giovedì 23 ottobre 2008

Salamelle Al Sangue

Con questo racconto su commissione fallimentare, rendevo omaggio a Marco Philopat ed alla sua prosa punk/discorsiva.

Diego Gattarossa entrò nel parco. Quel luogo per lui era un paradiso ai confini tra i mondi, il luogo dove rigenerarsi da tutto il male che può farti la Metropoli intorno. Ed il parco è una Piazza.
La teoria delle Piazze è molto più complicata di un problema architettonico, o urbanistico. La Società è anti-sociale. Le istituzioni tolgono spazi di espressione, chiudono i Centri Sociali, recintano i giardini, videosorvegliano marciapiedi e parcheggi. Il loro interesse sembra essere che quando il popolo si riunisce, non comunichi: vengono concesse le discoteche, i pub dalla musica altissima dove non parlare ti costringe a consumare. Ma questa è un'altra storia. Nella nostra, dobbiamo assumere il presupposto che il Parco sia una Piazza, un luogo di incontro, espressione e comunicazione. Dove si creano compagnie di sbandati, di studenti, di dopo-lavoro, di sportivi. Dove un cannone caricato a Super-Polline può riunire tribù diverse, dove un pallone può schierare fianco a fianco tutte le razze e tutte le religioni. Dove si creano piccole famiglie.
Il Gatto, attraversò lo spiazzo davanti alla biblioteca di Villa Litta, a Milano, aggirò l'edificio che dominava il resto del parco e si diresse ai portici posteriori, dove si riunivano un tempo i Cattivi Ragazzi. Non trovò nessuno. Pensò, avranno cominciato a lavorare, fece scorrere la cerniera del chiodo e dalle tasche interne estrasse il tabacco. Inglese Giallo. Mentre rollava la sigaretta in attesa di qualcuno, di chiunque, notò il murale nuovo, non era uno di quelli pasticciati dai mocciosi educati a fare i microcriminali da televisioni e telegiornali. Aveva qualcosa di sacro. Si avvicinò al graffito: due nomi. Filo e Pat. Ed una foto. Ecco cos'era quell'impressione sacrale, la foto!
“Quello a destra sono io – ma lo sai – mi conosci, Gatto – sono Filo - ti ricordi? - là in collina – a fumare i lotti”
Il Gatto guardò la foto da vicino. Li conosceva tutti e due. Due bravi ragazzi, due Cattivi Ragazzi.
“Che cazzo ci fa la vostra foto qui, Filo?”, chiese il Gatto accendendosi la sigaretta appena confezionata.
“No niente – brutta storia, zio – quello è Pat – te lo ricordi Pat? - è stato settimana scorsa – eravamo al parco – volevamo tornare in Thailandia – sai la Thailandia – ci siamo stati a gennaio – è una figata – non si spende un cazzo – sei trattato come un signore – altro che la vita di merda che fai qui – lavori non ti pagano – ti pagano poco e un cazzo – le fighe se la menano – e tutto costa un sacco – una birra 5 euro – e c'è il tempo di merda – il cielo grigio – invece in Thailandia – la natura – ci son gli atolli – sei completamente libero – la gente ti rispetta – hanno anche il fumo buono – ganja – ma ti stona, giuro zio – e poi hanno tutti 'sta borsettina attaccata alla cintura – dentro tengono delle foglie – Bantom si chiamano – loro le arrotolano e poi le masticano – e succhiano – bamba – giuro – effetto cocaina – le masticano anche i vecchi di settant'anni – fanno dei salti – li vedi correre – e poi c'è la strada del sesso più grande del mondo – quanta figa – che giocattolini – ci sono i ragazzini che ballano in perizoma fuori dai locali – arrivano 'ste ciccione australiane – belle piene di birra – li prendono per mano – gli mollano 50 dollari – e se li portano – le vedi belle felici – con le guance rosse – le ragazze sono dei giocattoli – da non credere – e ti vengono a cercare loro – fanno di tutto – te la cavi con pochissimo – se le dai da mangiare te la puoi anche portare con te in giro per un mese – e quella si fa schiacciare in ogni maniera – ce n'era una coll'inguine tatuato – ce la passavamo – a gennaio – ci siamo stati a gennaio...”
Il Gatto ascoltava assorto fissando la foto, e quasi non s'accorse che il monologo di Filo s'era dissolto. Si voltò a guardarlo, era pallido, scavato, assente. Bravi ragazzi, ma ogni tanto qualcuno si faceva prendere. Dalla cocaina, dalla robba, dagli acidi, emme-di-emme-a, l'alcool. Quelle fughe fallimentari dalla propria fragilità. Il Gatto chiese: “E allora, che è successo?”
Filo riprese, con voce roca per i troppi cylum: “Niente – che è successo? - niente – volevamo tornare in Thailandia – ma non avevamo una lira - e Pat dice – cazzo lo so io come fare – lo guardo e chiedo – Come pensi di fare? - E lui – te lo ricordi il baracchino dei panini al Castello Sforzesco?”
“Noi ce lo ricordavamo – certo – quel figlio di puttana – un po' di tempo fa' ci ha fregato i soldi – noi paghiamo dieci euro – gliene diamo cinquanta – lui non ci dà il resto – noi glielo spieghiamo – in tutti i modi – lui chiama gli sbirri – ci trovano un po' di coca addosso – giusto due tre pezzi – forse sei – non più di dieci – cazzo era sabato – e gli sbirri ci sequestrano tutto e ci portano in questura - E allora che vuoi fare Pat – chiedo – e lui – prendiamo delle pistole finte e verso le sei del mattino ci facciamo dare l'incasso – non si fa male nessuno – e rubiamo i soldi ad un ladro – quindi è giusto no? - e ride... - e mi lascio convincere – alla fine quello dei panini ci sta sulle palle – quello farà due-tremila euro di venerdì notte – tra quel poco che abbiamo ed il malloppo ce ne andiamo in Thailandia e poi lì si vede – magari troviamo qualche vietnamita – quelle incrociate con gli americani sono delle fighe da paura – vabbèh – insomma – mi lascio convincere – ce l'hai una sigaretta per me zio?”
Il Gatto si voltò verso Filo, lo osservò tirare su la paglia con le dita, chiudere la cartina con la lingua, accenderla, aspirare, e sbuffare il fumo dalla gola. Dal centro della gola. Un buco enorme esattamente nel centro della gola. Ci vedeva da parte a parte.
“E allora alle cinque andiamo al Sempione – ci facciamo un paio di canne – e poi pezziamo un paio di grammi di coca a testa – abbiamo 'ste pistole – sembrano vere – le abbiam prese in un negozio di modellismo in Porta Venezia – alle sei del mattino pompiamo i Club Dogo nello stereo della macchina – arriviamo al baracchino del bastardo – ci infiliamo i passamontagna – tiriam fuori i nostri giocattoli e li puntiamo – TIRA FUORI TUTTI I SOLDI FIGLIO DI PUTTANA – ti giuro zio – quello si è pisciato addosso dalla paura – noi a momenti ci pisciamo addosso dal ridere – Pat colpisce la vetrina dei panini e la spacca – il tipo trema – trema di brutto – bastardo – Pat fa per salire sul camion – il tipo gli passa i soldi dell'incasso – Pat lo afferra e gli punta la pistola in bocca – ma giuro cazzo è finta quella pistola – PAM! - sento solo il suono – la faccia di Pat che si stacca dalla testa – il sangue che schizza sulle salamelle – il passamontagna che trattiene i fiotti – lo vedo ed è l'ultima cosa che vedo – da vivo – l'ultima – un cazzo di vecchio a spasso col cane – alle sei di sabato mattina – girava col cannone in tasca – ma un cannone vero – mi spara al collo – resto cosciente per un po' – muoio dissanguato che non chiamano l'ambulanza – chiamano gli sbirri – ed ascolto il vecchio – perché porta il cannone - dice che non ci si può fidare – dice che questa gioventù è una merda – è vero – questa gioventù è una merda – è una merda viverla – è una merda perderla... Bella zio – ci si becca – qui – o in un'altra vita”
Qualcuno, alla fine, c'era arrivato, al parco, al ritrovo. Qualcuno che aveva bisogno di raccontarsi, di esprimere quel che non aveva più dentro. E poi era scomparso dissolvendosi nel fumo della paglia che Diego Gattarossa, detto il Gatto, aveva acceso per riuscire a digerire quella storia. E che l'unica cosa di cui aver paura, è la paura.

venerdì 6 giugno 2008

Magnolia Nera

Se il noir è una sensazione, una semplice atmosfera, questo racconto vuole essere quella sensazione, privata del tessuto criminale.

Non c’è solitudine più grande di quella di un samurai,
se non quella, forse, di una tigre nella foresta.
Meville, Le Samourai


Cazzo. Questo per mettere in chiaro le cose.
Diego si svegliò e si trovò sdraiato sul divano, sudato come solo quel maggio invernale poteva far sentire. Il freddo dentro, il freddo fuori, ma la maglietta appiccicata alla schiena.
Elly, Elisabetta, gli aveva dato un puntello per quella sera, aggiungendo un particolare appetitoso: alle 21 alla birreria belga di Niguarda, una pinta veloce, poi sarebbe andata a ballare. Con Veronica. “Che ore sono”, balbettò Diego Gattarossa detto il Gatto, intravide i cristalli liquidi del videoregistratore che segnavano le otto e mezza, troppo tardi, tardi per una doccia, tardi per poter cenare – quanto tempo era che saltava i pasti smarrito in quel vortice di impegni? – giusto il tempo di lavare i denti ed uscire ed infognarsi la bocca di nuovo con una Italiana blu. Si muoveva a piedi, solo a piedi. O in bici, ma quella sera sperava. O con l’autobus, ma se non voleva una compagnia era quella fetente e colorita dei mezzi pubblici.
Di buon passo, tabaccaio, poi dentro il parco che costeggiava via Enrico Fermi, la strada che portava via da Milano, via dalla sua amata prigione. Non voleva evadere, voleva risolvere. Non era nato per rivoluzionare l’Inferno, forse, ma almeno voleva tentare di spegnere le fiamme del suo girone. Gli eroi del nero sono sempre soli contro il mondo. Lui era solo. Contro sé stesso.
Elly gli voleva bene. Gli voleva bene un po’ perché gli voleva bene il suo ragazzo, Frankie, un nome del cazzo per l’antagonista più in gamba e più buono di Milano, un’occasione persa come tutta la sua generazione. E gli voleva bene perché non era difficile provare affetto per il Gatto: disponibile, gentile, cortese in Pace, spartano in Guerra. Divertente in entrambe i casi.
Elly gli aveva presentato Veronica, qualche settimana prima. Così, per caso. Al Rebelot, il mercato dell’auto-produzione sul cavalcavia Bussa, in Garibaldi. Nonostante le guerre, il Gatto continuava a bazzicare nel circuito. Da indipendente. Veronica era uno sguardo. Uno sguardo magnetico, profondo. Uno sguardo che vibrò negli occhi e nel petto del Gatto per un istante dal sapore infinito, scuotendolo da un torpore incosciente, ridestando i meccanismi di un orologio dei cui ticchettii ormai s’era dimenticato.
Veronica aveva qualcosa, negli occhi, e quella prima sera quegli occhi s’impressero nelle retine e nella memoria di Diego, incisero la corteccia cresciuta intorno al suo cuore, come respirare di nuovo dopo anni di apnea e poi reimmergersi subito nel mezzo grave d’uno stagno d’autunno.
Forse era il modo in cui li truccava, Diego cercava una via di fuga. Per questo questa sera allungava il passo verso l’appuntamento con Elly, ma soprattutto con Veronica, possibile, si chiedeva, possibile che quegli occhi esistano davvero?
La birreria belga, lo Scott Joplin – dal nome del compositore del motivo della Stangata – festeggiava il suo primo compleanno. Gremita di gente, fiumi di birra spillata in plastica e in vetro. L’appuntamento alle nove si risolse con l’arrivo di Elly alle dieci.
Elly fingeva di essere contenta che Frankie fosse via per lavoro. Via il gatto, la topa sballa. Ma non era felice. Non del tutto. Stavano insieme da anni, e l’amore è qualcosa che con la continuità diventa necessità. Non abitudine, quello è affetto. Amare significa essere destabilizzati dalle distanze, incompleti, due magneti che anche a milioni di chilometri di distanza si attraggono. Elly si sentiva così. Felice, in serata, incompleta.
Veronica, disse Elly, aveva lasciato il suo ragazzo pochi mesi prima. Perché era finita. Semplicemente. Diego non fece domande, ma lasciò correre l’immaginazione su un campo minato, e la vide esplodere in mille frammenti di domani possibili.
Veronica arrivò alle undici. Bevvero, e tanto, Diego beveva dalle nove, acuendo la sua fragilità, scoprendo che non v’era trucco né artificio negli occhi di Veronica. Erano tutto, tutto ciò che volesse, tutto ciò che avesse cercato, dentro avevano un mondo meraviglioso che solo le vibrisse del Gatto potevano riconoscere, percepire, ed il mondo di un uomo è la sua vita, e tutto girò vorticosamente intorno e dentro la testa di Diego, e non era la birra, e non era il tabacco, erano gli occhi di Veronica, e Veronica non l’avrebbe mai saputo, forse, non l’avrebbe mai capito, erano gli occhi di Veronica. Brillavano pietre scure provenienti da tempi perduti, smarriti, dipinti nei sogni dell’uomo, di un uomo, la luce, il calore, il terrore, il terrore. Perché quando incontri degli occhi, la solitudine ti si fa stretta d’accanto, t’abbraccia gelosa, possessiva, ossessiva, il terrore d’abbandonarla, il terrore di tornarle tra le braccia un giorno.
Veronica voleva ballare, per sentirsi vivere. Elly voleva ballare, per non pensare a Frankie. Il Gatto detestava ballare, ma voleva seguire quegli occhi. Montarono in macchina, direzione Magnolia. Dall’altra parte della città. Milano era un impero caduto di fronte alle legioni della notte, un impero di ruggini e umidità, asfalto e carne e lamiera. Lampioni freddi e tabaccai. Linate, l’aeroporto, luci nel nulla, una scatola vuota animata da neon ghiacciati in un luogo che non c’è.
Il Magnolia è un locale, un circolo Arci a Linate, all’Idroscalo, un posto alternativo per alternativi che vogliono omologarsi al divertimento in maniera alternativa. Entri in un prato, percorri un vialetto, un buttafuori ti intima di mostrare la tessera, se non ce l’hai ti invita a compilarla, poi entri nel tempio. Il popolo della giovane notte celebra riti revival tracannando litri di alcool, caricando cannoni a decine nello spazio all’aperto alle spalle del locale, la musica pulsa non eccessivamente alta nei timpani, risate, sorrisi, voluttà, cento tribù si radunano ad ascoltare Nirvana, Elio, Queen, Renato Zero ed il duo da mondiali Nannini-Bennato. Metallari, indie rock, dark, punk crestati, emo, brit, mods, glamours, rockabillies, figli di puttana e addirittura ragazzi normali si accalcano, s’amalgamano, si spargono in quel regno nascosto e accogliente, controllati a muso duro da cordiali uomini della sicurezza in nero, slavi, italiani, africani. Veronica ballava. Ed il Gatto non sapeva far altro che guardarla. Non sapeva distogliere la mente da lei. Ed Elly tampinata da un bellimbusto simpatico e carino.
La magnolia sfiorì, s’accartocciarono i petali sotto la luna calante, scomparve, gli agenti della sicurezza sfollarono il pubblico, neanche pisciare potevi più, fuori, si chiude, che sono le 4. Elly s’era trovata appiccicato al culo questo Niccolò, Veronica notò che Diego non si vedeva da ore, dall’ingresso nel locale, lo recuperò ed uscirono assieme.
“Dov’eri finito?”
“Oh, niente, ho dato un’occhiata in giro, sai, non vengo mai in posti così, sono venuto solo perché non potevo non seguire due ragazze così belle…”
“Scemo!”, sorrise, e nel sorriso d’Veronica stava la fine, la testuggine di scudi sul cuore del Gatto, colpita nel punto critico, s’infranse di fronte a quel semplice, lusingato, sorriso. “E adesso la Elly dov’è?”
“Guardala, è là, mi sa che ha trovato compagnia, ma se quel tipo non smette di broccolarla mi sa che mi tocca menare le mani…”
“Uh, sei un duro… maschilista del cazzo!”
Il Gatto si disse, ma porca puttana, ora l’ho fatta sorridere e subito la faccio incazzare, era spiazzato, poi lo sguardo di Veronica s’incupì, divenne triste, malinconico. Disse: “Lascia che si faccia broccolare. È dura per lei non avere qui Frankie”
“Ma Frankie torna domani sera!”
“Ma ora non c’è. Non puoi sopravvivere neanche un minuto col cuore a due metri dal petto, no?”
Diego capì. Non accettò, ma comprese. Certo se c’era da pisciare sul territorio di Frankie, l’avrebbe fatto. Solo che non lo disse più.
Niccolò li invitò tutti a far colazione a casa sua. 37 mq a Famagosta. Un’altra Milano, rispetto ad Affori e Comasina. Il Gatto lo teneva d’occhio, ma lo trovava simpatico. Camicia militare, barba di due settimane, standard antagonista milanese. Un Cattaneo originale appeso alla parete, un sacco di vecchi Urania, conquistò Diego con le 3 cose che una donna non potrà mai capire: “Gli scacchi, la fantascienza, e l’ironia.”
Veronica strillò, “Non è vero, cioè, le prime due sono vere, ma non è vero che noi donne non capiamo l’ironia!”
“Vedi che non la capisci!”, disse Niccolò, e scoppiarono tutti a ridere.
Il piccolo appartamento era arredato con gusto. “Si. In realtà dovevamo venirci a vivere in due, cioè, siamo venuti a viverci in due. Per un po’. Poi lei se n’é andata, ma l’arredamento è merito suo…” sorrise, amaro, Niccolò.
Quattro solitudini diverse radunate su due divani neri, come la notte che li attendeva col sorgere del sole. L’amante distante. L’amante perduta. L’amore finito. L’amore sognato.
Il caffè fu amaro, lo zucchero rimase tutto incrostato sul fondo. Niccolò rimase da solo nel suo appartamento dopo l’inutile assedio al cuore assente di Elly. Veronica guidò l’auto e lasciò che Elly salisse da sola in casa ad attendere il ritorno di Frankie. Diego godette degli ultimi minuti con Veronica, doveva chiederle il numero, chiederle se le andasse di rivederlo. Da soli. Si fece lasciare su un marciapiedi di Affori, a caso. La guardò allontanarsi per tornare a casa con l’auto. Poi si avviò a piedi. Non le aveva chiesto niente. Gli bastò sapere di essere ancora in grado di sognare.

