lunedì 8 febbraio 2010

Dio della Città

DA DOMANI QUESTO RACCONTO LO TROVATE SU MILANOX, IL FREEPRESS ERETICO!!!!
The Punisher, Authority, frullato con Urania anni '70, annegati nella mia Metropoli.
Ecco un raccontino fresco fresco, buzzatiano, warrenellissiano, fantasie nere...
E presto, qui leggerete anche fumetti!
Dio delle città e dell'immensità
se è vero che ci sei...
P.Bitta

"Così mi ammazzi!" Non era una preghiera. Non un'invocazione. Era una constatazione, e voleva condividerla col suo carnefice, voleva avvisarlo, perché non dovesse pentirsi un giorno, perché avesse la possibilità di scegliere, e scegliendo, condannarsi per sempre o redimersi in anticipo, anzi, forgiarsi, temprarsi, scolpirsi un carattere da non compiangere. E invece continuava. Un calcio alle costole, un suono fratturato, parole soffocate smorzate sulla lingua. Il tacco degli scarponi gialli, gli stessi in cui i ragazzi infilano la tuta, abbattutto sulle mani poggiate a terra. Perché? Era una domanda inutile, superflua, perchè soffriamo? Perché odiamo piangiamo violiamo? Un calcio, un altro, dritto sui denti, il mondo s'appannava, la strada trafficata da troppe luci per definirla davvero notte sulla città, una ragazza, una gonna corta fin sopra le natiche, tacchi alti, trucco pesante, in fondo in quel momento la trovava bella, e allibita dagli eventi.
Stava soltanto attraversando la strada. Di notte, col semaforo verde, una strada ad alto scorrimento, il tratto urbano della superstrada per Como. Attraversava la strada col terrore che quei Nazgul di lamiera gli si avventassero contro, lo artigliassero per portarlo via. Aveva quasi guadato il fiume d'asfalto e metallo e plastica e luci, che a momenti uno di quei mostri lo stirava, lo stendeva, lo investiva. Allargò le braccia in segno di disappunto e paura, tanta paura, e l'auto s'arrestò. Scese un ragazzo. Grosso, ma volgare. Qualcosa di volgare. Sbraitò qualcosa sbagliando i congiuntivi, abbaiò qualcos'altro sottolineando le bestemmie. Dio, si chiese, perché rendi tutto così scontato, perché non mi stupisci più, perchè sono tutti così terribilmente uguali, banali, prevedibili? Guardò il ragazzo mentre la pelle si tingeva d'oca, quello s'avvicinava. Ebbe il tempo d'avvertire la saliva sputacchiata sul volto, di provarne ribrezzo, quando arrivò la testata. Forte, a spiovente, sul naso. Le luci della notte si elevarono a potenza tingendosi di porpora.
Cosa aveva bisogno di capire? Nulla. Non c'è niente da capire nell'essere umano. Eppure raccolse i dati, sciocchi: la prostituta che batteva al semaforo, il ragazzo doveva essersi distratto a guardarla, procedeva lento, per fortuna, forse proprio per caricarla. Forse ora provava vergogna di essere stato colto col pensiero nel peccato, e sfogava la frustrazione per il coito immaginato e interrotto sul malcapitato che stava per investire, ovvero lui. Poveretto, a questo punto gli faceva pure un poco pena. Mentre gli triturava le ossa, lacerava le carni, spappolava gli organi interni a botte, gli faceva un po' pena. Schifo non tanto, schifo gli facevano gli automobilisti che di fronte a tale spettacolo avevano ingranato la prima appena ricevuto il via verdescente, e sgommato. Ebbe pietà, e ripetè: “Così mi ammazzi...”, poteva ancora fermarsi, avere un piccolo ripensamento, rendersi conto di stare esagerando, frenarsi. Due ginocchiate all'arco sopraccigliare sinistro.
Il sangue bagnava la strada, macchiava i gialli scarponi della morte. La puttana era bianca e non era la cipria, abituata a violenza e disgusto, educata a ingoiare per sopravvivere, non vomitò, ma si mise a strillare. Strillava e correva, lontana. Strillava e correva, sotto le ruote di un furgone carico di birra olandese e salsa y merengue lanciato verso il cuore della città. Quale cuore? Quello malato corrotto inquinato, spento, e dannato.
La morte aveva avuto il suo tributo, così allarmato egli ripetè al ragazzo: “Così mi ammazzi...”
Intendeva, attento, così rischi di compiere un'azione che non vorresti mai, che rimpiangerai, che ti divorerà sullo spiedo da kebab del rimorso, che ti sfibrerà come una malattia del sangue, che ti...
Due pugni al cervelletto, alla base della nuca. Il secondo non lo sentì. Morì col primo.
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“Coglione, con chi cazzo credeva d'avere a che fare?” bofonchiò il ragazzo divorando la strada dopo esser tornato fulmineo alla guida, “Che cazzo credeva, gliel'ho fatta vedere, faccia di merda...”
“Eh, già, gliel'hai fatta vedere, già...” assentì il passeggero seduto dietro.
“Gliel'ho fatta vedere sì, a quel testa di cazzo” rispose il ragazzo che pensava di parlare da solo, saturo di adrenalina, e invece conversava con un interlocutore seduto alle spalle, solo che seduto alle spalle non doveva esserci nessuno. Si voltò di scatto: “E tu chi cazzo sei?”
“Non mi riconosci? Forse mi hai sfigurato con tutte le botte che mi hai appena dato? Con tutte le ferite che mi hai inferto? O non mi hai neanche guardato in faccia prima di massacrarmi, tanto poco ti interessava chi fossi? Tanto poco t'importava...”
“Che cazzo vuoi! Che cazzo vuoi! Non ti sono bastate quelle che t'ho dato? Ne vuoi ancora?”
“Non capisci, continui a non capire. Hai ucciso anche quella povera prostituta. Prima volevi possederla, e ora non t'importa più d'averla portata a morte. Eppure t'avevo avvisato. Eppure...”
“Chi cazzo sei! Chi cazzo sei! Come hai fatto a rialzarti? Come hai fatto a infilarti in macchina? Io t'ho steso, non ti reggevi più! Chi cazzo sei?”
“Io sono Metropoli. E sono stanco di nutrire parassiti come te. Sono stanco di sentir contaminarmi il sangue dal male che mi porti. Sono Metropoli, e sono stanco di te.”
L'auto si schiantò contro un lampione, che piegandosi sembrò avvinghiarsi alla sua carcassa di metallo. Le fiamme la invasero immediatamente, e un ululato lacerante le accompagnò finché i pompieri non le domarono. I domatori del fuoco individuarono un cadavere carbonizzato seduto al posto di guida.
Poco più avanti egli attraversava la strada, terrorizzato dalle auto in corsa e da chi le guidava. E dalla mole di lavoro ancora da sbrigare.

