginocchiato sul letto come un pupazzo gettato via, sfinito, sfibrato, col culo per aria. Tre minuti prima, Leonardo aveva acceso l’ultima Pall Mall del primo pacchetto del giorno, s’era rivestito ed era uscito. Ora Maja giaceva assopita nel piacere. Sei minuti prima, Leonardo aveva grugnito lasciando sgorgare nel ventre di lei la sua virilità. Maja sentiva ancora lo sperma del suo amante fugace scorrerle lungo le cosce bagnate. Contrasse il volto in un impercettibile riflesso, e s’accorse d’avere il viso affondato in una pozza di bava. Non si mosse: non ci riusciva. Dieci minuti prima, Leonardo Boujeau le era scivolato alle spalle e l’aveva spogliata per possederla. Due mesi dopo lei avrebbe abortito per non creare intoppi alla propria carriera. Leonardo non si sarebbe opposto. Anzi, non se ne sarebbe neanche interessato. Nove minuti prima, lui l’aveva penetrata con violenza da dietro i glutei, strattonandola, piegandola tra le sue braccia potenti; a lei, era piaciuto. Un quarto d’ora più tardi, però, avrebbe pianto. Ora, sospesa, nel momento in cui il tempo è convenzione, e si può vivere tutto il passato e tutto il futuro e tutti i possibili nel medesimo istante, travolta dalle sensazioni, Maja ancora non poteva scorgersi come una figura definita; ma quel quarto d’ora dopo, quando Leonardo sarebbe rientrato in camera, svegliandola, senza dire una parola, per uscire senza guardarla con un pacchetto pieno di Pall Mall, allora le lacrime si sarebbero unite calde alla saliva gelata impregnata nel lenzuolo, mentre il bruciore tra le cosce si sarebbe fatto più intenso e pruriginoso.
Doppia T mise a fare il caffè per tutti, nella cucina dell’ostello. Accese una sigaretta ed aprì la finestra, aspettando l’ebollizione dell’acqua nella caffettiera.
Alessandro era arrivato da poco, e si era sistemato nella stanza di Doppia T. Il Gigante gli aveva fatto sapere che erano già arrivati anche Leonardo e Maja, e quindi, dei sette del vecchio viaggio, ne mancava solo uno, coso. Alessandro cercò di camuffare la sua gioia impaziente di rivedere quella che lui ancora considerava la sua donna, amata per cinque anni di lontananza senza mai cedere, mai arrendersi, solo cercando di non deludere le sue aspettative, stringendo sempre più il cappio intorno al collo. Aveva trattenuto il sorriso, e s’era impegnato a cercare di contattare quello che non c’era, poi era corso a prepararsi a rincontrare la sua Donna. Certo, ora che Doppia T stava in cucina a versare il caffè nelle quattro tazzine sul vassoio, e Leonardo se ne stava seduto in poltrona a fumare, e lui guardava Maja che guardava Leonardo ed ancora non gli aveva parlato oltre quel “ciao” distante di qualche minuto prima, Alessandro si rese conto che non solo sarebbe stato difficile rivederla e far finta non fosse passato tutto quel tempo senza vedersi, ma sarebbe stato ancora peggio di quanto si era aspettato sino ad allora. Doppia T spense la sigaretta, per non dare fastidio a Det col suo fumo, e portò i quattro caffè nella hall dell’ostello: Det non l’avrebbe bevuto comunque, non lo amava granché. Il Gigante sedette, ed oltre quel paio di “grazie” tornò il silenzio.
Poi Det tossì, e Doppia T ruppe il mutismo generale: “Non fumare, Leonardo, dà fastidio...”
“A chi?”, chiese Leonardo stranito, quasi che quella richiesta gli sembrasse assurda. Il Gigante fece un cenno col capo verso la finestra, e disse: “A Det.”. Alessandro fu come svegliato di colpo dal suo torpore, si girò verso Doppia T e cominciò: “Ma Det…”, poi scorse la determinazione negli occhi dell’amico e si fermò a guardare Leonardo, il quale spense la sigaretta con un ghigno divertito.
“Chi manca?”, chiese Maja.