phon9ca11 - DianeDies

Omaggio al fantasy a la Neil Gaiman.

Aprile 1999
Squilla.
Squilla ancora.
Lei alza la cornetta, non risponde nessuno.
“’affanculo…”
Dicembre 1999
Il telefono. Nero compagno silente, soprammobile amato e temuto ed odiato, supplicato. Squilla. Lo fa per un po’. Quando Diana solleva la cornetta, sente solo un respiro prima che le riattacchino in faccia. “Ancora!”, lamenta lei. Qualcuno sussurra, ancora.
Giugno 2000
Non fa a tempo ad entrare in casa, che qualcosa trilla. È il nuovo telefono, quello a toni, quello con la rotella l’ha dato indietro a malincuore. Quasi non lo riconosce, poi capisce, e solleva la cornetta. Di nuovo nessuna risposta. Come ogni venerdì, da mesi, non ricorda quando sia cominciata. Ha chiesto anche la bolletta trasparente, me alle chiamate mute non corrisponde nessun numero. Addirittura, quelle chiamate non risultano. Il tecnico le ha detto che è un contatto: lei ha sbuffato, ha risposto che non conosceva disguidi tecnici ad appuntamento settimanale. Comunque, ha trovato lavoro, venerdì e sabato, giornata piena come commessa in un negozio del centro. Scarpe. La gente spende un sacco di soldi in scarpe per non andare da nessuna parte.
Gennaio 2001
Sapeva che non sarebbe durato per sempre, era un contratto a termine, ma i padroni del negozio, infami, con gli auguri di Natale l’avevano salutata senza rinnovo. Le avevano consegnata la busta con l’ultimo stipendio esclusa la settimana lavorativa dal 26 al 31, e le avevano detto che si trasferivano ad Ibiza: la figlia viveva lì da qualche anno, aveva aperto un bar chiuso nel giro di sei mesi, poi aveva trovato lavoro come ballerina, diceva di passarsela bene, certo se i genitori avessero potuto raggiungerla, se avessero potuto andare a stare con lei ora che anche questo nuovo lavoro sembrava fallimentare, forse lei avrebbe smesso di ingoiare getti di sperma per un tozzo di pane. Diana non l’avrebbe saputo mai, e non l’avrebbe mai raccontato né al suo gatto, né per telefono ad Alessa (‘senza i, fa meno provinciale’, aveva detto il padre all’ostetrica il giorno in cui lei era nata). Diana aveva scordato quel misto di curiosità, fastidio, rabbia e paura che provava alle telefonate mute del venerdì. Non l’avevano seguita fin in negozio, era passato tanto tempo, non le ricordava neanche più. Il telefono squillò. Era Alessa.
Settembre 2001
Venerdì. Le telefonate mute non arrivavano almeno da quando lei aveva perso il lavoro nel negozio di scarpe. Otto mesi di sollievo telefonico e disoccupazione. Diana s’era appisolata sul divano: il gatto le raschiò il naso con la lingua, forse per avvisarla che di lì a poco il telefono avrebbe preso a trillare. Lei si alzò, fece per andare in bagno, passò accanto al telefono, lo sfiorò con la mano, e quello suonò. Diana trasalì, rispose: “Pronto?”, la voce impostatamente cortese di chi ha lavorato in un negozio.
“Sono la voce delle telefonate mute. Che ne dici se ci vedessimo, che so, per una birra?”
Sabato. Certo, non era stato un invito romantico. Non puoi invitare una donna a bere una birra: è come chiederle di ruttare. Come invitarla a mangiare una fejoada messicana, di certo le staresti lontano dal culo per un paio di giorni. Gli uomini credono che le donne non reggano l’alcool, che non lo gradiscano, quindi la voce delle telefonate mute o voleva scoparla ubriaca, o aveva compreso da tempo che le donne bevono, cagano, ruttano, ed adorano il cazzo.
Comunque, la birra le andava, le andava che fosse la voce a pagarla, le andava di scoprire che faccia avesse la voce, le andava anche di fare qualcosa di diverso una sera che non fosse andare a vedere un blockbuster da Alessa o reggere il moccolo a lei e Claudio, le andava che Alessa credesse lei avesse un uomo. E le andava, in fondo, anche di conoscerlo, un uomo.
Non era un uomo. Questo, innanzitutto, deluse Diana. Era un gatto, un gatto grigio fumo stropicciato. Insieme ad un corvo con la cravatta ed un fermacravatta d’oro con sopra scritto Dingo. Almeno, l’aveva scelta dello stesso colore del becco, la cravatta. Insomma, le due bestie, entrambe col manto delle tonalità più scure del fumo, stavano sedute al bancone della locanda in cui l’aveva invitata la Voce, sugli sgabelli dove avrebbero dovuto essere l’uomo ed il suo cilindro nero. Diana non avrebbe potuto, per le proprie ristrettezze economiche, ma decise che forse avrebbe ordinato comunque una birra: sedette accanto al gatto acciambellato ed al corvo che la fissava, e cominciò a scorrere la lista. L’oste rispose al telefono, la guardò, guardò annoiato corvo e gatto e rispose che era arrivata. Diana lo spiò cercando di nascondere la faccia tra i nomi delle birre nella lista, quello le si avvicinò e le disse: “Puoi ordinare tutto quello che vuoi, ragazza, a quanto pare pagano loro…”, ed indicò il felino ed il volatile. Lei si voltò a cercare le persone indicate dalla mano dell’oste, e quando si rese conto di chi fossero, ordinò una Harp con molta schiuma e ammutolì.
Non era un uomo, ed aveva ordinato un Jack Daniel’s. Questo, in secondo luogo, stupì Diana: il corvo, non aveva capito come, aveva ordinato un Jack Daniel’s ed ora ci infilava il becco dentro, sollevava il bicchiere e sorseggiava l’ambra del whisky. Poi si mosse il gatto: si sollevò dalla sua posizione a ciambella, si stiracchiò puntando le zampe anteriori ed inarcando la schiena, carezzò Diana con la testa, fece un paio di fusa e saltò giù dallo sgabello. L’Uomo con il Cilindro entrò proprio allora, il gatto gli si fece incontro e gli si strusciò contro gli stivali in pelle nera. L’Uomo col Cilindro sorrise, un ampio sorriso giallo in mezzo ad un volto nero come la fuliggine. A lato del sorriso, un vecchio sigaro fumante in coltri spesse. Sedette sullo sgabello lasciato libero dal gatto.
Diana era un gran bel tipo: non era bella secondo i canoni di bellezza della fine del ventesimo secolo, ma era un gran bel tipo. Portava i capelli corti e tinti d’uno strano color porpora, impossibili a pettinarsi e perciò mai spettinati; aveva il seno piccolo, ma ben plasmato; e soprattutto, aveva un bellissimo sedere, sempre primo classificato di categoria nell’annuario clandestino redatto dai maschietti del suo liceo sugli attributi fisici delle ragazze della scuola. Era pallida, e questo faceva risaltare le sue labbra porpora come i capelli e carnose, e gli occhi parevano fessure d’ebano. Non fumava e detestava il fumo degli altri. Al sigaro del negro non importava.
Il Dingo seccò il Jack e svolazzò sull’appendiabiti a bracci a lato del banco: l’Uomo col Cilindro poggiò sul suo sgabello il copricapo, svelando dei lunghi capelli ricci e neri della stessa consistenza del legno. Diana pensò che in fondo il fumo non le dava così fastidio. L’uomo sembrava avere un’età indefinibile tra i venti ed i trecento anni, e questo la metteva un po’a disagio. Fu lui a parlare per primo.
“Grazie per essere venuta… anche se forse devi ringraziarmi tu per averti invitata…”, la voce del negro vibrava potente e bassissima nell’aere.
“Chi sei?”, chiese Diana.
“La Voce delle Telefonate Mute. Il Destino. Il Fato. Papa Legba. Chi vuoi tu”, e di nuovo quel suo sorriso giallo papiro.
“Bene, e che vuoi?”, Diana avvertiva un terribile senso di disagio e paura di fronte all’energumeno nero che le sedeva di fianco. Il gatto le saltò in grembo. L’Uomo col Cilindro rise forte, come un colpo di tosse.
“Senza mezze parole… Allora lo sarò anch’io. Dunque, le tue telefonate mute non erano di nessun amante troppo timido per parlare. Di nessun ex amante dispettoso. Di nessuna persona col microfono rotto che dovesse dirti le verità assolute della tua esistenza. Ero io.”
Diana arrossì delle sue fantasie svelate: “Che chiamavi a fare?”, rispose di getto.
“Chiamavo per controllare che tu abitassi ancora lì. Per noi è diventata dura, non abbiamo più lo stesso potere di un tempo, ora, quando andiamo a raccogliere qualcuno, dobbiamo andarci in macchina, i più sfortunati a piedi, e dobbiamo cercare il suo indirizzo sull’elenco del telefono. Perlomeno non paghiamo la bolletta…”
“Io continuo a non capire… che te ne frega a te dove abito io?”
Il negro rise: “Oh, ragazza, non potresti capire neanche se volessi. Io sono Papa Legba, e faccio solo il mio lavoro, come lo fanno tutti gli altri poveracci come me, da quel ricchione greco di Thanatos alla francesina anoressica con falce e sigaretta: raccogliamo le anime dei morti. Solo che io a volte i morti li faccio camminare…”, lo disse come se stesse ammettendo una marachella.
“Ma che cazzo stai dicendo? Tu saresti l’angelo della morte? Sei scemo?”
“Si…”, l’Uomo col Cilindro continuava a sorridere, “E si…”
Diana sbiancò. Poi, incredula, disse: “Dunque, sono morta?”
“Oh, no, mancano ancora un paio d’anni… è che a furia di sentire la tua voce per telefono mi è venuta voglia di incontrarti…”
“Un paio d’anni? Mi tocca crepare a ventotto anni? Cristo, mi tocca morire zitella…”, l’umana paura della morte prendeva possesso delle sue ginocchia, ed ogni dubbio razionale veniva respinto dalla figura irreale che le parlava di fianco. Il negro rise come se la cosa fosse buffa e nel ridere vibrò: “Ehi, calma, mancano ancora un paio d’anni, ma non si muore mai davvero…”
“Cazzo, due anni…”, fece un sorso di Harp e si zittì, poi chiese, con sospetto, “E che cazzo vuoi adesso, da me, oltre rovinarmi i prossimi due anni?”
“Papa Legba non rovina niente a nessuno”, soffiò il fumo fragrante del sigaro, “Papa Legba offre patti, affari per chi può aiutarlo a vivere meglio. Papa Legba porta la morte, e dona la non morte. Papa Legba sceglie chi prendersi, e tu sei mia giurisdizione. Papa Legba ti offre tre strade per sfuggire alla morte: la prima è uccidere Papa Legba, ma non è possibile uccidere chi domina la morte; la seconda è camminare nel mondo dei vivi da morta, ma Papa Legba assicura che è la via peggiore, marcire da non vivi; la terza è amare Papa Legba dall’erezione dura come il frassino, opzione consigliata; la quarta…”
“Avevi detto tre strade.”
“Tre è il numero perfetto, le cose devono sempre venire tre a tre: la quarta è collaborare con Papa Legba, assumere il suo ruolo nell’attività di ritiro, fare in modo che egli abbia un poco di riposo. Papa Legba vuole che tu scelga ora la tua strada.”
Diana lo fissò, come se non fosse riuscita a capire una sola parola vibrata dalle labbra carnose del negro; Papa Legba rinforcò il cilindro in testa, ed infine, nel silenzio totale di Diana, tuonò solenne: “Bene, la tua scelta è fatta… peccato, è tanto che non faccio l’amore con una donna… viva intendo… Hai scelto di diventare assistente di Papa Legba, ed in fondo te ne ringrazio infinitamente. Dingo ed il Gatto sapranno introdurti al tuo nuovo lavoro. Sei assunta.” S’alzò, sorrise del suo sorriso giallo, e se ne andò.
Diana ebbe solo il tempo di chiedersi se il negro fosse un pazzo necrofilo e se avesse davvero ancora solo due anni per trovare marito e lasciarlo vedovo, prima di rendersi conto che gatto e corvo fossero spariti e la Harp fosse finita. Ordinò allora un’altra Harp a spese “del tipo nero che era qua”, e solo quando, sfiorando la mano del barman per afferrare la pinta, vide accasciarsi a terra l’uomo dietro il banco e la cameriera ai tavoli chiamare l’ambulanza e gli infermieri affermare che non ci si spiegava come ma le funzioni vitali dell’uomo avevano sfiorato lo zero, solo allora cominciò a temere che tutto quel che era accaduto non se lo fosse soltanto sognato.
Il gatto ed il corvo la seguirono in strada. Lei se ne accorse, ma non ebbe reazioni di sorta, solo continuò a camminare. Tornò a casa, li chiuse fuori, ma non sembrò servire a nulla, loro semplicemente erano il buio dentro l’appartamento e quando accese la luce del soggiorno l’aspettavano ormai da tempo. Il corvo s’era versato del gin Larios, il gatto s’era semplicemente acciambellato sul divano: lei buttò il cappotto su una poltrona, e gli si sedette accanto, lui si stiracchiò, le strusciò la testa su una mano, e si riacciambellò. Dormirono entrambe profondamente, finché il sole non scacciò la notte.
Diana non ebbe sogni. Il corvo finì il gin. Il gatto sparì verso le sei. Dalle tapparelle filtravano alcuni raggi di sole ed il rumore del traffico di Milano. Erano le otto del mattino, era troppo presto, dal momento che non aveva un lavoro. Il problema forse era che fosse lunedì, mentre avrebbe dovuto essere appena cominciata la domenica: lei si rese conto di aver perso qualcosa proprio osservando scorrere il fiume di lamiere sotto la sua finestra, qualche decina di metri sotto, mentre sorseggiava del tè alla menta. Accese il televisore per controllare la data, e mentre ascoltava le notizie del giorno dopo, che era proprio lunedì, ma nove giorni dopo il sabato trascorso col negro, il corvo le porse un bicchiere di gin, ed afferrandolo lei si rese conto che le sue unghie erano diventate nere, come quando andava nei locali dark a dar mostra delle sue forme, e che stava accendendo la sigaretta che il corvo le aveva offerto. Stabilì che tutto era troppo assurdo, stava ancora dormendo, ma la cosa oltre a spaventarla la eccitava, la eccitava parecchio, sentì un brivido tra le gambe ed andò a guardarsi allo specchio: i capelli porpora s’erano macchiati di alcune ciocche nere che la rendevano una candela dalla fiamma color sangue, ed il viso le si era fatto più pallido, e quello sulle unghie non era smalto come si era augurata, e la sigaretta in effetti la trovava gustosa, e quando si guardò negli occhi, le fessure sottili color dell’ebano, lo specchio si spezzò in vari frammenti. Lei sorrise, carezzò il riflesso moltiplicato del suo volto fino a tagliarsi, non uscì molto sangue dal dito ferito, lei lo mise sotto il getto d’acqua del rubinetto, e vide l’acqua corrente imputridirsi e diventare torbida mentre fuggiva nello scarico del lavandino. Il telefono squillò.
Era Alessa.
“Claudio è uno stronzo!”
“Ciao, Alessa… che è successo?”, Diana era abituata a questo genere di conversazione telefonica, e non la trovava per niente stimolante. Per questo tirò il cavo fino in soggiorno e si mise alla finestra afferrando per il collo la bottiglia di gin.
“Ieri sera… siamo andati a ballare… e lui non ha fatto altro che parlare con una ragazza con la maglietta dei VnVNation… io gli ho chiesto di venire a ballare e lui invece è rimasto lì a parlare con ‘sta puttana… e tu dove cazzo eri finita che è una settimana che ti cerco… comunque, adesso basta! Gli ho detto che –CLIC-“, fine della conversazione. Diana voleva bene ad Alessa, ma in fin dei conti aveva proprio rotto i coglioni, e non era quello il momento. Il gin era finito, da prima che lo prendesse lei: si girò, guardò il Dingo, e quello le sorrise strafottente. Il telefono squillò.
Era il suo nuovo capo, il suo nuovo impiego.
Doveva darle alcune spiegazioni, il negro. Lei le pretendeva. Quello rise di gola, e le suggerì di mettersi comoda. “Papa Legba è un loa dei culti voodoo haitiani e africani. Io sono soltanto un Papa Legba, sono arrivato in Italia con le prostitute nigeriane da dieci euro a pompino, e sono cresciuto coi cubani ed i domenicani fino a diventare l’uomo bellissimo che hai visto…”
Diana non rise. Era in un casino più grande di lei: “Ascolta, come vuoi che io diventi un demonio voodoo, che sono nata a Niguarda?”
“Oh, non capisci. Il mio è un mestiere come tanti, ed altri fanno il mio stesso mestiere in tutto il mondo. La Bella Dama, Caronte, Thanatos, ce n’è un’infinità, perché gli uomini a morire sono tanti… Siamo angeli della morte, impiegati del trapasso, raccogliamo anime per chi ci crede, le altre le lasciamo a terra. Poco importa se il morto è Cristiano, Indù, Buddista, Ebreo, Musulmano. Certo, gli arabi poi ci restano male che dall’altra parte ci saranno 5 vergini in totale, ma li carichiamo tutti sul Ferry Boat di Caronte, e vanno tutti in villeggiatura forzata nello stesso posto. E poco importa chi è l’incaricato dell’accompagnamento. A me piaci tu, e ti ho assunta. C’est bien?”
“Ed ora tutto quello che tocco muore? Che sistema di merda è?”
“Sei tu che non sei capace, bimba!”, vibrò la voce del negro, “Puoi toccare chi vuoi e scoparti chi vuoi, basta non pensare alla morte! Capisci? Ti fai pompare da un maschio e pensi Lo Uccido, e quello ci rimane. È un metodo complesso, devi padroneggiare bene i tuoi pensieri, ma è possibile, io lo faccio, ad esempio.”
“E perché non sanguino? Perché ho dormito nove giorni? Perché non ho fame?”, rafficò isterica Diana.
“Le funzioni vitali del tuo corpo sono sospese, non ne hai bisogno. In realtà sono solo rallentate di migliaia di volte, invecchierai ed avvertirai la fame e la voglia, non sanguinerai copiosamente ma stillerai una goccia di sangue ogni dieci minuti, nel contempo le carni impiegheranno mesi a rimarginarsi, ed ogni anno per il tuo corpo sarà come una sola giornata. Compris, mademoiselle? E 9 giorni perchè le cose vengono tre la volta, tre per tre, che fa nove, non?”
“Perché hai chiamato?”
“Per dirti di prepararti, ma petit chat noir. Allenati su tutto quanto ti ho detto, è l’unico compito che hai per ora. Goditi questi giorni come le tue ultime vacanze, bella…”
E riattaccò.
Con Gatto e con Dingo furono mesi di allenamento concentrato e sfrenato divertimento. Diana portava avanti la sua vita come al solito, con Alessa e Claudio a bere e ballare e litigare, e portava avanti la sua morte in segreto, i soldi li recuperavano chissà dove il micio col corvo, lei poteva osare ogni cosa senza ripercussioni. Più acquistava sicurezza, meglio le andavano le cose, un sacco di ragazzi la corteggiavano, ogni tanto un’agenzia la pagava profumatamente per posare in servizi di moda dark o fetish, e non invecchiava e non ingrassava e poteva fumare seicento sigarette o bere litri di alcool senza alcun malore. Solo una volta s’era portata un tipo a casa che mentre glielo spingeva dentro da dietro aveva cominciato a sferrarle cazzotti sui reni chiamandola troia, e lei per sbaglio l’aveva ammazzato, ma era più rammaricata per essersi scopata uno stronzo che per averlo freddato. Al cadavere pensarono Gatto e Dingo, non si sa come, ed il periodo magico proseguì. Fino a quella maledetta serata in cui Alessa fu mollata da Claudio.
Alessa era disperata, al telefono. Claudio l’aveva tradita ed oltretutto l’aveva mollata per quell’altra troia, la solita storia. Ma stavolta lui non aveva invocato perdono, aveva rotto e ricominciato con un’altra. “Per favore, Diana, vieni con me, voglio strapparle i capelli, alla puttana, vieni con me!”
“Dove?”
“Stasera Claudio e la Troia vanno alla festa del Boga a Cesano, sono invitata anch’io, voglio ammazzarla!”
“Bèh, al massimo ci sono io”, ironizzò Diana, “Ok, andiamoci, passi tu?”
“Passo subito!”
Tra le lamiere incandescenti, in mezzo alla superstrada Milano-Como, Diana rivedeva Alessa strillare e sterzare tentando di evitare quell’auto che le tagliava la strada, una vecchia Ford berlina nera. Poi tutto si confondeva, la loro auto che capottava, il motore che s’infiammava, la pioggia che non bastava a spegnere quel fuoco. E Diana che, senza cintura di sicurezza, veniva sbalzata fuori dall’abitacolo, tanto non poteva morire più, e si feriva rotolando sull’asfalto bagnato, che cazzo, non si sarebbero rimarginate più, ci avrebbe impiegato mesi a chiudere quelle ferite…
Diana si sollevò, e guardò disarmata l’auto slabbrata, informe, in fiamme, qualcosa che pareva Alessa che ancora strillava sebbene ne fosse rimasto ben poco. Zoppicando, sotto la pioggia lenta e costante Diana si approssimò al rottame. Non c’era niente da fare.
La Ford nera tornò in retro. Diana si voltò, furiosa, decisa a giustiziare gli assassini della sua amica, e rabbrividì. Un tipo magrissimo, incappucciato, stava poggiato al cofano della Ford fumando una sigaretta, distratto dai suoi pensieri, dal lato del guidatore, con una lunga falce poggiata alla spalla. Il Negro, con un sorriso giallo stampato dietro il sigaro, era sceso dal lato del passeggero e le disse: “Niente male come primo impiego, eh?”
Diana non rispose, sentì soltanto la rabbia rapirla e spingerla al collo di Papa Legba, ma questi proseguì: “Quanto tempo è passato, dal nostro primo incontro, ricordi? Due anni. Ricordi, ma belle? Stasera tu muori, e diventi la Morte. Fantastique, non?”
Diana guardò nel metallo ritorto quale sarebbe stata la sua fine se non fosse scesa a patti con la Morte o i suoi agenti, e mentre Papa Legba l’accompagnava a raccogliere l’anima della sua migliore amica, prenderla per mano e condurla fino alle banchine dell’Aldiqua per mandarla Aldilà, mentre Alessa la guardava spaurita e muta senza capire granché, Diana pianse la prima lacrima e si sentì già stanca di quello sporco mestiere, mestiere di manovalanza. E s’accorse solo allora che, se aveva accettato lavoro dalla Morte, era soltanto perché amava la Vita.

Dogma4012 - Fuori Gli Sbirri Dai Quartieri

Spin Off mai accaduto nel Mondo Nero del Gatto. A me non piace.