martedì 2 febbraio 2010

24.12.2009

Dedicato a chi c'era davvero in quella sera vera (Mitch, Spiwi, Seps, Toni)

Sento l'odore del sangue rappreso e la pelle tirare, mi tocco il naso e sfiorandolo duole, lacrimo quel dolore rigando di gelo il mio viso e le lacrime bruciano nelle fessure solcate dal freddo e, sì, dai cazzotti.
È la notte di Natale ed irrequieto ancora barcollo per strada, due passi per scacciare quella maliconia che suole venir per le feste, il fantasma dei natali passati, lo spettro incombente del natale presente, un natale senza presenti, colmo di assenti. Ritrovo lo spirito in una bottiglia di grappa, mi disgusta ma condividerla con chi te ne offre la rende corroborante, sotto la pioggia scrosciante, nei portici di un parco, il mio parco, brindisi d'acquavite fatta in cantina e una crostata ai mirtilli impastata in cucina, fa freddo ma come scalda dividerlo, anzi no, non è il mal comune che condiviso supplisce con gaudio, è un piccolo bene che condiviso si eleva a potenza per ogni convitato, lontani dai locali tres chic, dalle luci degli alberi, dalle cene in famiglia, condotti dalle nostre inquietudini a trascorrer la vigilia di Natale per strada, come ogni altro giorno, come ogni altra notte. È lei che ci accoglie quando vogliamo fuggire, combattere, e lei che ci culla quando oscilliamo sconfitti, rifiutati, rifiuti noi siamo e opponiamo, rifiuti ad appartenere a chiunque altro che non sia noi. E tra di noi, ogni singolo appartiene al singolo e si offre, si dona, ma la moltitudine non lo possiede, perchè non siam cose da poter possedere, siamo acqua, se ci tieni in bottiglia prima o poi ci guastiamo, se ci porti in tasca piano piano scorriamo, ti puoi immergere in noi, essere noi, avere noi mai.
Il barbone che dorme per terra non ci fa pena, ci fa specie, come farà a resistere al freddo, chissà, contento lui, contenti tutti, gli versiamo la grappa, gli tagliam la crostata, ben venga, sono piccoli gesti, e non è Natale a istigarli, ma che sia Natale li rende un simbolo, ed a noi i simboli piacciono, perchè un gesto simbolico significa, ed è un significato che da sempre cerchiamo e sfuggiamo. A mezzanotte nascerà Gesù Cristo, ma nessuno udirà il suo vagito, soffocato dai fruscii della carta regalo strappata da televisori grossi come un bambino di vent'anni. Io lo sento che strilla. Vorrei fare qualcosa poiché mi strugge il pianto degli infanti. Non trovo di meglio da fare che un gesto simbolico, che significa. Che sono uno sciocco.
Il gigante ha trovato una macchina sul passo carraio, non può entrare nel box con la sua, cala dall'auto dopo aver strombazzato per bene, io m'avvicino pian piano, in silenzio, l'osservo, bestemmia, con un destro strappa lo specchietto all'auto in divieto, bestemmia di nuovo e affonda una pedata nella portiera. Rimonta in macchina, la sua, infila la retro e poi sgomma in avanti, sposta la vettura in divieto in un cozzar di lamiere, finalmente si apre la via, entra nel passo carraio, cala di nuovo e con il blockster sfonda il parabrezza dell'auto in divieto. Mi avvicino. “Dai”, gli dico, “Hai ragione, è fuori di dubbio, ma è natale, sii” e mi becco un diretto sul naso senza preavviso, vado giù lungo per terra, sento l'odore del sangue che scotta, e non vedo più niente, forse la pioggia che si tramuta in neve, o forse i bagliori del mio fallout cerebrale.

Non so quanto tempo è trasorso quando mi tiro in piedi, sento l'odore del sangue rappreso e la pelle che tira, barcollo per strada seguendo la scia delle mie irrequietudini, sta uscendo la messa, mezzanotte è passata, affronto la folla in senso contrario, entro nel templio, vedo la capanna ed il giaciglio di paglia, vedo il bambino, è appena arrivato, mentre tutti festeggiano lo sollevo e lo copro con la mia giacca, lo porto con me, lo traggo in salvo, lo porto lontano, non è un atto vandalico, non un atto blasfemo, è un gesto simbolico.