“Coso, come si chiama…”, rispose Alessandro, “anzi, adesso vado a chiamarlo al telefono, per sentire se è partito, sai, dopo cinque anni può darsi si sia dimenticato del ritrovo… vuoi venire con me, Maja?”
“No, grazie, vai pure… anzi, già che scendi guarda se mi trovi le sigarette in tabaccheria, conosci la marca, no?”
“Già, conosco la marca…”
Sei ancora tu? T’ aspetto da cinque anni, e tutto quello che sai dirmi è ‘comprami le sigarette’? Ti ho cercata per cinque anni, ti ho aspettata per cinque anni, ho fatto da solo per tutto questo tempo, ho dedicato ogni mio giorno a te, ho pregato ogni sera d’addormentarmi e risvegliarmi oggi, di fronte a te. E tu? Forse aveva ragione il Ringhio: diceva che se te ne andavi per te, era perché io non faceva parte di te. Diceva che l’eternità è una semplice evoluzione lungo la stessa linea, perché niente è eterno. Noi potremmo renderlo tale, ma siamo troppo piccoli. Ed io, ora, io, ho paura che tu, in fondo, sia troppo piccola. Perché ho seguito la tua strada, con questa cravatta di merda che mi stringe il collo, quelle cazzo di scale che portano in alto, ed ora mi sento solo un piccolo stronzo. Piccolo. Quel giorno non avrei dovuto correre in ufficio. Sarei dovuto restare a casa del Ringhio, avrei dovuto tornare quello di un tempo, come diceva lui. E forse, tu mi avresti amato ancora, perché in fondo ci troviamo sempre ad amare ciò che non abbiamo. Avresti continuato ad amarmi come sempre, fumando dopo aver scopato, scopando solo nel fine settimana che non avevi impegni, scopare e scappare lasciandomi lì a piangere come un coglione. Come un bambino. Vaffanculo, Maja. Ti amo, vaffanculo!
Nella hall seguitava l’impero del silenzio. Pesante, grave, tedioso silenzio. Leonardo non fumava, Maja lo osservava, Doppia T fissava il fondo della tazzina, e Det sorrideva a tutti, come aveva sempre fatto. Poi entrò il Ringhio, ed il silenzio scappò. “Vado a fumare una cazzo di sigaretta!”, esclamò Boujeau, il silenzioso Boujeau, alzandosi dalla poltrona sulla quale si sedette il Ringhio. “Ti seguo…”, suggerì la Donna Col Cappotto Verde, alzandosi a sua volta. Leonardo non rispose, semplicemente in silenzio uscì, rincorso dalla Donna In Verde, mentre Doppia T distribuiva i pezzi sulla scacchiera di legno sfidando il buon vecchio Ringhio e Det cantava una canzone triste e meravigliosa guardando oltre il vetro lucido della finestra.
Come cazzo si fa poi a fumare sigarette fatte da uno stilista francese... ma se quello fa i vestiti, che ne sa di come s’essicca il tabacco? Certo, non m’aspettavo proprio che quel poveraccio avrebbe fatto quella fine... certo, era un tipo strano, chiuso, aveva dei problemi, ma abbiamo sempre cercato di tirarlo dentro, anche il viaggio di cinque anni fa, a momenti dovevamo costringerlo e legarlo, per farlo venire... poveraccio... poi, sembrava capitassero tutte a lui, ricordo quando non andò a lezione perché era rimasto chiuso dentro il locale di Det. Che tipo! E adesso, anche adesso, è finito in coma perché non ha più voluto uscire di casa! Cioè, ha preferito NON mangiare piuttosto che entrare in un supermercato a fare la spesa. Alla fine, più che dire poverino, ti viene da farti due risate... uno che muore d’imbarazzo! Carlo! Ecco come si chiamava, Carlo! Appena torno a casa, vado a trovarlo in ospedale...
Leonardo camminava in silenzio e fumava, una mano in tasca. Maja cercava di stargli dietro come poteva, scivolando sul ghiaccio dei marciapiedi di Ystad. “Leonardo?”, chiamava, quello si girava e la guardava, lei gli sorrideva, e lui si rivoltava e ricominciava a camminare. Alle sei di sera, le strade cominciavano ad amalgamarsi nelle ombre, poche luci dai negozi e dai lampioni, Alessandro che tornava dal negozio di tabacchi. Maja raggiunse il suo Boujeau, s’attaccò ad un suo braccio, lui si fermò e lei gli poggiò la testa sopra il petto. E mentre Alessandro s’affrettava per raggiungerli agitando il braccio ad attirarne l’attenzione, le labbra della Donna di New York s’appoggiavano su quelle del Regista Senza Storie...