Tutto cominciò di corsa. Lungo viale Sarca, e nessuno sapeva nemmeno come si fosse arrivati fin lì. C’era questo marocchino che correva a perdifiato, e dietro l’agente di Polizia del commissariato Cenisio Gemmi che tentava di stargli dietro. Arrivarono correndo e sembrava proprio se ne sarebbero andati correndo, il marocchino col piumino stracciato che perdeva piume sul marciapiede, Gemmi che aveva perso il berretto da gendarme e sudava rabbiosamente.
La gente guardava, allarmata, incuriosita, qualcuno pure divertito, và là lo sbirro che non ce la fa più. Ma crollò prima il marocchino: ad un certo punto, all’incirca all’altezza di Aldo, storica trattoria toscana lurida ed a prezzi popolari –particolare realizzato solo nell’immaginario di chi non ne era mai stato cliente- il magrebino s’inginocchiò a terra, spompato, e implorò.
Gemmi gli arrivò addosso come uno schiacciasassi, come una palla da demolizione che esagera nell’oscillazione e butta a terra anche i palazzi d’intorno. Ragazzi in pausa pranzo dall’Università Bicocca, che stavano pasteggiando chi da Aldo chi alla mensa della Casa Matta, centro sociale occupato studentesco, erano accorsi in strada attratti dal chiasso che l’evento stava suscitando, ed a quell’impatto dapprima risero di stupore. Gemmi stese a terra il marocchino con un calcio nei reni, poi cominciò a calciarlo sulle costole senza trattenersi, rubizzo d’ira in volto, sempre più forte.
Qualcuno gridò, picchialo piano, suscitando qualche risata e qualche commento d’approvazione o sdegno, ma Gemmi non sentiva niente, pensava solo a caricare ogni calcio più potente di quello precedente, a colpire in petto il nordafricano, mentre quello non riusciva più a respirare tra l’affanno e le percosse, e schiumava dalla bocca.
Vicedomini sopraggiunse ed arrestò la gazzella a pochi centimetri dal fuggitivo, scavalcando il marciapiede. Sulla volante con lui stava seduto mesto e tranquillo un altro marraca, in manette. Vicedomini sbalzò giù dall’auto e si mise a calciare pure lui lo sventurato staffettista marocchino.
L’adunanza civile cominciò ad insultare gli agenti in divisa, vermi, infami, ma quelli parevano sbattersene, pestavano senza far troppo caso alle condizioni del loro sacco di sfogo. Una Uno con sirena sul tettuccio accostò tranquilla al margine di viale Sarca, e ne scese l’ispettore Cristiano Camporosso. Guardò la scena, sorrise amaro e s’accese una Pall Mall blu. Un vecchietto gli si avvicinò chiedendo che avesse combinato il talebano, se fosse un terrorista, ma Cristiano rispose rassegnato: “Niente. Hanno rubato una macchina, lui ed il suo socio, ad Affori. Ed hanno stirato una bambina in Fulvio Testi. Il passeggero s’è consegnato subito, l’altro se l’è data a gambe. Cose che capitano, no?”, e s’avviò a quietare gli animi dei due agenti.
C’era un rombo caotico, quello provocato dalla troppa folla e precedente i disastri meteorologici o le catastrofi naturali. Cristiano ordinò ai due giovani sottoposti di mollare il marrakesh e caricarlo sulla volante, che il lavoro lo finivano i delinquenti onesti a San Vittore, non c’era bisogno di far indagare due agenti per percosse o abuso di potere. Ed appena il marocchino fu ammanettato e chiuso in macchina, arrivò la carica.
Al grido di fascisti, dei poveretti paladini di chissà che tipo di giustizia, come li avrebbe definiti poi Cristiano nel rapporto, assaltò i tre sbirri a calci e sassaiole. Gemmi rovinò quasi subito al suolo. Vicedomini mollò qualche cazzotto nella ressa, Cristiano cercò soltanto di farsi spazio intorno. Poi la schiera di guardiani dei guardiani arretrò disperdendosi. Qualcuno gridò: “È morto!”
E Vicedomini cominciò ad urlare. A piangere, ed urlare.
Gemmi era stato colpito ad una tempia con una pietra scagliata da qualcuno che per dogma politico odiava gli sbirri. Perché i delinquenti non odiano gli sbirri, ne hanno timore o li affrontano impavidi considerandoli merda, magari, o tentano in qualsiasi modo non onesto di farseli amici contagiandoli con la delinquenza ed il soldo facile. Ma alcune religioni partitiche ed extrapartitiche predicano l’odio allo sbirro, nemico del popolo, nemico della libertà. Alcuni politicanti non vogliono portare a processo le mafie, gli strozzini, gli assassini, le madri che massacrano i figli, o i pedofili, ma i poliziotti. Perché i delinquenti sono tutti vittima di un sistema sbagliato, mentre un ventenne che l’unico mestiere che abbia trovato giù in Ciociaria è stato venire ad indossare una divisa blu con un berretto da pirla in testa ed un cannone nella fondina a Milano è un fascista ed un infame. Perché al giornalista piace la rabbia di chi infiamma le strade, ma non piace il tutore dell’ordine che in preda al panico prema il grilletto. Perché lo sbirro ha più poteri e quindi più doveri di un cittadino normale, quindi stia in guardia, la guardia, i suoi guardiani stanno in agguato. E questo modo di pensare, anzi, di non pensare ma acquisire come proprio un ordine socio-politico interessato, Cristiano lo faceva imbestialire, perché faceva proprio il gioco ordito dai potenti, quel mettere l’uno contro l’altro i poveracci e distogliere l’attenzione dal giogo del controllo subliminale con sodomizzazione sociale inclusa. E nella sua testa stava prevedendo tutto con una oculatezza che l’avrebbe stupito, giorni dopo.
Era stato incredibile, pensò Camporosso mentre il cadavere di Gemmi veniva caricato sull’ambulanza a sirene spente, e Vicedomini prendeva a cazzotti un cestino dei rifiuti verde Amsa. Aveva visto Gemmi quasi tutti i giorni, negli ultimi anni, e gli stava anche simpatico, ma di lui sapeva così poco. Non sapeva se avesse una fidanzata, non sapeva di dove fosse originario. Vicedomini, invece, sapeva tutto del collega. Era fidanzato convivente in vista matrimonio con una gran figa bionda, con le orecchie a sventola però. Lei aveva avuto problemi di dipendenza da antidepressivi, robe così, ma da due anni era rinata, grazie a Giuliano. Cazzo, Gemmi aveva anche un nome, si chiamava Giuliano. Ed era del quartiere Isola, di via Volturno, per essere precisi. Abitava nello stesso palazzo dei suoi genitori, milanesi d’epoca. Aveva ventitré anni. Ed era appena morto su un marciapiedi assassinato da un sasso scagliato da uno spocchioso di merda incazzato perché un poliziotto stava, si, è vero, lo stava massacrando, quell’arabo del cazzo, ma Cristo quello aveva stirato una bambina!
Camporosso ascoltò in silenzio Vicedomini, fumando assorto le sue Pall Mall, mentre altri sbirri facevano tutti i rilievi, mentre in cuor suo sperava nessuno facesse quello che lui, per qualche istante, aveva desiderato fare.
Una settimana dopo, il funerale di Gemmi era passato, Vicedomini aveva un nuovo compagno, la sventolona di Gemmi tentava il suicidio coi barbiturici, e Camporosso sapeva chi avesse ucciso l’agente grazie alla videocamera di sorveglianza del benzinaio di viale Sarca. Ma Dio li fa, ed il Diavolo li accoppa.
Perché mentre Cristiano finalmente risolveva un caso con un serio metodo d’indagine, Vicedomini era riuscito a convincere un Commissario ad emanare un mandato di perquisizione per la Casa Matta, dalla quale proveniva in cuor suo l’assassino dell’amico e compagno. Così, mentre Cristiano chiedeva ad Aldo il toscano chi fosse il giovane rivoltoso con la barba ritratto in alcune foto pixellose ottenute dai fotogrammi della videosorveglianza –guardiana dei guardiani dei guardiani- del benzinaio là vicino, il Commissario Fassi caricò due camionette di sbirri antisommossa, tra cui Vicedomini, e partì al comando di un’incursione nei locali della Casa Matta.
Vicedomini stesso sfondò la porta a vetri, peraltro aperta, del Centro Sociale, e s’inoltrò nel piccolo corridoio che accedeva al cortile interno dello stabile ex-industriale seguito da Fassi e diciotto agenti in armatura. Fassi divise il drappello, dieci in cortile e dieci su per le scale che salivano a sinistra nelle stanze degli occupanti. Vicedomini prese le scale.
Cristiano entrò in Commissariato trionfante con il fromboliere in manette, Tiziano Cesari, uno studente di sociologia senza precedenti penali, un ragazzino di diciannove anni che al momento dell’arresto era scoppiato a piangere esclamando “Finalmente!”, e che per tutto il tragitto in macchina con Camporosso aveva spiegato la storia così come l’aveva vissuta lui, che non voleva mica ammazzarlo, ma così, nel gruppo, se non avesse lanciato quella pietra tutti gli avrebbero dato contro, che era un cagasotto e via dicendo. Cristiano aveva quasi avuto voglia di lasciarlo andare, ma poi si consolò convincendosi che se la sarebbe cavata con poco, il Cesari, che tanto la parola Giustizia in Italia si usa solo nella traduzione dei titoli dei thriller americani. Il trionfo fu svilito: Vicedomini era fuori. In missione.
Vicedomini era il compagno di Gemmi da tre anni. Avevano trascorso intere giornate assieme, fino a diventare intimi, più che amici, più che fratelli: ciascuno sapeva che dalla sua attenzione dipendeva la vita dell’altro, oltre che la propria, era un legame di sangue difficile da recidere in maniera diversa che col fallimento o la morte. Vicedomini frequentava Gemmi anche oltre l’orario di lavoro, combinavano uscite a quattro in cui la moglie del primo e la promessa sposa del secondo petulavano di facezie vanesie, mentre i due poliziotti sbraitavano contro i maxischermi che proiettavano il calcio a pagamento nel locale o nel ristorante. Vicedomini aveva promesso a Gemmi che gli avrebbe fatto tenere il figlio che gli stava per nascere a battesimo, e Gemmi invece aveva scelto il collega come testimone di nozze. Vicedomini non aveva potuto far niente per salvare il collega, il compagno, l’amico, il fratello, ed ora il cuore incrinato sotto la sua divisa reclamava una cosa soltanto: vendetta, a tutti i costi.
Mentre il plotone di esecuzione della Polizia di Stato manganellava a freddo chiunque trovasse all’interno della Casa Matta, Vicedomini sfondò una porta con un calcio e si trovò in una stanza occupata da un letto matrimoniale: sul letto stava inginocchiata una ragazza con in testa dei dredd tentacolari biondi, pallidissima, con in braccio un bambino di qualche mese, mentre un ragazzo barbuto stava tentando di spingere un armadio davanti all’entrata della stanza senza successo. Il ragazzo sbiancò e guardò Vicedomini. Lo sbirro ingoiò tutta la furia e si trovò ad essere confuso e spaventato, mentre urla e schiamazzi e tonfi di manganello popolavano l’aria: sollevò la visiera del casco, guardò il ragazzo, perplesso, e poi la ragazza, poi il bimbo, e poi il ragazzo.
“Che fate voi qui?”, chiese.
“Ci abitiamo…”
“Ma è vostra, la creatura?”
“Si”, rispose timoroso il ragazzo barbuto.
“Mannaggia…”, imprecò Vicedomini a bassa voce, lasciando cadere a terra il manganello. Poi levò il casco e chiese: “Ma voi sapete chi ha ammazzato il mio collega, qua davanti, settimana passata?”
“No”, rispose quasi in lacrime la ragazza coi dredd.
“Come si chiama?”, chiese il poliziotto.
“Chi?”
“La creatura…”
“Paco”
“Ma che nome e’mmerde, pore guaglione…”, sorrise Vicedomini, “Che posso prenderlo in braccio?”
I due ragazzi si guardarono perplessi, ma Vicedomini già stava sollevando tra le braccia il piccolo Paco: “Sapete, pure mia moglie è in attesa, deve nascere a dicembre. Ma lo chiamiamo Vincenzo, come mio padre. Ch’accussì le iniziali sono doppia V…”, e si mise a gigionare col poppante.
Entrò Fassi, e gridò: “Trovato qualcosa?”
“Ohè, dottò, non gridate, che spaventate la creatura. Qui non c’è niente, non troveremo niente. Può darsi che mi sono confuso…”, ammise Vicedomini. Riconsegnò Paco alla madre, e senza formalizzarsi col suo superiore, raccolse casco e manganello bisbigliando, “Mi sa che abbiamo combinato una cazzata, dottò, è meglio se ce ne andiamo…”
Fassi rimase con un palmo di naso, e sentì le vertigini immaginando soltanto i titoli dei giornali del giorno dopo. S’era fatto la Diaz a Genova, se l’era cavata, e s’era infilato di testa nella merda.
Vicedomini, invece, tornò in Cenisio.
Gemmi era morto. Ma non era in quel modo che l’avrebbe riportato in vita. Aveva combinato un inutile massacro, aveva messo nei guai il Commissario Fassi, e non aveva trovato neanche l’assassino del suo collega compagno amico e fratello, ed ora probabilmente si sarebbe scatenata una bufera sulla Polizia e lui sarebbe stato pure indagato. Ma mentre attraversava a piedi Niguarda per rientrare al Commissariato di Affori, sorrideva, e decise: Giuliano Vicedomini era uno splendido nome, un nome amico, un nome giusto, per suo figlio.

Papa Legba Traffics - Nero Pergola

Toni da duro e prima persona: esperimento in classico stile hardboiled per un raccontucolo che deraglia nell'horror a la Carpenter.

Domenica mattina, ore 9:28.
Sono venuto a dormire alle 5 passate, ma il telefono squilla spietato ugualmente. Impantanato sotto le coperte immergo un braccio nel gelo della stanza e tiro su la cornetta. È Lulù. L’alzabandiera del risveglio si fa turgido e bollente. Se la immagino reggere la cornetta vedo le sue labbra che mi baciano lo scroto col glande pulsante infilato nell’orecchino a cerchio enorme che le pende dal lobo. “Dimmi”, dico imbarazzato. Mi avvisa che se voglio contattarla devo comporre un altro numero, ché la sera prima le hanno fregato il cellulare. “No, cazzo! L’avevi appena preso! Dove?”
Era andata a ballare in Pergola. La Pergola è una casa occupata autogestita, in via della Pergola, appunto, quartiere Isola, dove si va a ballare ad un prezzo d’ingresso proibitivo. E' pieno di africani che spacciano… “Sono stati quei negri di merda! Ci penso io!”, mi infiammo tricolore e mentre lei cerca di acquietarmi la saluto e butto giù, mi vesto e comincio a radunare la Brigata.
Camporosso no, è poliziotto e quello che voglio combinare non è proprio legale, sebbene sia giusto e doveroso. Comunque, per lui è meglio di no. Il Brucia è zoppo di nuovo, sarà a casa a contare le monetine della sua collezione o a fissare il soffitto per far scorrere il tempo. Il Pugile sarebbe l’ideale, ma non lo trovo, cazzo, da quando è morto la volta scorsa sembra Phoenix dei Cavalieri dello Zodiaco, non esiste più e compare solo nel momento del bisogno o quando non l’hai chiamato. Lupo, col cazzo che chiamo Lupo se si tratta di Lulù: è il semestre che stanno insieme, adesso, ma lei ha chiamato me, e non voglio dare a lui l’occasione di farsi bello di fronte a lei. Trentalibbre. È grande, grosso, oggi non lavora.
Aspettiamo sera, il mercato ne(g)ro di via della Pergola apre solo col buio, di giorno vanno a rubare: i Senegalesi spacciano in gruppetti di quattro e tentano di piazzare refurtive raccolte nel pomeriggio, i Marocchini spacciano di fianco, in via Dal Verme, non si mischiano ma si odiano, e la bella gioventù milanese và a dimenare il culo con la techno in Pergola o a stonarsi d’alcool al Frida, cortile trendy rimesso a locale. Poi escono, vanno dal negro che gli ha appena fatto il portafogli, e con un sorriso amichevole comprano dieci euro di pessima ganja. Gioventù di merda.
Parcheggiamo il Peugeot 806 di Trenta, e chi ti becco? Il mio avvocato, Guglielmo Roggero, che compra il fumo dai Senegalesi. Lo saluto, “Hai una macchia di sugo sulla camicia”, aggiungo. Willie, perché è così che lo chiamo, mi ha difeso al processo in una puntata precedente delle mie disavventure di questi ultimi anni, avevo ucciso un tipo che minacciava me e la Brigata ai tempi della faccenda del Kontenitore, ma è una storia lunga, potrei scrivere 120 pagine word se volessi raccontarla…
Saluto il negro, gli sorrido e rifiuto il fumo, Trenta mi aspetta accanto al suo monovolume, oddio, o si mette a dieta, o diventa un monovolume anche lui, non lo distinguo dall’auto, Willie sta lì con me. “Senegal, vorrei un cellulare Nokia nero, a sportello, ce l’hai?”
Lui ed i suoi soci, sono in quattro, come al solito, si dicono qualcosa in una lingua che pare il verso del tacchino, mi squadrano, non ho l’aria né dello sbirro né del fascio, si lasciano imbrogliare dal mio stile da punk/metallaro/sfigato, dal mio aspetto di Che Guevara denutrito di periferia: sorridono e mi fanno vedere tre cellulari, ma non sono quello che cerco. Sebbene il sangue mi ribollisca nelle vene visiono i telefoni e con una smorfia insisto sul modello che ho richiesto, così chiamano il Lou Ferrigno dell’Africa Centrale e tutta la sua cricca, un supernegro, quello arriva e mette in mostra tutta la vetrina. Lo vedo. Il cellulare di Lulù con ancora impiccato Winnie the Pooh inguainato un costume di Halloween in lattice viola. Afferro il telefonino ed il negrissimo Hulk me lo offre per 30 euro, ribatto “Devo pagare una cosa già mia?”
I negri si allarmano, nervosi estraggono le lame dai loro piumini d’oca colorati, gli occhi si socchiudono in fessure iniettate di sangue, i sorrisi brillanti diventano ringhi bestiali, io un po’ mi cago addosso e gli dico, “Calmo, calmo”, tiro fuori venti euro e glieli piazzo in mano, “Non più di questi”, dico, lui torna a sorridere soddisfatto, io lo mando a fare in culo sottovoce. Chiedo a Willie dove ha parcheggiato, lontano, bene, “Vieni con me, allora”, saliamo sulla macchina di Trentalibbre, io dietro, Trenta mette in moto mentre Willie lo saluta, partiamo, apro il portellone laterale ed accendo il panno della molotov, non effettuo un ottimo lancio verso gli africani, ma si cagheranno addosso. Willie mi dice agitato che non potrà aiutarmi granché, stavolta, al processo, Trenta si complimenta con sé stesso per aver prudentemente coperto le targhe del Peugeot.
Che cazzo, comunque, ho presa in pieno con la bottiglia incendiaria una di quelle merde, cominciano a seguirci a piedi mentre la Torcia Umana di colore rotola in terra. Dei loro compari ci tagliano la strada e ci si parano innanzi, uno coi rasta indossa una tunica colorata che sfiora terra ed è pieno di pendagli con feticci e fotografie incorniciate: ci scatta una decina di foto, tranquillo, con una vecchia reflex Olympus, Willie si preoccupa per una possibile denuncia, invece il santone giamaicano ci fa segno col dito che ci taglia la gola.
I negri si fermano tutti intorno a noi, e ci osservano. Noi tre nella macchina non apriamo bocca e se potessimo forse piangeremmo. Dalla Pergola escono dei fottuti fattoni da Casa Occupata. C’è un gran vociare, ma d’un tratto cala un silenzio sacrale. Lo vedo per primo io, nello specchietto retrovisore. La carbonella di negro alla brace che la mia coscienza rimordeva d’avere ammazzato e non solo spaventato sta arrancando lentamente verso di noi, ancora in fiamme. Sembra un burattino manovrato male. Il Santone Fotografo ha le pupille ribaltate e schiuma idrofobo dalla bocca. Una certa memoria a fotogrammi e vignette mi sussurra nell’inconscio una parola, ma non la colgo subito, al momento sono solo terribilmente terrorizzato. Poi esplode nella mia testa e nel petto mentre la strillo, “ZOMBIE!”, ma Trentalibbre, più sveglio e cinico di me, ha già inserito la retro, impresso la scritta Pirelli degli pneumatici sul cadavere vivente della rediviva Torcia Africana, intrapreso in retromarcia piazza Minniti speronando una vecchietta su una Fiat Punto, e scheggiato verso casa mia, in silenzio. Forse se non ne parliamo non ce lo ricordiamo, forse se non ne parliamo non è mai successo.
Ci barrichiamo in casa mia cagati sotto, più che per quello che abbiamo visto, per l’atmosfera malsana e malevola dello Sciamano e del tizzone negro come il carbone che si rianima e ci viene incontro. Willie, che non legge romanzi, ma solo saggi di entomologia e biologia, fornisce una spiegazione razionale e scientifica dell’accaduto: lo Sciamano avrebbe avuto un attacco epilettico dovuto alla tensione del momento; la scarica d’adrenalina avrebbe reso insensibile alle ustioni ed al decesso Carbonello. Io, che sono un cretino, penso a Romero, ai fumetti, ad una puntata di Starsky & Hutch, continuo a battere i denti percependo intorno a me loa voodoo, Papa Legba, morti viventi. Le foto. Mi spaventano le foto, morire tra atroci dolori dilaniato sulla celluloide da spilloni malefici. Trenta non si scompone, mette a bollire l’acqua per la pasta e s’accende una sigaretta, preparandosi un Campari col bianco.
Mangiamo tanto e beviamo di più. Siamo tutti imbriachi e sragioniamo sul da farsi: Willie si rammarica di aver perso grazie alla mia molotov la fiducia del suo pusher di fiducia, Baba; Trenta ci vuol costituire all’ispettore Camporosso; io vorrei un fucile con proiettili BumBum in argento. Verso le 3, mentre in TV guardiamo una donna nuda con le smagliature che da un divano soddisfa le sciocche fantasie erotico-telefoniche di una voce identica a quella del nostro professore di Filosofia al liceo, qualcosa batte contro le persiane: do un’occhiata alla e dalla finestra, mezzo intontito dal sonno e dal vino, in strada non c’è niente.
Abito in una casa di corte ad Affori, al secondo piano, un non luogo periferico milanese annegato tra cortili di corrieri trasportatori, piccole fabbrichette, tir parcheggiati, cantieri edili in animazione sospesa: di notte, qui, è tutto morto. Solo il buio lacerato da lampioni arancioni, un semaforo frustrato dall’indifferenza dei piloti lunatici, ed un pascolo di auto posteggiate sullo sterrato di fronte casa mia. Vaffanculo!
Noto una trentina di giganti incappucciati accovacciati tra le auto! I loro occhi bianchi son tutto ciò che ne tradisca la presenza! Fanno parte dell’oscurità che ci assedia, poi, da sotto la mia finestra stessa, sbuca in mezzo alla strada un arlecchino intunicato, lo Sciamano!
Lo Stregone mi guarda e ride, non so come faccia a riconoscermi da dietro le persiane. Estrae dalla sua borsa a tracolla colorata mimetizzata sulla tunica variopinta una delle foto che deve averci scattato davanti al Pergola, è una foto di Trentalibbre, lo riconosco perché la foto è grossa come la copertina di una rivista di moda: poi il Santone mi mostra uno spillone e lo infila in mezzo agli occhi di Trenta. Io guardo il mio amico, enorme, massiccio, sembra una delle Due Torri del Signore degli Anelli, che tranquillo, guardando la tv seduto in poltrona, si stropiccia gli occhi. Cazzo!
Ributto l’attenzione al negro dai mille colori, ed ora estrae una foto del povero Willie, il mio avvocato, il mio confidente sentimentale da quindici anni, che adesso sta bucherellando il mio divano con le caccole della canna che si sta fumando con Trenta, e lo Stregone fa il Vudù pure a lui, gli infila uno spillone in gola, un brivido lungo la schiena, mi si accappona la pelle e non ho neanche il coraggio di girarmi a guardarlo, lo sento solo tossire convulsamente, cazzo, cazzo, ho gli occhi inchiodati sullo Stregone Vudù e non riesco a distoglierli, soprattutto perché ho il presentimento di chi sarà la prossima vittima, e difatti, eccomi, una mia foto, un primo piano confuso del mio volto teso, prende tre spilloni, che cazzo, ce l’ha proprio con me, me ne infila uno in un occhio, uno in gola ed uno nelle tempie, avverto tre fitte insopportabili, mi manca il fiato, sento il petto che mi esplode, caccio fuori la lingua perché mi sento soffocare, mi volto verso i miei amici… Trenta intima a Willie di non soffiargli il fumo negli occhi, Willie chiede scusa e si lamenta della scarsa qualità della ganja che gli han venduto, gabbini fecciosi, m’han dato un bidone, impreca. Solo guardando i miei goffi compari impegnati in uno sketch a cui ho fatto l’abitudine m’accorgo che in fin dei conti non sento alcun disturbo, tutte quelle fitte che credo di sentire scompaiono non appena le dubito. Bene, dunque, sono immune al Vudù di arlecchino! Ma i trenta zombie giganti accovacciati ai suoi ordini?
Ora, lo ammetto, sento un brivido alle braccia ed avverto una sensazione di fastidio, come uno stimolo doloroso, al pisello. Come se stessi per pisciarmi addosso. Devo essere più pallido del solito, perché quando mi volto Trentalibbre e Willie mi chiedono che ho. Ho visto un fantasma? “No, degli zombie…”, sussurro a singhiozzo. Allora Trenta si solleva e viene alla finestra, e li vede. Ordina a Willie di spegnere tutte le luci, poi và in cucina e mette a bollire tutto l’olio che trova in dispensa. Mi chiede se possiedo delle armi, recupero la mia maledetta katana, una mazza da baseball scheggiata, un set di Miracle Blade –se lo chef Tony ci taglia le lattine, chissà che può fare alle teste di non-morto-, una fionda, ed una pistola di plastica a pallini di gomma con un puntatore laser che sfalsa la mira di almeno 45°. Willy telefona a Claudio Capurso, appuntato dei Carabinieri e nostro amico da sempre, e mi rendo conto che nell’epoca dei telefonini sarebbe inutile comunque tagliare la linea telefonica ad un assediato. Spostiamo i mobili davanti agli ingressi, rovesciamo i tavoli, serriamo le finestre. Sono le quattro meno un quarto. Che aspettano ad attaccare?
Trentalibbre, schiena contro il muro accanto alla finestra del soggiorno, rompe il silenzio di questa attesa inquieta con una delle sue riflessioni sofistiche: “In un certo senso, li puoi definire davvero morti viventi. Agli occhi della società, non esistono, sono morti, ma ci sono, sono vivi. Sono presenze, spettri. Sono morti che cercano di vivere, e per avere una vita sono costretti a mangiare vite. Non sono cattivi, sono ferini, uomini che non sono più uomini. Un cane idrofobo lo sopprimi. Per loro esisterebbe un antidoto, ma è più comodo lasciar che la malattia decorra, e nel caso diventi nociva, sopprimere il malato…”
Smetto d’ascoltarlo perché avverto un rumore come un presentimento. Sollevo la testa dietro il tavolo rovesciato e butto una fugace occhiata in strada. I miei zombie sono usciti dai loro oscuri nascondigli e si stanno schierando in strada, pronti a stanarci. In mano hanno armi, bastoni e pistole, anomale per dei morti che camminano. Mi viene in mente l’esercito zombie decimato da Napoleone Wilson, sorrido, e lo cito: “Hai da fumare?”, Trenta mi porge una Marlboro media, la accendo, e continuo: “Sono nella condizione in cui ogni giorno è come una bella donna: quando ti accorgi quanto ti è necessario, t’ha già lasciato…”, e mentre concludo incerto che la battuta di Distretto 13 sia proprio così, il fumo mi và di traverso e gli occhi s’impallano.
Al semaforo, cinquanta metri più in là, vedo la mia principessina. È una storia un po’ complessa, ma tenterò di sintetizzarla: Gioia, una mia vecchia compagna di corso, di quando facevo finta di andare all’università, c’è sempre stata attrazione, ma ci sono sempre stati altri rapporti di mezzo; appena lei si laurea, si sposa, e comincia la mia fase di rimpianto, ma che cazzo, mi faccio gli affari miei; poi una sera ci incontriamo in una birreria metal di Sesto San Giovanni e ce lo leggiamo in faccia, e mentre suo marito conversa coi miei compagni di bevuta, io le azzardo in un sussurro: “Domenica, a casa mia, fa finta di essere uscita con le tue amiche”, non aggiungo altro, lei non risponde ed io non attendo risposta. Se vorrà, la vedrò arrivare…
E porco cazzo è arrivata davvero, ma nel momento più sbagliato opzionabile!
Deglutisco rumorosamente, non so più se per il timore dei miei zombi o l’imbarazzo di far incontrare l’oggetto adultero delle mie fantasie erotiche a Trentalibbre e Willie, e prendo una somma decisione: “Chiudete la porta alle mie spalle, io devo scendere in strada!”
Mentre mi preparo a fare la mia incursione, indicando, senza dare le spiegazioni che i miei due amici si danno da soli, Gioia in strada, prendo su la mia Maledetta Katana con l’Elsa di Tigre, ed indosso il mio giubbino di pelle, l’Armatura Ronin, come nel miglior cartone animato nipponico ho le mie armi feticcio. Tiro su anche un paio di palle da baseball, che se le lanci fanno male e comunque fanno fare buona impressione con le ragazze se le infili nelle tasche davanti dei jeans. “Sono pronto! Chiudete, se va male mi rifugio in cantina!”, e sgattaiolo fuori. “Buona fortuna, Gatto!”, risuona alle mie spalle.
Ripeto, abito in una casa di corte, e funziona come un fortino, scendo le scale lungo i ballatoi e mi ritrovo in cortile, mi dirigo al cancello d’ingresso, è come essere nell’oceano in una gabbia circondata di squali. Non so bene cosa fare, ma apro il cancello pedonale e mi getto in strada a spada sguainata, mollo fendenti a caso verso i senegalesi che mi osservano perplessi, penseranno che sono impazzito, e quando realizzano, mentre corro incontro alla mia mogliettina adultera, ringhiano in coro e mi si lanciano addosso, qualcuno mi spara pure, un proiettile mi fischia vicino vicino, ma due elementi incorrono a salvarmi: il primo, sono Willie e Trenta che da casa mia lanciano sull’esercito Vudù secchiate d’olio bollente, sfollandolo in preda a urla lancinanti; il secondo è quello che io chiamo signor Kafka.
Il signor Kafka è un impiegatucolo che abita in via Grazioli, a qualche decina di metri da casa mia. Il signor Kafka soffre di forfora radioattiva, perché magari fa il radiologo a Niguarda, non lo so.Gli acari della polvere di casa sua, nutrendosi di questo particolare tipo di forfora mutante, hanno subito una trasformazione come le Tartarughe Ninja, e si sono ingigantiti. Ogni sera il signor Kafka porta i suoi tre acari, Rambo Commando e Scorpiorosso –infatti Predator e Terminator sono morti sotto un’auto due anni fa- a passeggio ai giardini vicino casa mia. So che la cosa sembra inverosimile, ma io mi rifiuto di pensare che esistano cani così brutti e feroci…
Comunque, gli acari atomici o cani deformi che siano del signor Kafka, a pipì nei dintorni col loro padrone, allarmati dalle urla dei negretti che m’assediano impellenti si presentan nella mischia, azzannando con le lor terribili fauci cosce e sederi degli zombie che mi stanno alle calcagna. Abbraccio la mia erofantasia insaporita di peccato e tradimento, la stringo forte a me, spingo con le palle da baseball per dar un’aria di virilità, lei si stringe a me e sente tutta la mia carica premerle contro l’inguine, mi bacia appassionata, io ricambio, mi volto, la tengo per un braccio e la trascino con me al sicuro nel cortile di casa mia, gli artigli ed i proiettili degli zombi ci seguono e cercano di afferrarci e trascinarci con loro all’inferno, ma con la sola forza della libidine riesco ad aprire il cancelletto, penetrare con Gioia nel cortile, salire le scale tenendola in braccio fino al mio appartamento, e tornare al sicuro tra i miei amici. Le sirene delle auto dei Carabinieri intanto si convoglian da ogni dove tutt’attorno all’armata delle tenebre, li sento scaricarsi addosso tonnellate di piombo a ripetizione, e quando guardo giù in strada, a terra solo i corpi dei miei nemici, e tra gli uomini in divisa, Claudio mi guarda, mi sorride e mi fa cenno col pollice che tutto è a posto, siamo salvi, abbiamo vinto. Mi giro, e dico a Trenta e Willie: “Ragazzi, conoscete Gioia, vero, vi prego di lasciarci un po’ d’intimità, sapete, abbiamo molte cose da dirci e credo lei mi si voglia concedere completamente, in ogni orifizio, stanotte e per sempre, quindi, avete mangiato, bevuto, fumato, forza, toglietevi dai coglioni”, e mentre sorrido a questa mia brusca e scherzosa battuta per eliminare il terzo e quarto incomodo dal mio talamo fedifrago, dal corridoio entra in soggiorno una tunica policroma, e dentro di lei un uomo di colore con gli occhi rovesciati all’indietro, lo Sciamano!, mi salta al collo ed affonda le sue zanne nella mia carotide, sbatto la testa contro il termosifone, poi non ricordo più niente.