...se torno a casa...
Come al solito, Doppia T s’era perso in chiacchiere prima d’iniziare la partita. Era strano, parlava pochissimo con gli altri, alcuni non ne conoscevano la voce, e invece col Ringhio e Det parlava quasi solo lui, non riuscivano mai a cominciare una partita a scacchi o a carte, il Ringhio non assaggiava mai la sigaretta, Doppia T parlava e ricordava, raccontava ed ascoltava. Sembrava fosse stato l’unico ad avere continuato a vedere il Folle e la Bambina, in quegli anni, ma nutriva la convinzione che questi non avevano perso i contatti neanche con gli altri. Se no, non sarebbero stati tutti lì, diceva. Il Ringhio gli sorrise, gli scroccò una sigaretta, ed uscì per non infastidire Det; lei smise di cantare e sedette accanto all’amico camionista. Doppia T, saltata la partita, mise a posto la scacchiera, e notando che i due pezzi più importanti del suo colore erano andati persi, decise di buttarla, che ormai non si poteva giocarci più.
Alessandro entrò nel salotto dell’ostello, e sedette di fronte a Doppia T, che aspettava di sapere chi avrebbe cenato lì, quella sera, per mettere a far da mangiare. “Tu sapevi...”, sussurrò sciogliendo la cravatta. “No, ma avevo immaginato dai rumori...”, rispose Doppia T distratto, con poco tatto; Alessandro rimase in silenzio, giocherellando nervoso col pacchetto allungato delle sigarette eleganti di quella che ormai capiva chiaramente non essere più la sua amante, ma solo la sua amata. “Sono arrivati insieme, ma il Ringhio dice che si sono incontrati per caso…”, Doppia T parlava ma sembrava pensare ad altro, Alessandro lo ascoltava ma non sentiva le sue parole troppo attento a decifrare i conati di rabbia e passione provenienti dal suo stomaco ferito. Il fetore di fumo e sambuca preannunciò l’ingresso di Leonardo, col suo seguito intraprendente e devoto e completamente sottomesso e col labbro inferiore livido e gonfio per la violenza dei baci dell’ispettore Boujeau; Alessandro, la cravatta sul bracciolo della poltrona, le lanciò il pacchetto bordeaux di sigarette francesi, esclamando: “Eccole!”, poi si tirò in piedi e sbottonando il colletto della camicia si portò in cucina, prese una bottiglia di costosissima vodka al limone, se ne versò una tazza, e stringendo questa tornò nel salotto, per sedersi di fronte a Maja. “Allora?”, chiese Leonardo accendendo una sigaretta, “chi manca?”. “Chi manca è morto…”, gli rispose il gigantesco filosofo; “Non ancora”, intervenne Alessandro, mentre buttava il suo elegante orologio da polso dalla finestra socchiusa per cambiare l’aria, “Carlo è in coma, per disidratazione e denutrizione, in prognosi riservata all’Ospedale Maggiore: si era chiuso in casa per non vedere più nessuno, sembra, ed è arrivato a non mangiare pur di non affrontare altre persone”. “Carlo?”, chiese Maja, “Carlo era il nome di quello che manca”, rispose Doppia T, “te lo sei dimenticata?”, Maja abbassò gli occhi imbarazzata, Leonardo rise ed esclamò: “Era un debole, era ovvio...”. Nessuno replicò.