Appena il Gatto terminò il suo racconto, Lulù inarcò un sopracciglio e rimase a guardarlo, in silenzio. Poi disse: “Gatto?”
“Dimmi”
“È una cazzata…”
“No, giuro, è andata così!”
“Ascolta, Lupo, sul Corriere della Nera, ha riportato una versione diversa e molto più verosimile dei fatti…”
Lupo era diventato, oltre che ragazzo di Lulù un due o tre volte, giornalista a tempo pieno per un noto quotidiano milanese, ed aveva titolato:
Milano: sgominato spaccio e ricettazione in strada: “Prendevamo ordini dai calabresi
Maxi rissa sfocia in retata antidroga
17 senegalesi coinvolti nel traffico. Il tutto parte da un litigio, disordini al CSOA Pergola
“Ma no, Lulù, è che su un giornale nazionale mica possono dirti che esistono zombi ed acari atomici, c’è un complotto, l’hai visto X-Files, no?, poi sai come sono i giornalisti, no?”
“Gatto?”
“Eh!”
“La tua storia è una cazzata. E tu sei un razzista di merda.”
“Perché? Siamo in un bar cinese!”
“Perché? Negri qua, negri là, a volte dai il voltastomaco a sentirti parlare!”
“Ma vàh, scusa, chiamo le cose col loro nome, no?, sarei razzista a fare attenzione a non chiamarli negri ma far giri di parole tipo ‘di colore’ o ‘nero africano’, in fondo negro è latino…”
“Seeh… e poi perché? Speravi di portarmi a letto con le tue fandonie Macho-Ku-Klux-Klan? Non bastava restituirmi il cellulare?”
“Ma…”
“… che poi magari se fossi stato sincero e meno disgustoso, te l’avrei pure data, ma come al solito, sei tu che rovini tutto… lascia stare, guarda, grazie per il cellulare, e vaffanculo…”Si alzò e scostò la sedia rumorosamente. Uscì senza guardare in faccia nessuno. Gli lasciò solo il conto da pagare.
Con il suo deja vù vorticante in testa, il Gatto si accarezzò i punti di sutura sul collo, seccò la birra e si alzò dal tavolino del Green Bar dove aveva invitato Lulù a bere l’aperitivo. La cinese dietro il banco gli chiese, “Vai a letto?”, il Gatto sorrise e rispose, amaro, “Magari… ci andrei con Gioia…”, avvertì una fitta alla nuca ed un vuoto nel cuore, aprì la porta del bar e cedette il passo ad un africano con indosso una tunica colorata ed al collo pendagli con foto b/n ed altri feticci, il nero gli disse “Grazie”, e lui rispose “Niente”, uscì in strada, accese una sigaretta, sollevò il bavero dell’Armatura Ronin e, con la non-morte nel petto, s’avviò verso casa.

mercoledì 4 giugno 2008

Grazie a Dio

Racconto pilota: nasce Camporosso. Concepito prima di Milano è un'Arma, completato dopo, si colloca prima dei fatti narrati nel romanzo

Gennaio: Infanticidio
“Buona sera dottor Camporosso”, esordì l’appuntato Gemmi mentre apriva la porta dell’appartamento di via Tracia al suo superiore.
“Gemmi, non sono laureato, non sono nessuno, sono qui per raccomandazione solo a prendere la michetta, quindi chiamami Cristiano e facciamola finita…”. Camporosso, ispettore della Polizia Criminale, per caso e per forza, trent’anni in ottanta chili di muscoli rilassati, avvolto per il lungo in uno spolverino blu che pareva raccolto per la strada, era bonario, schietto, ed ancor più sarcastico. Aveva studiato poco e male, s’era costruito una cultura strana tra romanzi all’italiana e film di Castellari, spolverata di fumetti ed altra non-cultura, e dopo dieci anni di squat e centri sociali presi sempre senza impegno, aveva partecipato al concorso per entrare in Polizia come fosse stato quello del Dixan, solo per i soldi e senza vere intenzioni: sta di fatto che il padre della sua fidanzata era poliziotto, e trovandolo tra i nominativi dei risultati non eccelsi, l’aveva spostato tra i primi dieci privilegiati. Gli amici l’avevano preso per il culo fino all’isterismo, quando l’avevano visto in divisa. Ma dopo il primo stipendio, Cristiano non ci fece più caso.
Ora Cristiano Camporosso era ispettore, perché non era comunque uomo senza qualità, e la divisa poteva smetterla se non nelle occasioni formali, e per il suo carattere s’era guadagnato l’occhio buono dei subordinati, e quello storto dei superiori. Per questo Gemmi rispose: “Dottor Camporosso, lo sa, è più forte di me…”
“Allora non chiamarmi, e dimmi solo che è successo qui.”
“Un macello. Il padre ha preso a fucilate i due figli, dieci e cinque anni, e poi s’è sparato in faccia. Nessun sopravvissuto. I cadaveri sono ancora di là, dove li ha trovati la vicina. Vicedomini è andato ad informare l’ex moglie dell’assassino.”
“Posso vedere i corpi?”
“Certo… si tenga forte, è roba da brivido…”
Camporosso entrò nella camera adiacente all’ingresso in silenzio, ed in silenzio si mise a studiare la scena, immobile sulla soglia. Vedeva un uomo, seduto con le spalle alla finestra con la faccia ridotta a poche frattaglie; un bambino di circa dieci anni col petto dilaniato ed una pistola dello spazio intergalattico di plastica in mano, riverso supino un paio di metri di fronte all’uomo; quindi scorse la piccolissima mano vicina al suo piede destro, un altro bimbo, molto più piccolo del primo, sdraiato prono con un braccino portato in avanti, in direzione della porta, la schiena spaccata da quelli che parevano due colpi di piccone, ed invece erano solo due proiettili sparati da un padre disperato. E disgraziato. Si, perché, pensò Camporosso, solo un padre disperato può arrivare a mangiarsi i suoi cuccioli. E comunque, decise, il suo stomaco avrebbe digiunato anche quel giorno.
“Sigaretta”, chiese. Gemmi rispose porgendogli un pacchetto intero. Cristiano lo aprì, ne estrasse una, la portò alla bocca e l’accese, sbuffò una abbondante boccata di fumo, restituì il pacchetto a Gemmi, e cominciò: “Qual è la prima versione dei fatti?”
“Abbiamo già interrogato la vicina, la signora…”, Gemmi sfogliò un blocco note piccolissimo che teneva nella mano guantata, “… Marchesi.”
“E che dice, questa signora Marchesi?”
“Allora… alle ore 17 circa avrebbe sentito i bambini correre giù per le scale ed entrare in casa del padre.”
“Ce l’hanno un nome, questi bambini?”
“Sharon, la bimba di dieci, Dylan, il bimbo di cinque.”
“Che nomi del cazzo… ma i genitori erano stranieri?”
“Nessuno dei due. La madre si chiama Carmela Zappulla, il padre si chiamava Duilio Zammataro, direi che stanno più a sud di lei, dottore, ma comunque in Italia…”
Camporosso sorrise, chinandosi sul corpicino del piccolo Dylan Zammataro: “E quindi?”
“Appena entrati, ha sentito tre spari, poi un quarto: è corsa a vedere, la porta dell’appartamento sul pianerottolo era aperta. Quando è entrata ha trovato i corpi così come li vede ora lei.”
“Impressioni?”
“Io la penso così, dottore: il padre era divorziato, e la madre abitava due piani qui sopra. Era geloso ed ha sparato ai figli per fare uno sfregio all’ex-moglie.”
“Plausibile. Dov’è Markic?”
“Il dottor Markic dovrebbe arrivare ora assieme al fotografo.”
“Bene. Ci metterà un po’, c’è un sacco di traffico. Quando arriva, chiamami. Io vado di sopra dalla madre dei bimbi… c’è Vicedomini, no?”
“Già. È salito più di mezz’ora fa…”
“A dopo…”
Camporosso salì i due piani a piedi: sul pianerottolo aveva incontrato la disponibilità eccessiva della signora Marchesi, che a quanto pareva voleva farsi interrogare di nuovo da lui. Lui, cortesemente, la tranqullizzò elogiandone la chiarezza espositiva della dichiarazione. Due piani più sopra, Vicedomini fumava una sigaretta davanti alla porta della ex-signora Zappulla.
“Vicedomini, non riuscirai mai a far l’uccello del malaugurio, eh?”
“Oh, buon giorno dottò… io stavo solo… cioè, facendomi coraggio, non so… non so come dirglielo…”
“Fammi, un favore, Vicedomini: c’è una signora, giù, la signora Marchesi, vai da lei, fatti offrire un caffè, e cerca di evitare che diffonda la notizia. A far la cornacchia ci penso io.”
“I suoi bimbi sono morti. Il suo ex marito li ha presi a fucilate, poi s’è sparato.”
“Come, scusi?”
“Ho detto, Camporosso, Polizia Criminale: i suoi bimbi sono morti, il suo ex li ha fucilati e s’è sparato pure lui.”
“Come?””Ho detto, Camporosso, Polizia, i suoi bimbi sono morti a fucilate…”
“Ho capito, ho capito!”
Camporosso sentiva l’odore delle persone. E quando la signora Carmen Zappulla gli aveva aperto la porta di casa, il fiuto gli aveva imposto di essere crudo.
“Prego, entri…”
Carmen Zappulla era una signora oltre i quaranta anche ben tenuta, fresca di tinta nero corvino, pantajazz neri aderenti ed un top di pelo acrilico fucsia con sopra una enorme croce nera a pendaglio dal collo: una attempata adolescente con degli osceni stivali di pitone bianchi col tacco.
“Grazie.”
“Posso offrirle qualcosa?”
“No, grazie, sa, i cadaveri dei bambini ti bloccano lo stomaco…”
“Ah…”
L’atmosfera effettivamente s’era fatta surreale: in un decadente condominio popolare, in un monolocale scalcinato un padre aveva ammazzato i propri figli; due piani più sopra la madre dei bambini, una versione degradata, volgare ed involontaria di Cindy Lauper, in un’enorme appartamento arredato sicuramente da un navigato progettista d’interni, dalle pareti sobrie ed i mobili smussati agli angoli e varia oggettistica di design in esposizione, accoglieva un poliziotto privo del filtro del tatto che le spiegava come erano morti i suoi bambini.
“E quando è successo?”
Camporosso guardò delle lancette nere che spuntavano direttamente dal muro, segnavano le 18 e 15: “Circa un’ora e un quarto fa.”
“E dove sono?”
“A casa di suo marito”, Cristiano estrasse una sigaretta spiegazzata dalla tasca interna dello spolverino.
“Ah…”
“Dov’era lei un’ora e un quarto fa?”, chiese Camporosso, poi accese la sigaretta.
“Ero qui, in casa…”, la Zappulla gli porse un posacenere.
“Qualcuno può confermarlo?”
“Il mio compagno, l’architetto Santi…”
“Ed i bambini?”
“I bambini hanno ricevuto una telefonata dal padre, gli ha chiesto di scendere… mi hanno chiesto il permesso ed io ho detto che andavano pure…”
“Senza permesso non sarebbero morti. Vuol vederli?”
“Certo!”, rispose Carmen Zappulla, d’un tratto sbalenando fuori dal suo stato di ebetismo intellettuale.
“Andiamo.”
Mentre Camporosso e Carmen Zappulla scendevano le scale, Markic, il dottore della scientifica, ed il fotografo salivano. I quattro si incontrarono davanti la porta di Duilio Zammataro, un povero cristo bastardo che aveva ucciso i figli per far dispetto alla moglie che puttaneggiava con un architetto. Si salutarono, poi entrarono nel monolocale, mentre dietro la porta di fronte la signora Marchesi raccontava a Vicedomini della nuora, Cristina, che aveva sposato anche lei uno di polizia, ma di giù, la trattava come a regina, lei stava a casa, ma da brava ragazza madre di famiglia, non come quella prustituta della moglie di Duilio, che s’era cercata i soldi e credeva di essere tornata bambina lei, e i figli in strada, Cristina no, stirava, lavava, cucinava, tutto benissimo, e Vicedomini pensò che la prossima volta avrebbe fatto l’uccello del malaugurio, piuttosto che andare a prendere caffè e mal di testa da un’altra signora Deodata Marchesi.
“Chissà dove vanno i bambini morti ammazzati…”, chiese all’aria sospirando Cristiano, stupendosi di quella sua sciocca ed insensata domanda, mentre la Morte, lì convenuta per adempiere al suo triste e necessario dovere, anche la Morte che se ne stava là invisibile e distratta a fumare tra i cadaveri, ebbe un brivido lungo lo scheletro.
“Gemmi, per favore, un’altra sigaretta…”
“Prego, dottor Camporosso!”
Cristiano accese la sigaretta, poi chiese a Markic: “Allora?”
“Che cazzo m’avete chiamato a fare, si vede ad occhio nudo, quello senza faccia ha sparato ai due bambini, li ha fatti fuori sul colpo e poi s’è fucilato. Ora del decesso, un’ora e mezza fa. Porca puttana, un’ora in macchina per un lavoro di venti secondi!”
“Sei pagato anche tu per questo. Faccio entrare la madre…”
Cristiano spinse la porta della stanza e chiamò la ex signora Zammataro: quella scattò dentro, ed anzi, ancor prima di essere entrata nel locale, cominciò a strillare, fortissimo, sfrenatamente, agitando la testa e strappandosi la chioma tinta con le mani. Gemmi e Markic la raccolsero da terra, inginocchiata, e la riaccompagnarono sul pianerottolo, poi su fino in casa. Cercarono di calmarla, ma le sue grida attirarono comunque l’attenzione di tutto il palazzo. Decine di persone affluirono sulle scale. Cristiano buttò il mozzicone in terra, lo calpestò, e bussò a casa Marchesi. Disse a Vicedomini di far pure portare via i cadaveri, e poi raggiungerlo in macchina. Aveva parcheggiato proprio di fronte al cancello di quel palazzo di via Tracia.
Cristiano aveva una Fiat Uno d’antiquariato, nel senso che ormai la carrozzeria era metallo fossile. La usava come ufficio mobile quando si muoveva, e comunque, di solito, amava trascorrere la domenica in casa, ed il resto della settimana chiuso nella macchina parcheggiata da qualche parte. Ora stava lì, seduto al posto di guida, dopo aver comprato le sigarette sottobanco al bar di via Paravia insieme ad un caffè, e fumava meditando, coi finestrini chiusi, mentre a Milano pioveva una sera di gennaio. Faceva un freddo cane.
Duilio Zammataro aveva ucciso i figli a fucilate. Carmen Zappulla aveva accolto la Polizia allo stesso modo in cui i liberi professionisti accolgono la Guardia di Finanza. Con diffidenza, fino a nascondere il dolore; se anche ce n’era. Non c’erano dubbi su chi fosse l’assassino: ma Cristiano aveva dei dubbi su chi fossero le vittime, e sul motivo di tale macello. E prima di archiviare il caso, voleva delineare al meglio la forma di questi dubbi.
Vicedomini scese in strada appena prima che arrivasse l’ambulanza con le sirene a morto. Ascoltò qualcosa da Cristiano, quindi l’ispettore avviò il motore e partì, mentre il giovane poliziotto lo salutava accondiscendendo a qualche richiesta. E quando le due ambulanze portarono via i tre cadaveri, uno per ogni misura, in strada rimase una pantera, con dentro due giovani poliziotti, Vicedomini e Gemmi, a mangiare un McBacon ed un McFish, bevendo Coca Cola sgasata sotto la fredda pioggia di micropolveri ed acqua gelida di Milano.
Cristiano Camporosso tornava in ufficio dopo un pomeriggio movimentato, con in una mano un pacchetto di Diana Blu, nell’altra un sacchetto di plastica da cui veniva odore di falafel e kebab e spuntavano una bottiglia di Mecca Cola con, nascosta in un tovagliolo, una Moretti da 66. Era stanco, nauseato, ed affamato. Salutò alcuni colleghi, e si infilò nel suo stanzino, a cenare con la scusa di redigere il rapporto del delitto di via Tracia. Il kebab con le patate fritte sopravvisse ancora un paio di minuti, poi fu la volta del panino di falafel, quindi accese una sigaretta e stappò la birra Moretti con l’accendino. Accese il computer. Cliccò due volte sull’icona di Double Dragon II, e si mise a giochicchiare, con la sigaretta in bocca ed il fumo negli occhi. Pensava.