Ormai, tutti gli adunanti erano convenuti all’appuntamento: quella notte, come cinque anni prima ad Ystad, si sarebbero spostati sulla spiaggia a guardare il mare, senza sapere di trovarsi di fronte alle svolte delle loro vite. Cenarono in silenzio, poi Doppia T ed Alessandro stettero ad aspettare l’ora di uscire bevendo della crema di whisky mentre il Gigante cercava di insegnare a fumare all’Uomo Senza Cravatta. Leonardo si stava scopando Maja, Maja stava amando Leonardo, Det cantava quella canzone del “non ci sono se” che le piaceva tanto col capo poggiato sul petto del Ringhio, il quale in silenzio aspettava. “Marco…”, disse ad un certo punto il Folle, giocando con due pezzi degli scacchi tra le dita; “Come?”, chiese lei, cercando di capire. “Marco. Si chiamava Marco, non Carlo“.
Doppia T entrò nella stanza, dove Alessandro sdraiato sul letto guardava il soffitto e piangeva, in silenzio, sommesso. Le lettere scritte per Maja, solo le più belle, le altre le aveva lasciate nel suo appartamento, bruciavano dentro il cestino della spazzatura. Il Gigante fece finta di niente e lo chiamò, era giunta ormai l’ora di tornare al molo.
“Quand’è stata l’ultima volta che hai parlato col Ringhio?”, chiese quello sdraiato.
“Dieci minuti fa…”, rispose tranquillo Doppia T.
“Sei fortunato. In cinque anni io l’ho rincontrato solo qualche giorno fa, a casa sua, ha cercato di riaprirmi gli occhi… c’era anche riuscito…”
“Però?”
“Però per me era più importante tenerli chiusi. Per Maja, per lei sola…”
“Aha…”
“Sai, sono riuscito a vederlo anche prima, ma pensavo fosse una allucinazione, appena sceso dal treno… Sai, i luoghi del ricordo…”, cercò d’accendersi una sigaretta presa dal pacchetto dell’amico in piedi, Alessandro, ma cominciò a tossire, con la gola in fiamme; poi: “Perché mi ha cercato così poco, in cinque anni?”
“Forse eri tu a doverlo cercare…”
“Già…”, si stirò. “E Det, Det l’hai più vista?”
“È sempre insieme a lui…”, disse il Gigante, come fosse cosa ovvia.
“Io l’ho vista che mi salutava dalla finestra appena sono arrivato. Non ci credevo: casa del Ringhio, dentro è rimasta uguale, Ystad, l’immobile Ystad, pensavo fossero allucinazioni, invece poi arrivi tu che non vuoi che si fumi per Det…”
“Per rispetto…”
“Si, ho capito, ma rispettare qualcuno che non c’è, io non l’ho mai fatto, io non ci ho mai parlato, pensavo fosse solo nella mia testa!”
“E forse lo era. O forse non sai guardarti intorno.”
Silenzio. Poi Alessandro sussurra: “Perché tutto deve finire? Perché sempre Ystad? Il Ringhio, Det, Maja, perché?”
“Perdi quello che non sai trattenere…”
“Gran bella cazzata!”, esplose a ridere il Ringhio, “forza, culoni, muovetevi, è ora d’andare, volete farci aspettare per l’eternità?”, ed Alessandro stupito mostrava un sorriso nel pianto, e seguiva gli amici giù per le scale dell’ostello prestando ascolto al canto di Det, confuso da ciò che vedeva e sentiva.
W
…………………………………………5 anni
sono passati 5
anni
dovrei ad
Ystad
come
andare
promesso
ma…………………
……………………… … …………sto bene qui
da solo
non se ne
accorgeranno
neanche
neanche
sto bene
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chiuso
finestre
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ma n g i o
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sonn o sonno
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ENDE
Cinque anni. Un istante. Una Notte, sospesa. Nel suo ventre, sette anime. Sospese. Ed il mare, Nero Mare del Nord. Stelle. Ed il molo, un ponte verso un nuovo orizzonte spezzato a metà. La Donna Col Cappotto Verde reggeva un crisantemo, margherita infinita, sul petto, lo scaldava dal freddo tagliente, lo stringeva come fosse un bambino, come fosse un’amica perduta tanto tempo prima, ma che ora era lì, lì di fianco, a stringerla dello stesso calore che lei. E la spiaggia raccoglieva i loro piedi in attesa, i loro e quelli degli altri di fianco. In attesa. Scrutando il grembo di Dio.