Furono Vicedomini e Gemmi a distoglierlo dal punk vestito di rosso. Camporosso pigiò immediatamente il tasto ESC lasciando sul monitor la schermata di Word. Accese una sigaretta, diede un sorso di birra, si alzò in piedi e chiese ai due poliziotti sull’attenti, bagnati: “Allora?”
“Allora solo freddo, dottore…”, rispose Gemmi, prendendo la sigaretta che gli porgeva Cristiano.
“Dunque l’architetto, uscito secondo le testimonianze del portiere del palazzo circa cinque minuti prima che arrivasse la Polizia, non è tornato a casa, perlomeno per cena. Ma se avessero ammazzato i figli di tua moglie, Vicedomini, tu ti tratterresti al lavoro?”
“Non credo proprio”, rispose accendendo la sigaretta offertagli dal suo giovane superiore.
“Appunto. Avete scoperto intanto dove sia lo studio di questo Santi?”
“Qualcuno ha detto in Bovisa, forse è professore…”, rispose Gemmi, che da quando aveva acceso la sigaretta aveva perso la marzialità dell’attenti.
“Benissimo, domattina andiamo a trovarlo, Vicedomini, raccogli informazioni. Io nutro una convinzione, più che altro un dubbio che è una convinzione: Zammataro è un assassino, spietato, ma folle e disperato. Sono convinto che qualcosa o qualcuno l’ha portato all’estrema decisione di ammazzare i figli. Ora, se io fossi disperato, non verrei a lavorare, come ha fatto Zammataro. Starei chiuso in casa a tracannare Jack Daniel’s, a fumare MS, forse andrei anche a puttane, ma cercherei di problematicizzare ulteriormente la mia esistenza, per distruggermi e farmi schifo. Quando ti fai schifo, e solo allora, puoi ucciderti. A meno che tu non lo faccia per fuggire. L’omicidio si compie per rabbia, calda o fredda; il suicidio per disperato odio verso sé stessi, o per paura del futuro… sedetevi pure, ragazzi… insomma. Semplicemente, io so chi ha ammazzato i bambini, e probabilmente so anche perché. Ma così, a pelle, è tutta questione di pelle, come direbbe Lino Banfi, la Zappulla mi sta sulle palle e sento, così, intuito, che non me la racconta giusta. So che probabilmente perderemo tempo e basta, ma per le prossime 72 ore voglio concentrarmi su quella troia sfatta, sul compagno laureato, e capire perché uno spazzino di 42 anni con la passione della caccia, unico sfogo alle tensioni familiari, prende e ammazza i figli. Ecco tutto.” Prese la Moretti e sorseggiò, dunque accese un’altra sigaretta, e si risedette dietro la scrivania. “Domani, io ed un amico andiamo a parlare con l’architetto. Tu, Gemmi, insieme a Vicedomini, ti fai di nuovo un giretto in via Tracia, in borghese, vai al bar di via Paravia, a quello di piazza Selinunte, ascolti, prendila come una vacanza, ma senti che dice la gente. San Siro è come un paesello, anche se ormai è terra magrebina. Vedrai che qualche notizia interessante viene fuori…”
Gemmi e Vicedomini conoscevano la sporadica logorrea di Cristiano, per questo si erano seduti ancor prima del suo invito. Nonostante questo, ascoltarono le istruzioni con attenzione. Si fidavano ciecamente del dottor Camporosso. Come Camporosso si fidava di Lo Russo Felice, un mastino pugliese alto un metro e sessanta, per 103 chilogrammi di potenza macinatoria nelle braccia e nelle mani.
“Buongiorno, lei è il dottor Santi?”
“Chi desidera saperlo?”
“Camporosso, Polizia. Potremmo farle qualche domanda?”
“Ma anche lui è poliziotto?”
“Certo, perché?”
“Perché già lei è poco credibile, si figuri questo tipo qui…”
Al Pugile prudevano già le mani. Avevano aspettato circa un’ora l’architetto in strada sotto il suo studio, ed a gennaio è una pessima esperienza. La Bovisa stava diventando una piccola Islamabad, le strade erano sempre più lerce, e devastate, cantieri stavano abbattendo ogni vecchia testimonianza dell’antica dignità industriale della zona. Dove stava il saponificio c’erano stati prima gli zingari, i rumeni, gli albanotti, poi la giunta era stanca delle lamentele e aveva deciso di sfondare i soffitti e lasciarli senza un tetto. Ma i parassiti trovano ovunque dove attecchire, sicché s’era risolto tutto in una inutile cattiveria, che non aveva né ripulito la città né salvati gli indigenti. Fosse stato per il Pugile al posto dei bulldozer avrebbe usato il lanciafiamme, stava di fatto che Milano tossiva sempre più malata di tifo e feccia. E quel giorno faceva pure un freddo del cazzo, aggiunse.
Come se non fosse bastato, s’era aggiunto quel viscido architettucolo con la puzza sotto il naso e la saccenza da dittatore nordcoreano. Li fece salire nel suo lussuoso studio, li fece accomodare come fossero stati clochard alla mensa dei poveretti, offrì loro un caffè in tondeggianti tazzone design e si mise a giocare a biliardo, nello studio teneva un biliardo, a casa di Camporosso il soggiorno era più piccolo del panno verde. Lo aiutava a rilassarsi, disse.
Cristiano lo osservò: non tradiva alcun tipo di preoccupazione, sostenendo un’aria di superiorità che metteva a disagio, con i suoi vestiti da architetto, il solito dolcevita coi soliti calzoni alla carrettiera, nero e marrone, gli architetti si vestono sempre a metà tra un carpentiere omosessuale ed uno stilista a cui hanno scippato il buon gusto dieci minuti prima.
“Sa dirmi dov’era ieri sera mentre i piccoli Dylan e Sharon venivano fucilati?”, chiese Cristiano.
“Ero in casa con mia moglie. A quanto ho capito sono uscito poco prima che accadesse tutto…”, rispose tranquillo Santi infilando la prima palla in buca.
“Beh, ad essere sinceri a noi è stato detto che lei sarebbe uscito poco prima dell’arrivo della Polizia…”
“Forse siete stati celeri, per una volta”, ridacchiò l’architetto puntando gli occhi in quelli dell’ispettore, “Sarete stati tanto tempestivi che sul piano della percezione prima dell’accaduto e prima del vostro intervento hanno coinciso, dottor…?”
“Camporosso, ma senza titolo, semplicemente ispettore”, Cristiano si morse la lingua, e sentendo la biglia decisa centrare la buca e finire in deposito, comprese di essere caduto nella trappola. Era furbo, l’architetto.
“Ah, non è laureato?”
“No, non è necessario per essere ispettori”, bravo babbo, si insultò Camporosso. Vedeva la tela intessuta da Sarti e ci si invischiava sempre più.
“Ma ha studiato, però, parla correttamente l’italiano… sa, io ho una certa passione per la lingua e la letteratura”, terza palla in buca.
“Io no, ho solo una certa familiarità con gli stronzi…”, bravo Cristiano, disse il tenente Colombo, grosso come un puffo, appollaiato sulla sua spalla destra, sei cascato nel tranello elementare dell’esperto di una scienza il cui massimo esponente si chiama renzo piano, tutto questo denota l’astuzia del detective.
“Cosa vorrebbe insinuare?”
“Come? Niente, niente. Senta, non ho molto tempo…”
“Ed io ne ho meno di lei, ispettore”, lo interruppe Sarti rimarcando il grado di Cristiano.
“Appunto. Com’erano i rapporti con lo Zammataro?”
“Era un poveretto, incolto, uomo ignorante e di fatica come una bestia da soma. Un disgraziato. Non aveva niente da dire e niente da dare. Spesso sono i gradini inferiori dell’evoluzione a macchiarsi delle più turpi crudeltà, una legge di natura”
“La natura può essere crudele, cruda, cinica, ma è sempre logica. Zammataro ha compiuto un gesto illogico. Ci hanno detto che amava i suoi figli, che li riempiva di regali”
“Certo, ma era geloso che Carmen si fosse ricostruita una vita, era in continua competizione con me, per questo dilapidava tutto lo stipendio in quelle sciocche cianfrusaglie da poche lire che comprava per i figli. Ciarpame acquistato al mercato, mentre io potevo dare loro tutto ciò che desiderassero. Lui non lo capiva, voleva indietro la sua famiglia, senza capire che averla persa era soltanto colpa sua, della sua inettitudine, della sua mediocrità”
“Ha una gran considerazione del povero Duilio, vedo”, disse Cristiano alzandosi in piedi, “Ma ne parla con scherno, con biasimo, senza rancore, senza l’odio che dovrebbe provare per chi ha ucciso i suoi figliocci. Lei è freddo, distaccato, tradisce quasi soddisfazione”
“Ma come si permette?”, s’indignò Santi.
Cristiano accese una sigaretta, una Diana Blu, e fece cenno al Pugile di venir via: “La ringrazio, dottor Santi…”
Il Pugile soffiò vapore furioso dal naso taurino: “Sai che penso, Campo? Penso che sia stato questo figlio di puttana a sparare ai bambini e pure al padre!”
“No, ti sbagli. È troppo intelligente per una cosa del genere. Come i veri figli di puttana deve essere stato sottile. Molto sottile. Però è colpa sua.”
“Hai qualche piano? Per incastrarlo?”
“E per chi cazzo m’hai preso, per il tenente Colombo? Questo ci ha fottuti tutti: la passerà liscia, se non ci sono testimoni, e comunque al massimo la passa liscia poi in tribunale. Il mondo e la burocrazia giudiziaria stanno coi figli di puttana…”
“Vaffanculo”, sbuffò col naso il Pugile, come i buoi che avevano dato il nome alla zona, Bovisa da boves, che non era latino ma milanese, e Felice Lo Russo non capiva niente del primo e meno del secondo, al massimo in Bovisa cercava le vacche, quelle umane, ma a suo avviso era solo una zona affollata da porci arabi e spocchiosi universitari del cazzo, con le loro troie a panza di fuori e la riga del culo in bella mostra, che bella umanità di merda, ed il suo amico pulotto lo tirava su ammettendo la realtà, che nessuno paga mai, che gli stronzi cadono sempre sul culo, che puoi ammazzare un bambino e filarla liscia e nessuno ti potrà mai dire niente, mica come ai tempi di Toni Ganassa, quando i pedofili in carcere li prendevano a sgabellate sulla testa e sulla schiena, senza preoccuparsi di non ammazzarli, anzi. “Oh, mi hai fatto girare le palle, andiamo a scroccare da bere al Gatto, già che siam qui, non dire di no”
Dalla Bovisa a casa del Gatto in Affori a piedi ci volevano cinque minuti, in macchina un quarto d’ora di sensi unici, semafori e carrozze di latta incolonnate. Il Gatto se ne stava a casa a curar la bronchite, causata dal freddo, secondo lui, provocata dalle troppe sigarette a detta dei suoi polmoni. Accolse i suoi amici interdetto, a petto nudo svelando la sua impressionante magrezza ricucita da centinaia di punti di sutura, la maggior parte dei quali monito alla sua ed altrui sciocchezza. L’appartamento della casa di ringhiera era un disastro: all’esterno fatiscente, all’interno dominato da un disordine dissennato, libri e fumetti ovunque, una pila di compact disc instabile e più alta del tavolo. Il soggiorno era arredato da una libreria strabordante, una cristalliera colma di robacce, il tavolo da pranzo, un divano, due poltrone; una finestra a balconcino senza persiane illuminava la stanza anche di notte tramite un lampione appeso a pochi metri dall’apertura. Tale arredamento si sarebbe potuto scorgere se non fosse scomparso sotto le tonnellate di alimenti per la fantasia che il Gatto possedeva e lasciava in giro. L’unico spiazzo libero sul pavimento era coperto da un tappeto con sopra accartocciata una coperta di lana ed una chitarra senza corde.
“E c’hai la bronchite e te ne vai in giro a petto nudo?”, lo rimproverò il Pugile sfilando il cappello di lana dalla testa, “E poi c’è un nebbione di fumo di sigaretta, grazie al cazzo che non guarisci se continui a fumare, babbo!”
Il Gatto rispose imbarazzato: “No, ma adesso sto bene, sono in convalescenza ma sono guarito…”
Sedettero dove poterono ed il Gatto stappò tre birre Moretti, dopo essersi infilato una maglietta nera con sopra disegnato un braccio mozzato che spruzzava sangue stringendo ancora salda l’elsa di una spada. Camporosso raccontò la storia brutta di Zammataro e dei bambini, interrotto metodicamente dagli imprechi del Pugile. Il Gatto ascoltò distratto, poi più per riflesso condizionato che per aver capito davvero qualcosa chiese: “E tu come la vedi, Campo?”
“Io”, disse Camporosso, “Sono convinto che l’architetto e l’ex moglie abbiano indotto Zammataro a compiere la strage, magari sottoponendolo a qualche forma di tortura psicologica…”
“E come pensi di provarlo?”, temporeggiò il Gatto.