Cinque anni, un istante, una Notte, sette anime, otto piedi nella sabbia, bianca sabbia del Nord, gelida e morbida, sfiorata dal Vento Freddo. Ed il vento, passando, si portò via un’anima, un’anima debole svanì nel vento, abbandonando infine il peso troppo grande per lei, e forse fu meglio così, che l’alito clemente se la portò via. Da sola, come sempre si era sentita.
Cinque anni, un istante, una Notte, sei anime sospese s’adunano, ritornano una. Solo la Notte le guardava, immobile, ed il Mare le ascoltava, percepiva quel limbo, un limbo durato una vita, sei vite, e le cullava sussurrando un canto sommesso, benevolo. L’Uomo con La Cravatta tremava. Tremava perché aveva già vissuto tutto una volta, ed aveva cercato di sfuggirgli, perdendo tutto, per ignavia, per debolezza, per paura, ma ora era lì, cinque anni prima era lì, a sognare con le persone che riempivano la sua vita, e d’improvviso tutto finì, tutto finì. Anche Maja, la bellissima Maja, la tanto amata Maja, amata ogni giorno per milleottocentoventisei giorni passati ad attenderla, ogni giorno trascorso nel nido ad aspettare il ritorno di lei riparandosi dal freddo fingendo non esistesse più niente, facendosi sterile per sopravvivere a quella carenza, rendendosi cieco per non vedere la sua solitudine, persino Maja ormai era perduta. Non amava più quello che lui era diventato a causa sua, come la madre di un mostro aveva disconosciuto la propria creatura, fingendo di non aver mai partorito l’abominio. O forse, non l’aveva mai amato davvero; forse, lei, non aveva mai amato nessuno. Le lacrime erano l’unico calore che gli restasse; l’unico calore vero. Ripensò per un momento a casa sua, alla felice costruzione che l’aveva protetto sino ad allora, la sorridente coreografia della sua vita sopravvissuta nell’ultimo quinquennio. Pensò alle distanti comparse che animavano le sue giornate ed alleviavano la sua solitudine. Pensò all’immota tranquillità di quell’ultimo periodo, la soppesò col dolore immane, il dolore che uccide, di vedere di nuovo Maja non amarlo. Salutò in silenzio il Ringhio e la Venere, sciolse la cravatta, asciugò le lacrime con un braccio, e s’allontanò, senza che nessuno lo vedesse. E partì, ora si, per un nuovo viaggio, un viaggio senza cravatta, a cercare se nel mondo fosse rimasto qualcosa per cui valesse la pena inalare il puzzo di morte che esala la vita.
Cinque anni, un istante, una Notte, cinque anime sospese, tre sigarette accese per strozzare il magone che attanagliava la gola, il Gigante Silente si mosse per primo, verso la fine del molo: quattro gambe, quattro anime lo seguirono, la brezza che tagliava la faccia, tre sigarette che arrivano al termine, tre bagliori che s’affievolano nel cielo stellato, come quei due cinque anni prima. Morfeo butta un po’ di sabbia nelle acque d’ebano, ed un ricordo ritorna come un sogno, come un sogno che solo un poeta potrebbe descrivere. Leonardo, quello di carne, chiude gli occhi e rompe il silenzio fisico. Racconta. E le sue parole presero forma negli occhi dei due con lui, il Gigante e la Donna Col Crisantemo, in quel limbo che ormai il tempo era una convenzione, presente e passato simultanei alla pelle. Racconta la storia di due anime, due anime che Dio aveva create perché fossero una, due anime che s’erano trovate ed amate ed amalgamate fino ad essere l’una nell’altra come nel liquido amniotico, fino ad essersi completate da non poter più esistere, l’una senza l’altra. Uno scherzo ordito da Dio per dar loro la felicità, la quale è poca cosa per l’uomo, il non essere soli a venire ammazzati dal mondo. Due. Racconta la storia della Bambina Innamorata che ha imparato a vivere senza piangere, ed ama sì tanto la vita da volerla abbracciare tutta, ed in una notte come quella, cinque anni prima, s’avvicinò all’Oceano D’Ebano, come all’Universo, per ringraziarlo di tutto quello che aveva. E racconta degli occhi di un Folle che sorridevano alla Bambina danzante nelle acque che le carezzavano i piedi, gli Stivali Neri abbandonati in mezzo alla sabbia. Racconta di emozioni condensatesi in aria come carezzassero le anime sospese di fronte al Senso Di Tutto, ricorda un istante che valeva una vita, sette vite. Poi la voce si rompe, tutto si rompe. La Bambina Innamorata inghiottita dalla crudele violenza del mare, in silenzio. Gli occhi sferzati dalla disperazione, le gambe tagliate di netto alle ginocchia dal sangue che manca alla testa della nuova famiglia che la guardava. Il cuore del Folle che esplode credendo che tutto sia perduto, nel mondo e nell’universo, e trova nella morte quello che ha sempre cercato per dare senso alla vita, il dolore troppo grande, abbastanza, da morirne. Il grido struggente del Ringhio che chiama la parte persa di sé, e la Venere Oscura che riemerge dal mezzo di tenebra, stordita, e corre incontro al suo uomo per terra, senza ancora capire il grave peso che le offusca la vista, gli si siede accanto, e lo guarda morire, per spegnersi dello stesso dolore. Un altro scherzo di Dio, forse troppo crudele, un istante che vale due vite, sette vite.
Cinque anni, un istante, una Notte, cinque anime, due Uomini che scrutano il mare cercando il passato, una Donna che il passato lo vive per la prima volta. Doppia T accese una sigaretta e la poggiò su una pietra, quindi ne accese un’altra e fumando salutò l’amico, a cui dopo quella non ne avrebbe mai più offerte altre; si girò, salutò i due amici, e tornò a piedi, lungo il sentiero, verso il suo tir, mise in moto, accese un’altra Gitane, e ripartì, senza guardarsi indietro. Chiese al Ringhio ed a Det dove volessero andare, loro risposero verso un nuovo sogno, lui sorrise e vagò per il resto degli anni, fino all’ultimo giorno, quando si sentì morire, e per farlo volle ci fosse l’oceano, e Lisbona, ed il Folle e la Venere a dargli la mano, che in fondo allo stomaco sentiva paura, paura, che non ce l’avrebbe mai fatta da solo, ad immergersi e lasciarsi andare verso gli infiniti orizzonti dell’universo.
Cinque anni, un istante, una Notte, quattro anime, un Uomo e una Donna a leggersi dentro. Leonardo scoprì la sua voce parlare per la prima volta, e s’accorse di non avere mai detto niente perché non aveva mai avuto niente da dire. Sentì il peso dei suoi anni passati ad aspettare qualcosa che invece avrebbe dovuto cercare semplicemente vivendo, sentì d’aver perso qualcosa, ma tutto quello che fece fu accendere un’altra Pall Mall. Maja sentì che quel rimorso ora era più forte di prima. Piantò nella sabbia lo stelo del crisantemo, che inaridì, subito, come ogni emozione provata da quando era nata, e s’allontanò, di fianco a Leonardo che fumava, fingendo che forse quel nuovo calore avrebbe scacciato il gelo che si portava di dentro.
Cinque anni, un istante, una Notte, due anime sospese, due come fossero una.
DER ENDE
E alla fine, il Ringhio morì. Di dolore, come sempre aveva sperato. Sorrise, carezzò il volto della sua Venere Oscura, portò la testa di lei al suo petto, il volto bagnato di sale, e perdendo lo sguardo felice nel Cielo del Nord, si velarono gli occhi, si dissolse. Lei lo strinse più forte sentendolo andare, sollevò il volto dilaniato dal pianto, un pianto morto, senza lacrime, avvertì su di sé l’immane peso della nuova, vecchia tragedia, vissuta di nuovo, per lo stesso uomo, con lo stesso uomo. Forse non avrebbe mai dovuto incontrarlo, per non esserne privata così di colpo, due volte nella stessa vita. Ed il sortilegio, pietoso, si spezzò.
Al mattino, passata la Notte Nordica, crudele e inclemente, i loro corpi giacevano stretti abbracciati sulla sabbia carezzata dal Mare d’Ebano. Dio li sollevò con la mano, se li mise in grembo, e come vichinghi si persero tra le onde, in un nuovo viaggio, un viaggio che avrebbero compiuto insieme, senza meta, solo insieme, per sempre. Per sem
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mercoledì 29 giugno 2011
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