“Non posso provarlo. Non posso né accusarli né arrestarli. L’unica prova che ho, che poi una prova non è, è chè dai tabulati della Telecom risulta una chiamata della Zappulla allo Zammataro intorno all’ora della strage… ma non ho niente di concreto in mano. Me la vedo già la troia che telefona all’ex marito mentre se lo fa piazzare in culo dall’architetto ansimando, umiliandolo, spingendolo a cercar vendetta sparando ai figli. E quel povero cristo coglione prende la carabina e spara ai figli e poi s’ammazza. E vaffanculo…”
“Fantapornografia”, commentò il Gatto dubbioso ma credendoci un poco. Poi sbiancò.
Una voce di donna, all’improvviso.
“I bambini non si toccano”, rabbiosa, solenne. Lulù, con gli occhi lucidi ed i denti stretti comparve dall’ingresso in soggiorno, il caschetto nero di capelli bagnati tirato all’indietro, addosso solo l’accappatoio di Capitan America. Si voltarono tutti e tre a guardarla, quella bambina che in realtà era una donna, non alta ma attraente, infantile, d’una bellezza che forse non poteva essere oggettiva ma indubbiamente era la più adatta possibile, la più complementare, alla personalità del Gatto.
Solo a quell’epifania Camporosso scorse sul tappeto, accartocciati con la coperta, uno slippino fucsia, una gonnellina scozzese, delle calze di nylon ed un reggiseno anch’esso fucsia non generoso ma ammiccante.
Lulù ebbe un brivido, mentre il Gatto arrossiva ed il Pugile veniva fatto preda da un mutismo assoluto dovuto al colpo di tosse di Cristiano che gli aveva fatto notare l’intimo sul tappeto. La bimba ferita chiese, perdendo una lacrima, “Che pensi di fare, Cristiano?”
“Io non penso di far niente. Ci pensi Dio…”
Dio, che aveva trascorso l’ultima mezz’ora nascosto in bagno a sbirciare le abluzioni sensuali di Lulù, sentendosi nominare si vergognò come a loro tempo avevano fatto Adamo ed Eva, e senza rifletterci troppo sopra esclamò, “Ci penso io”, e scomparve, lasciando intendere che quella voce fosse stato lo sciacquone azionatosi per vita propria.
Lulù si vestì con degli abiti del Gatto, senza reggiseno e con dei boxer da uomo, per evitar di recuperare il suo intimo sul tappeto in presenza di Cristiano e del Pugile. Con la mimetica e la felpa nera –gli indumenti più sobri che avesse reperito tra gli stracci del felino- sembrava un tredicenne androgino più che una ragazza. Salutò sommessamente ed uscì trafelata, per andare a scuola, disse.
La curiosità, si sa, è femmina, e così il Pugile giustificò la sua domanda rivolta al Gatto: “A scuola? Ma quanti anni c’ha?”
“Ventidue. Tutte le mie ragazze hanno meno di ventidue anni. A ventidue di solito mi lasciano, dura lex sed lex…”, rispose amaro il Gatto.
“Appunto, non vi siete lasciati mesi fa?”, intervenne Camporosso.
“Si”
“Vi siete rimessi insieme?”
“No”
“E allora che cazzo ci faceva qui, Lulù?”
“Passava…”
“E si faceva una doccia di passaggio?”
“A casa sua hanno la caldaia rotta…”, si poteva sentire lo stridore delle unghie del Gatto appigliate con tutta la loro forza a tutti i vetri del suo reame.
“E si doveva spogliare in soggiorno, per fare la doccia?”, insistette Cristiano sollevando gli slippini fucsia filatelici rinvenuti sul tappeto.
“E fatti un po’ i cazzi tuoi, Campo”, troncò il Gatto, alzandosi ad occhi bassi e tutto rosso per recuperare un altro giro di Moretti.
Vicedomini si fiondò nell’ufficio dell’ispettore Cristiano Camporosso, un paio d’ore dopo, svegliandolo dal suo torpore alcolico: “Mi scusi, dottò!”
Cristiano cerco di capire dove fosse ora che aveva ripreso coscienza, “Non c’è problema, Vicedomini, che c’è?”
“Una voce che abbiamo sentito al bar, io e Gemmi, oggi.”
“Che voce?”
“Per i bambini ammazzati, dottò… l’architetto, lì, il nuovo marito della madre… fessava di continuo il padre…”
“Fessava? Che vuol dire fessava, Vicedomini?”
“Che lo torturava, tipo… lo umiliava… non lo so, me l’ha detto Gemmi…”
“Vessava. Deve aver detto vessava. Comunque, continua, Vicedomini”, spronò Camporosso, chiedendosi che diavolo di cognome fosse quello.
“E comunque l’architetto, lì, diceva sempre a quell’altro che se teneva le palle doveva portare via i bambini, ma no portarli via che poi se li andava a riprendere, proprio ammazzarle, le creature, doveva spararle, che così faceva capire alla moglie che era un uomo…”
“Capisco”, Cristiano era compiaciuto delle sue intuizioni e disgustato dall’aver avuto ragione, mentre un rutto acido di baffi Moretti gli tornava sotto al naso, “Scusa… e qualcuno ha testimoniato?”
“Nessuno è disposto a farlo, perché so’ solo chiacchiere, e le chiacchiere fann’e’ppiruocchie, dottò… e poi lo sapete, sono case popolari, arabi e meridionali, lì lo sbirro non lo vuol fare nessuno, è pieno di omerdosi, come si dice…”
“No, no, è giusto, merdosi. Merdosi omertosi…”
“E allora, che putimme fa, dottò?”
“Tu puoi darti una calmata, e smettere di parlare in dialetto”, che Vicedomini aveva bisogno di molta calma per l’italiano, mentre l’agitazione era dialettale, “E noi non facciamo niente, senza testimoni. La Polizia ha le mani legate…”
“Speriamo in Dio, dottò…”
“No, speriamo negli uomini”, concluse Cristiano, con un bagliore crudo negli occhi.
L’architetto Santi parcheggiò in strada, la solita notte popolata di arabi del quartiere San Siro, e nel cortile buio del supercondominio dove abitava la nuova compagna, in attesa che la sua villetta a Paderno Dugnano fosse rifinita, ebbe una sensazione, ovattata: un bambino gli sparò con una pistola dello spazio intergalattico. Per un attimo la notte inghiottì il respiro di Santi, poi riconobbe il piccolo marocchino, e ringhiò: “Vaffanculo, mohammed di merda!”
Il Pugile e l’Ispettore stavano cenando a casa del Gatto, il quale manifestava una certa ansia di sbolognarli fuori. Mangiavano kebab e pizza, mentre Cristiano spiegava di voler prendere in disparte l’architetto, farlo coricare di mazzate da Felice Lo Russo e costringerlo a confessare sotto minaccia: probabilmente non avrebbe pagato comunque, ma almeno la soddisfazione di rompergli la faccia…
Il Pugile si mostrò entusiasta e deciso, e fissarono il tutto per la notte stessa. Il Gatto non li avrebbe seguiti, si disse debilitato dalla lunga degenza, e la sua convalescenza comparve sulla porta in minigonna a pieghe, calze autoreggenti, camicetta sbottonata sotto un cappotto rosso Benetton: aveva la faccia sana e sorridente di Lulù, la convalescenza, un sorriso sincero e pulito, ammiccante al peccato solo nel colore del rossetto. Cristiano e Felice lanciarono al Gatto un’occhiata dubbiosa se deriderlo o mandarlo a cagare.
Santi salì le scale, che nelle case popolari non c’è l’ascensore, e notò che ai suoi passi facevano eco quelli delle corse su e giù di alcuni bambini. Ma non una voce, non uno strillo, solo il rumore di quelle corse singhiozzate per la tromba delle scale. Bussò alla porta di Carmela Zappulla, e quando imprecò che nessuno veniva ad aprirgli, si rese conto di aver bussato alla porta di Duilio Zammataro. Rabbrividì.
Inquieto, salì le scale ancora, il suono di mille organetti hammond sintetici lo assordava acuto ritmato da quei passetti.
Carmela aprì, e non era la donna che aveva scopato fino a quella mattina. Il viso scavato, i capelli in disordine, scalza, con indosso una tuta coperta da pallini di lanugine. Non era più una Milf. Era una madre che s’era resa conto d’aver fatto ammazzare il frutto del proprio grembo. Santi la guardò, irrequieto ed ancora spaventato, ma prima di preoccuparsi per Carmela, si rammaricò che quella sera non avrebbe chiavato. Poco male, coi brutti pensieri che aveva avuto e quel freddo polare non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di tirarlo su dritto.
“Che c’è?”, chiese con una sicurezza incrinata da qualcosa.
“Ti rendi conto? Ti rendi conto che abbiamo ucciso i figli miei? Ti rendi conto?”, ed esplose in lacrime.
“Li ha ammazzati quel coglione di tuo marito, i tuoi figli!”, sbottò Santi, “E ci ha fatto un favore, a tutti e due, io non voglio figli miei, figurati i figli suoi!”
“Oddio, aggia accise glie figlie mie…”
“E sta’ zitta, Cristo! O vuoi che ti butti giù dal balcone?”
Poteva sembrare una frase detta così per dire nel trasporto dell’ira. Ma Carmela comprese, qualcosa nella voce, qualcosa negli occhi, che quell’uomo non stava parlando a vanvera, così per dire. L’avrebbe gettata seriamente dal balcone, ed avrebbe testimoniato che s’era suicidata per il dolore della perdita dei figli. L’avrebbe passata liscia, ora che le aveva rovinata la vita, al primo rimorso l’avrebbe annullata, per sempre.
“Sai, amore”, cercò di calmarsi Carmela, “Ho visto Dylan, prima”
“Che?”
“Dylan. Nella sua cameretta. Con Sharon…”
“Tu sei pazza!”
La tazza del cesso gorgogliava. Feti cagati nelle fogne, neonati incastrati nei cassonetti, poppanti strangolati, bimbetti stuprati e sgozzati, in fila, riemersero dalle acque putride del water closet. Le loro carni erano putrescenti, i loro aliti non acidi di latte ma di ratti e rifiuti. Rifiuti! Ecco cosa erano, o perlomeno cosa erano stati. Squittivano rosicchiando la porta del bagno, rotolarono fuori e si arrampicarono sulle pareti del corridoio, fin nella luttuosa cameretta di Dylan e Sharon. Là Dylan e Sharon giocavano, lei con un’imitazione di Barbie, lui sparando a quegli invasori alieni con la sua pistola dello spazio intergalattico.
Il branco di morticini fissava idrofobo Carmela e Santi che attraversavano il corridoio: “Ti dico che li ho visti, guarda anche tu!”, insisteva Carmela.
Santi infilò la testa nella cameretta dei suoi figliastri, accese la luce dell’interruttore, ma la lampadina lampeggiò tre volte e si fulminò. Con una lama di luce infiltrata dal corridoio, Santi entrò nella stanza e, nonostante la sensazione di essere al banco d’accusa in un tribunale sovraffollato, appurò che nessuno era lì. Fu quando Dylan lo mirò in fronte con un raggio fotonico che Carmela lo colpì, alla nuca.
Santi non capì, e non avrebbe mai capito, cosa lo avesse colpito e lo avrebbe ammazzato. I morticini incitavano Carmela, Dylan e Sharon si sollevarono in piedi, a guardar silenziosi l’esecuzione ormai sentenziata. Carmela, con le forbici recuperate poco prima in corridoio di fianco al telefono, colpì di nuovo il suo nuovo compagno, al collo, ed ancora, ed ancora, finchè la testa di Santi non si disfò in colate di materia cerebrale tra fiotti di sangue.
Il primo colpo, la paura. Il secondo, di terrore. Il terzo, ormai è fatta, al quarto, indietro non si torna. Il quinto, la vendetta, il sesto di rimorso, sette colpi fatti d’ansia, otto colpi di nervoso. Al nono, poi, aveva smesso di contarli.
Quando Santi smise di avere qualsiasi tipo di reazione, i morticini, che avevano strillato garrito squittito furiosi ed eccitati come babbuini, si quietarono: raccolsero l’anima dell’architetto e quella di Carmela, ormai condannata, strappandole dai loro corpi vuoti, e zampettarono in fila, seguiti dagli spettri spaesati di Sharon e Dylan, coi loro trofei fino alla tazza del cesso, per trascinarli ai loro inferi e divorarli.
Ecco che fine fanno i bambini quando muoiono ammazzati.
Camporosso parcheggiò in via Zamagna, scesero dalla sua Uno antiproiettili lui ed il Pugile, percorsero via Tracia di fretta a capo chino, decisi. L’ispettore si sarebbe giocato il tesserino, ma era troppo convinto d’avere ragione, di essere nel giusto, contava su questo, e solo per questo azzardava l’azione.
Al citofono non rispose nessuno. Cristiano pensò, sono usciti a festeggiare, e pigiò il pulsante Marchesi risoluto ad aspettare Santi e Carmela sul pianerottolo. Salirono le scale, Camporosso faceva strada. Giunti al piano, per uno strano riflesso, girarono la maniglia e la porta di casa Zappulla si aprì: le luci accese erano smorte, ed in fondo al corridoio Cristiano ebbe la strana impressione di scorgere una fila di gremlins ridacchiare zompettando via veloci.
Cristiano s’era salvato il tesserino: trovò Carmela Zappulla in stato confusionale davanti al cadavere dalla testa maciullata dell’architetto Santi. Forse Santi gli fece meno ribrezzo in quel momento che non nel suo studio. Carmela non parlava e non si muoveva. L’ispettore Cristiano Camporosso avrebbe archiviato il caso Zammataro come strage immotivata, avrebbe mandato la Zappulla in un ospedale psichiatrico, ma non avrebbe mai risolto i due casi, non avrebbe mai avuto una risposta definitiva su quella serie di vite interrotte, sui perché, su che fine fanno i bambini morti ammazzati.
Grazie a Dio.